CIVILTA' BIZANTINA IN BASILICATA
I : "BIZANTINIZZAZIONE" DELLA LUCANIA
L'importanza della dominazione bizantina in Basilicata è dimostrata, in
particolare, dal nome stesso della Regione: una parte dell'antica
Lucania, infatti, quella che dai confini pugliesi e dai monti che
guardano il Vallo di Diano va fino al litorale ionico, la zona, cioè,
segnata dagli antichi classici fiumi di questa terra: Bradano, Basento,
Cavone, Agri, Sinni, fin dalla prima metà del sec. XII è stata detta,
comunemente, "Basilicata". Il nome, di chiara origine greca, fu usato,
ufficialmente, solo dopo la fondazione della Monarchia Normanna (1130)
ma è, certamente, di origine più antica (1); non si può pensare,
infatti, che i Normanni mettessero a questa terra un nome greco;
dovettero, invece, ovviamente, accettare un nome già comune fra le
popolazioni della provincia. Come in una zona della regione pugliese
divenne comune il nome "Capitanata" (2) così divenne comune, per buona
parte dell'antica Lucania, il nome "Basilicata", e come il primo deriva
dal nome con cui era indicato un alto funzionario bizantino, così dal
nome di un ufficiale bizantino, il "Basilico", che era il rappresentante
del basilèus, cioè dell'imperatore di Bisanzio, deriva il nome di
Basilicata. Fu, dunque, certamente grande la forza della civiltà
bizantina in Lucania se il nome che allora fu dato alla Regione non solo
si mantenne e divenne comune sotto i Normanni, che, pure, tentarono con
ogni mezzo di rilatinizzare i loro domini già greci (3), ma dura ancora
oggi come nome ufficiale della "Regione Basilicata".
La conquista dell'Italia, da parte dei Bizantini, fu compiuta da Belisario
il quale, dopo aver conquistato, nel 535, Lilibeo, in Sicilia, l'anno
seguente occupa Reggio ove Eurimondo comandava le truppe ostrogote. La
conquista dell'Italia venne poi completata da Belisario stesso e da
Narsete che abbattè definitivamente il dominio dei Goti nell'anno 555,
sconfiggendo a Campsas (forse l'attuale Conza) ove si erano
asserragliate, le ultime bande gote guidate da Ragnari. Dopo Narsete
buona parte dell'Italia era ormai bizantina; la capitale era Ravenna.
Nel Sud, però, il dominio bizantino era subito ostacolato dai Longobardi
che, scesi dal settentrione, occuparono vasti territori organizzandoli
intorno ai due centri più importanti di Benevento e Capua. Più tardi
arrivarono fino in Calabria, nella valle del Crati ove, nel sec. XI,
troviamo già i castaldati di Laino, Cassano e Cosenza (4).
Dai Bizantini la Calabria era stata costituita in ducato. Probabilmente,
però, in origine questo ducato non doveva comprendere solo l'attuale
Calabria, bensì tutta l'Italia meridionale bizantina (e, quindi, anche
buona parte dell'attuale Basilicata) tutta la zona, più o meno, che va
da Brindisi-Taranto fino a Reggio. Il capoluogo era Taranto, posta in
bella posizione fra la penisola salentina e la penisola calabrese. In
seguito, le conquiste di Romualdo, duca longobardo di Benevento, che
occupa Brindisi e Taranto, riducono i possedimenti pugliesi dei
Bizantini alla punta della Terra d'Otranto, così che il nome di
Calabria, che prima comprendeva tutti i possedimenti greci dell'Italia
meridionale, si limita all'attuale penisola calabrese, l'antico Brutium
(5). Così ridotto, il ducato di Calabria ebbe per capitale Reggio.
Questo ducato era una dipendenza del "tema" di Sicilia che era il decimo
dell'Impero.
Ma la Sicilia stessa all'inizio del sec. X non era più bizantina essendo
stata conquistata dagli Arabi con una serie di azioni guerresