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LA ROCCA DEL CAPPELLO DI
ALBANO DI LUCANIA

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La località, le opere

Non siamo sull’isola di Pasqua ma sulla sponda sinistra del fiume Basento, all’altezza di Albano di Lucania (PZ), dove questo si restringe fra le gole rocciose per poi immettersi nella piana mela-puntina col suo alveo ghiaioso e smisurato. Qui, sull’orlo di un precipizio e di fronte alle cosiddette Dolomiti Lucane, torreggia un immane monolito in arenaria alto più di dieci metri, sulla cui sommità, come in bilico fra cielo e terra, poggia un enorme masso che dà l’idea di un cappello di fungo ombrelliforme, dal quale il monolito prende il nome di “Rocca del Cappello”.

Si tratta di un fenomeno geologico analogo a quello della Val Maira, presso Villa S. Costanzo (CN), detto l’Immagine del pagano, ed ai Camini delle fate della Valle degli eremiti, in Cappadocia.

Di solito questi massi erratici sono i segni imperituri che denunciano la diffusione della venerazione dei sassi, sorta in età preistorica e radicatasi nella coscienza religiosa umana. Ma, ad Albano di Lucania le istoriazioni presenti nella zona ci inducono a credere ad una sovrapposizione di culti non pertinenti la “saxorum veneratio”. Sul lato S.E. del monolito, infatti, è inciso un cerchio con ai lati due brevi scanalature a destra. L’area circostante è caratterizzata dalla presenza di alcune grotte e da mura di contenimento a secco, attraversata da un sentiero che pare dalla località Monticello (740 m.s.m.) e discende con strani giri fra le balze scoscese per circa due chilometri, concludendosi davanti al monolito. Questo sentiero, in alcuni tratti, si presenta basolato con gradini antropometrici, costituiti da blocchi squadrati di pietra non del posto, e protetto da mura a secco. Percorrendolo dall’alto in basso si nota sulla sinistra un primo monolito alto quasi sette metri, detto la “Rocca Molaria” per la sua forma rotondeggiante. In fondo al primo tratto di gradini, sulla parete rocciosa di destra, vi è inciso un cerchio, diametro un metro, orientato verso dove sorge il sole. Pochi metri più giù, sopra un gradino di cm. 45 x 30, è stilizzato un simbolo che sembra un fiore a quattro petali o una palmetta. Ancora più in basso, sulla sinistra delle rocce disposte a criniera, al lato S.O. dell’apice di altro monolito è inciso un piccolo cerchio. Sullo stesso monolito è stata ricavata una specie di panchina, che la gente del posto chiama: “Seggia del Diavolo”. Questa panchina, composta di schienale e poggiapiedi, può ospitare comodamente tre persone; per accedervi, però, bisogna utilizzare una lastra di pietra poggiata sulla parete rocciosa dato che la panchina stessa si trova a circa due metri dal suolo. Inoltre, lungo tutto il sentiero vi sono cinque coppie di vasche scavate nella roccia. Queste ultime sono state ricavate su due livelli e rese comunicanti mediante un foro allo scopo di favorire la decantazione dell’acqua che si raccoglieva nella vasca del livello superiore. Infine, al lato S.E. della Rocca del cappello è scolpito un grande volto umano e nelle adiacenze, sul fianco di altro spuntone in arenaria ben levigato, è inciso un segno di croce latina.

 

L’ipotesi del Ranaldi, i reperti.

L’assoluta mancanza di fonti storiche, tradizioni, miti e leggende riferibili a queste opere, appena conosciute da pastori e cacciatori che si avventurano tra quelle balze rocciose degradanti, permette al massimo di avanzare delle ipotesi alquanto congetturali. La prima di queste ipotesi fu avanzata dal Prof. Francesco RANALDI, il quale, al tempo in cui era direttore del Museo Provinciale di Potenza, avendo rinvenuto dei manufatti in selce poco più sopra il corso del Basento, per accertare se fossero del luogo o provenienti da scorrimenti, spostò la ricerca in alto lungo il crinale roccioso dove: “su un monolito, superiore per dimensione e soprattutto per altezza alle rocce vicine (la Rocca del Cappello), gli apparve sulla parte S.O. del cappello. “il tracciamento di due cerchi concentrici. Dal lato opposto del masso nessuna traccia di rilievo, il che farebbe pensare all’intenzionalità della celebrazione di un simbolo legato ad un astro: Sole o Luna. Simbolo tanto ricorrente nella gestazione mitico-religiosa dell’umanità preistorica e soprattutto protostorica”. Definì: “enigmatica e colossale l’effigie realizzata dall’uomo preistorico sul monolito” e concluse: “la scoscesa arida area, in cui è inserita la roccia oggetto del nostro interessamento, sembra la meno adatta alla dimora e alla convivenza umana e che meglio vedremo come sede di una finale considerazione a far pensare che il sito fosse luogo di culto e di riti in rapporto all’acqua, al sole, alla vita e alla morte”.

il 19 aprile 1998, nel corso di un’ennesima ricognizione, Il Sig. Michele BENEVENTI, agricoltore del luogo, ci faceva dono di alcuni frammenti di selce (scarti di lavorazione), da lui raccolti sul posto, insieme ad una lastrina di pietra di colore rosso (cm. 2 x 2) sulla quale à inciso un monogramma somigliante a un nodo di stoffa.

Le nuove ipotesi

Alla luce delle attuali conoscenze riteniamo che presso la Rocca del cappello di Albano di Lucania vi sia la presenza di tracce pertinenti a due culti pagani, di cui il primo preistorico e prettamente indigeno, il secondo di origine orientale importato in tempi storici. Il culto indigeno è attestato dall’enigmatico volto umano scolpito al lato del monolito, molto simile a quello scoperto a Contursi Terme (Sa) ed a quello scoperto a Carlentini (Sr), dai quali si presume abbiano avuto origine quelli stilizzati dai Neolitici sui vasi funerari trovati nelle tombe del Materano, della Puglia e della Sicilia’, Da ciò presumiamo si possa ipotizzare che anche presso la Rocca del cappello, in età protostorica, si praticasse ancora il culto dell’antenato mitico e rappresentato da una “entità totemica” di significato apotropaico. dalla quale si credeva discendessero tutti gli appartenenti al clan. A questo totem il clan si sentiva legato da una parentela d’essenza ed esso rivelava una dimensione religiosa unificaste, pur non essendo un dio.

Per quanto riguarda il secondo culto a cui si attribuiscono le altre opere e relativi simboli, realizzati con non poche fatiche in queste anfrattuosità, ci chiediamo: Quali erano le spinte e le motivazioni per un tale comportamento? Se si trattasse di opere e simboli pertinenti a un culto, in onore di quale divinità veniva praticato? E quali gli eventi particolari in cui avevano luogo le cerimonie religiose?

Nel cercare le risposte debbiamo tener presente che l”’Homo religiosus” non nasce improvvisamente nel Paleolitico superiore, ma affonda le sue radici nell’esperienza originaria di più lontani antenati. Tanto è dimostrato dalla varietà dei rituali con chiari riferimenti a una vita ultraterrena a partire dalle sepolture neandertaliane.

L’insieme delle opere e le caratteristiche dei simboli lasciano credere che si tratti effettivamente di un culto legato agli astri, le cui origini possono trovarsi in quella civiltà che migliaia di anni addietro mise in atto un misterioso sistema di pensiero ed utilizzò una forma esoterica di astronomia che fu una sorta di “scienza dell’immortalità”, intesa a liberare l’Umanità dalle fauci della morte. Questa scienza, basandosi sulla dualità e l’interpretazione della terra e del cielo, del mondo e del paradiso - materia e spinto - spingeva l’iniziato a spogliarsi dell’attaccamento al mondo dei sensi e ascendere verso l’alto, fino ai regni celesti. Una filosofia religiosa che fa parte di un antico insegnamento spirituale che si diffuse in India, in Giappone, nel Messico, in Indocina, nelle isole del Pacifico, in Sud America, nel Nord Europa, in Etiopia e in Egitto. Un fenomeno a tutt’oggi attestato dai tantissimi monumenti sacri che, secondo la dottrina del dualismo, erano intesi a mantenere un legame tra cielo e terra.

Questi monumenti o templi, grandi come città, erano progettati a imitazione del cielo e, pertanto, partecipi di quella perfezione che spande sugli abitanti l’influenza benefica delle stelle.

Nei Testi Ermetici egiziani si legge: “Dio è contenuto in sé stesso e deriva da sé stesso. Non si muove nel tempo ma nell’eternità. Nell’eternità tutti i movimenti del tempo hanno origine. Dio e l’eternità contengono un cosmo impercettibile ai sensi, Questo cosmo sensibile (l’universo fisico che vediamo attorno a noi) è stato fatto a immagine dell’altro cosmo e riproduce in copia l’eternità”’. Da qui lo studio profondo e meticoloso sul procedimento cosmologico noto come la “precessione” (la graduale rotazione delle dodici costellazioni dello zodiaco sullo sfondo del quale il sole sorge all’equinozio di primavera), attraverso la cui conoscenza si sperava di scorgere la via che porta in cielo,

Il potere divino di questo grande ciclo cosmico , come simbolo di rinascita e rinnovamento, dopo lunghi periodi di apparente estinzione, e quindi di vita dopo la morte, sembra essere ripetutamente suggerito dal ritorno dei corpi celesti alle loro posizioni originali. Da questa concezione la presenza di simboli stellari che facevano parte di un’antica e molto diffusa idea religiosa: “Tutto il mondo che si trova sotto è disposto e pieno delle cose che si trovano sopra”. Persino i fiumi erano considerati la controparte della Via Lattea, ritenuta la strada che conduce al regno ultraterreno: il Duat per gli Egiziani, la Terra del mistero per i Messicani, il Xibalba per gli antichi Maya dell’America centrale. Questa credenza associata ad una ricerca gnostica dell’immortalità dell’anima, induceva i faraoni a celebrare riti lungo le rive del Nilo al solstizio di giugno

Gli stessi simboli stellari di solito erano orientati verso quelle stelle o costellazioni in cui si credeva fossero poste le divinità: per gli Egiziani Iside era posta nella stella Sino del Cane Maggiore. Osiride, suo sposo, nella stella più lucente della cintura di Orione e il loro figlio Horus era posto nel Sole.

Alla luce di quanto sin qui accennato, eppur col timore di fare un gioco vano, basato su falsi concetti evoluzionistici e quindi antistorici, ipotizziamo che questo secondo culto presso la Rocca del cappello venisse praticato in onore di Iside, la dea egizia portatrice di compassione e di speranza.

Secondo la tradizione il culto millenario di Iside, partendo da Menfi e da Alessandria si diffuse in tutta l’area del Mediterraneo. Una delle principali tappe toccare dalla diffusione del culto isiaco fu probabilmente Delo, importante nodo commerciale, in cui esso era fiorente già nel III sec, a. C. con tre templi dedicati alla divinità egizia. La Campania fu certamente altra tappa decisiva, Pozzuoli principalmente, dove il culto venne introdotto per il tramite dei commerci che intratteneva con Odo (fine II sec. a.C.). A Pompei sembra che venisse introdotto non molto tempo dopo, e comunque in epoca sannitica, con la mediazione di Pozzuoli. Gli isiaci ebbero fortuna anche a Roma al tempo di Silla (88 - 78 a.C.) E, benché contrastato da Ottaviano con la lotta portata avanti contro l’Egitto di Antonio e Cleopatra, a partire dall’inizio della nostra era il culto di lside, oltre a schiavi e liberti fu praticato da intellettuali, proprietari terrieri e uomini d’affari in transito sulla Via Appia tra Oriente e Roma. Potrebbero essere stati questi ultimi a portare il culto di Iside ad Albano di Lucania (la Via Appia ne attraversava il territorio), fissando la sede dell’Iseo presso la Rocca del cappello dove una certa sacralità tendeva a conservarsi inalterata. Forse si tenne anche conto che la località, rispetto al centro religioso dell’insediamento esistente a monte, si estendeva lungo l’ “asse reale” nord - sud come si usava in Oriente.

Riteniamo che questa nostra ipotesi sia alquanto sostenuta dai monumenti e reperti attribuibili al culto egizio, rinvenuti lungo la Via Appia, che qui di seguito riportiamo:

•     I due obelischi gemelli di granito rosa di Benevento, i cui ideogrammi, letti per la prima volta , nel 1893 e 1896, dall’egittologo Adolf ERMAN, rivelarono che la veneratissima dea demonizzata dai Longobardi era Iside “Signora di Benevento” e che per lei venne eretto da Lucilius un tempio affinché propiziasse il ritorno in patria di Domiziano. Rutilio LUPO - così oggi viene meglio letto il nome Lucilius - facoltoso industriale di laterizi e proprietario terriero, nel 113 lo troviamo prefetto in Egitto”.

•     Il tempio di Lacedonia ( Av) - l’antica Akedonia sannita e Aquilonia romana - attribuito ai Dioscuri e a Cibele - nel quale vi era un sacrario dedicato a Iside - come risulterebbe da una lapide recante la scritta: “Matris magnae et Syria deae et sacromm Isidis””.

•     La statuetta fittile del Toro Apis trovata nella tomba n.601 dell’antica Forentum (oggi Lavello)”

•     La statuetta femminile panneggiata rappresentante Iside o una sua sacerdotessa rinvenuta nel santuario della dea Mefitis a Macchia di Rossano di Vaglio Basilicata”.

•     La lucerna di bronzo trovata nella non lontana Canosa di Puglia, sulla quale lettere greche incise esprimono formule magiche “Mediante i misteri isiaci i vivi attraversavano il regno dei defunti per attingere alla rinascita”.

Questi monumenti e/o reperti esprimono le esigenze di personaggi legati al mondo egizio oppure le stesse esigenze di coloro i quali: in tempi di profondo turbamento, provocato dall’arido formalismo della religione di Stato romana, trovarono rifugio in concezioni religiose di origine straniera. Da ciò la possibilità che il culto isiaco penetrasse nella parte più impervia della regione lucana, quale l’area della Rocca del cappello, forse pure con la mediazione della confinante Civita di Tricarico, che con Macchia di Rossano di Vaglio intratteneva stretti rapporti di carattere politicoreligioso.
 

Libero esame comparativo

La semplicità e la rozzezza delle opere e dei simboli eseguiti presso la Rocca del cappello lascia credere che la loro realizzazione sia avvenuta in epoca assai remota. Tenuto conto, però, della friabilità delle rocce, dell’opera corrosiva esercitata dagli agenti atmosferici a quelle abitudini e della somiglianza dei simboli con quelli isiaci, riteniamo di essere più vicini al vero orientandoci verso questa divinità astrale.

Il tratturo o “strada cerimoniale”, che dalla curva del Monticello porta alla Rocca del cappello, oltre ai sentieri rituali trovati sul monte Har Karkom, nel deserto di Israele, fa venire alla mente le strade pavimentate con pietre piatte dell’isola di Pasqua, sulle quali, secondo la leggenda , i Moai (le statue giganti), per l’effetto dei mana, combinati da Sette maghi che assieme sedevano sulle panchine di Rano Raraku, camminarono in senso orario attorno all’isola.

Il cerchio inciso sulla parete rocciosa in fondo al primo tratto del sentiero, come la grande Sfinge d’Egitto, è orientato precisamente ad est, cioè dove il sole sorge alle ore 6,30 del mattino dell’equinozio. di primavera. Se questo cerchio dovesse essere il simbolo del sole altro non può essere che l’emblema del dio Horus, colui che rappresentava molte cose, la più importante delle quali era appunto il sole”.

Il cerchio con le due scanalature a destra, scolpito sul cappello della Rocca potrebbe ugualmente rappresentare il “disco solare” con l’aggiunta di corna bovine o piume, appannaggio degli dei celesti, che dà l’idea del tipico disco solare “pteroforo”, che reca due flabelli, motivo di derivazione tolemaica”.

La figura scolpita sul gradino del sentiero, più che “Osiride del grano”” o il “sistro” di Iside”, sembra che voglia rappresentare un “fiore di loto primordiale”, talvolta assimilato al sole nascente, dunque ancora un simbolo del loro figlio Horus (o Arpocrate), il dio bambino grecizzato”, oppure un fiore di loto trasformato a palmetta come quello raffigurato in testa alle sacerdotesse di Iside”.

La panchina, come sostiene Mario SCELZI, non poteva costituire un posto di osservazione, né un sedile usato dai pastori per guardare il gregge e tanto meno che fosse un’opera modellata dagli agenti atmosferici”.Poiché venne ricavata a circa due metri dal terreno, quindi non facilmente accessibile, resta davvero difficile appurarne l’uso a cui fosse stata adibita. Nel tentativo di far luce al riguardo, rammentiamo che di panchine scavate nella roccia, alquanto simili, ne sono state trovate nel Perù e in Bolivia, ed ancora a Rano Raraku, sull’isola di Pasqua. In quest’ultimo posto si trova una grotta aperta nella roccia con una serie di panchine scavate lungo le pareti rocciose.

Dalla tradizione recitata da una tavoletta di un anziano a nome Ure Vaeiko, si apprende che Heke (nome che ricorda l’antico egizio Hekau “magia”), fu costruttore delle strade processionali ed era lui che sedeva al posto d’onore nel mezzo dove le strade si dipartivano in più direzioni”. Non è improbabile che nell’antichità queste credenze , legate al diversi miti, si diffondessero un po’ ovunque. Anche nel nostro meridione troviamo che, a tutto il Medioevo, contadini e pastori evitavano alcuni posti per paura di incontrare esseri fascinosi. Uno di questi posti, ad esempio, era intorno al noce di Benevento dove si credeva che si radunassero streghe e stregoni per celebrare feste magiche e orgiastiche in onore del diavolo.

Le vasche scavate lungo il sentiero che porta alla Rocca del cappello dovevano servire per raccogliere l’acqua piovana usata per le abluzioni durante il rito processionale che si concludeva con la cerimonia religiosa. Queste vasche, nonostante la loro rozzezza, denunciano il principio tecnico messo in atto dagli esecutori non diverso da quello riscontrato presso i santuari egizi”, al fine di favorire la decantazione dell’acqua lustrale, elemento essenziale del culto isiaco, sia per le abluzioni durante le cerimonie collettive, sia per quelle demestiche.

A tal proposito si trova che fra le formule e i gesti che componevano il rito in onore delle divinità astrali era prescritto l’uso di bagnarsi con l’acqua delle stelle, un’acqua ferma che fosse stata tutta la notte sotto le stelle durante il novilunio dei Pesci (l’unico in cui la luna è assente perché nascosta completamente dietro al sole) ed avesse ricevuto e incamerato tutte le energie presenti nel creato. Era una bagno purificatore e vivificatore, la giusta carica per iniziare bene un nuovo anno. Tradizione seguita in vari medi dalle grandi religioni Cristianesimo compreso. Nella liturgia cattolica il rito di lavarsi le dita compiuto dal celebrante durante l’offertorio e quello compiuto dai fedeli, entrando in chiesa, di bagnarsi le dita con l”’acqua santa “per farsi un segno di Croce.

Il monogramma inciso sulla lastrina di pietra rossa, rinvenuta presso la Rocca del cappello, potrebbe forse rappresentare il famoso “nodo di Iside” (un pezzo di stoffa annodato in modo particolare), che fu l’amuleto più diffuso fra gli antichi egizi”. Questo simbolo isiaco, in età augustea tiberina, venne soppiantato dal “nodo di Salomone”, di origine ebraica, che si diffuse insieme al Cristianesimo.

Il nodo di Salomone, infatti, divenne ben presto simbolo cristologico essendo attinente all’anima o alla virtù dell’anima. Da Giotto agli ultimi pittori del Quattrocento sembra diventare un vero e proprio simbolo Mariano e in età contemporanea, ricompare come simbolo di Dio, nel Suo essere centro assoluto e raccordo della Trinità”.

Per quanto riguarda il segno di croce latina inciso sullo spuntone roccioso la maggior parte degli studiosi sono soliti attribuirlo all’opera di qualche pastore. Questo modo di pensare, a parer nostro, scaturisce dall’antica abitudine di immischiare i pastori nei vari contesti storico-religiosi. Da un nostro esame comparativo, eseguito portandoci sul posto, il segno cristologico inciso presso la Rocca del cappello di Albano di Lucania trova precisi raffronti con quelli trovati davanti alle grotte della Sperlonga di Sicignano degli Albumi (Sa), entro le quali vi sono due buche cultuali di età neolitica, e quelli trovati davanti alla chiese paleocristiane rupestri della Murgecchia di Matera. Un’ipotesi più accreditata al riguardo è che questi segni facciano parte dell’attività incisoria rifiorita nell’Alto Medioevo in molte località e segnatamente in alcune di quelle che già conobbero l’espressione preistorica. Attitudine questa testimoniata ovunque e confermata fino ai tempi recenti: croci, date, monogrammi cristiani vengono imposti sui monoliti, strutture pagane o rocce, quale opera di scongiuro, esorcismo e nel contempo risacralizzazione dei luoghi”. Se questo segno di croce sporadico non dovesse far parte della predetta attività incisoria potremmo essere indotti a credere che l’elemento operante da cui mosse la volontà dell’esecutore, a pensare e a realizzare il segno di Croce per simboleggiare il Cristo, altro non fosse che il “Fattore divino”, altrimenti avrebbe inciso un simbolo qualsiasi, che la natura eccezionale del luogo gli avrebbe potuto ispirare.

 

Altre considerazioni, la cerimonia religiosa

Le opere ed i simboli sin qui descritti non possono essere soltanto delle coincidenze a sostegno della nostra ipotesi. E’ stato accertato che gli antichi Egiziani seguivano una tradizione in base alla quale nessun sito era sacro se non veniva edificato sulle fondamenta di un sito già precedentemente considerato sacro. Tradizione ampiamente espressa nel grande tempio di Horus edificato sulla sponda del Nilo, a Edfu nell’Alto Egitto”.

Inoltre, Nei Testi Funerari egizi si trova che la Via Lattea era considerata una sorta di Nilo celeste. Da ciò si ha motivo di credere che la Rocca del cappello, scelta per il culto isiaco, avesse una opportunità in più favorita dal vicino fiume Basento, che per i nuovi seguaci poteva ugualmente rappresentare la controparte della Via Lattea o, se non altro, costituiva una fedele imitazione della egizia “via d’acqua tortuosa”, ossia il Nilo”.

Infine, come si usava in Oriente, il percorso fisso per le processioni doveva congiungere un altro luogo di culto non necessariamente dedicato alla medesima divinità”. A questo proposito si ricorda che alcuni storici del passato hanno affermato che alla periferia S.E. del centro abitato, dove la extramurale confluisce con la provinciale Marsicana 16 (892 m.s.m.), esistevano i resti di una cinta muraria costituita da grandi massi di pietra informi. Questa cinta fortificata doveva essere il luogo di residenza e di culto della primitiva comunità. Da lì alla località Monticello, in tempi non lontani, si vuole che il percorso processionale sia stato coperto dalla strada provinciale che porta allo scalo ferroviario.

La cerimonia religiosa annuale, che secondo il rituale si svolgeva alle prime luci del giorno”, coincideva probabilmente con l’equinozio di primavera, 21 marzo circa, sebbene fosse governato dall’Ariete per via della precessione degli equinozi. Lo scopo principale della cerimonia era quello di assistere al sorgere del sole, momento in cui l’orizzonte si purificava e le stelle di Sirio e Orione venivano avvolte nel Duat”. Gli adepti guardavano al cielo alla ricerca della via che avrebbe permesso alla loro anima di trionfare sull”’afflizione della morte””. Ognuno di essi, per mezzo d’una serie di raggi immaginari, credeva di poter collegare la fronte a una stella o un’orbita celeste. In quell’atmosfera di meditazione, di intensa concentrazione e di tranquillità contemplavano i misteri del cosmo per raggiungere la conoscenza dei segreti più profondi, nella speranza che il portale celeste dell’orizzonte si aprisse per essi e gli dei, felici di incontrarli, li portassero in cielo con la loro anima”.

Meditare durante il plenilunio dell’Ariete significa meditare per la propria risurrezione, guarigione, nuova vita. Tutti i rituali di crescita e di aumento sfruttano, infatti, la forza della luna crescente e la massima potenza con la luna piena. Non a caso la Pasqua di resurrezione dei cristiani cade la prima domenica successiva alla prima luna piena dopo l’equinozio di primavera.

L’arrivo del cristianesimo

Mentre a Benevento i Longobardi, giunti nel 571, per accreditarsi come neofitici cattolici, distrussero molte tracce del culto di Iside (la madonna pagana ridotta progressivamente a entità negativa e fatta strega)”, ad Albano di Lucania lo stesso culto sembra sia cessato prima che l’imperatore Teodosio I decretasse la fine dei culti isiaci (392)”, giacché il Cristianesimo doveva essersi già affermato in Lucania se, nel 238 di Cristo, un tale Filippo venne consacrato Vescovo di Venosa e, verso il 300, un altro cristiano Romano reggeva la Diocesi di Acerenza”.

Intanto, per dare sfogo alle ansie ed ai sentimenti religiosi della comunità, si creò un altro percorso rituale sul versante opposto del paese, quello che porta alla contrada Rifoggio, dove sono ancora visibili i ruderi di una chiesa paleocristiana detta “grotta dell’Annunziata”. Anche in quest’altra località, non distanti da detta chiesa, esistono due vasche singole scavate nella viva roccia, molto più grandi di quelle a coppia lungo il percorso rituale della Rocca del cappello; evidentemente non servivano soltanto per le abluzioni ma forse anche per il battesimo mediante immersione dei primitivi cristiani.

Dati Storici ci portano a conoscenza che la grotta dell’Annunziata venne soppiantata da altro tempio dedicato a Santa Maria del Rifoggio con annesso monastero della Thèotokos, fondato dai monaci Basiliani di rito greco e, in seguito, distrutto dal Saraceni che, annidatisi nel borgo fortificato di Pietrapertosa (872), tiranneggiarono sui paesi e villaggi circostanti”. La popolazione del villaggio, stanca delle scorrerie saracene, ripiegò nel centro abitato di Albano di Lucania, lato occidentale del paese, dove il nome di Rifoggio è ancora presente nella toponomastica.

In seguito si istituì altro sentiero processionale sullo stesso versante del paese: quello che porta alla ristrutturata chiesetta della Madonna delle Grazie”. Qui, una volta all’anno (1’ luglio ), la popolazione si reca in processione cantando: “Ai tuoi pie’ Maria diletta”, allo stesso modo di quando si portava alla Rocca del cappello cantando le “aretalogie” . inni composti in onore di Iside.

In questo giorno di pellegrinaggio si vive un brivido di realtà, sembra che vibri una luce che rievoca un inno alla natura certamente di un antico culto.

Con l’affermarsi del Cristianesimo l’area della Rocca del cappello, che secondo i sostenitori della nuova fede continuava ad emanare influssi di paganesimo, come tanti altri luoghi di culto pagano, venne “demonizzata” (lo prova l’appellativo di seggio del diavolo dato alla panchina)” e, di conseguenza, abbandonata per sempre scomparendo dalla memoria storica degli uomini.


Damiano Pipino             

 

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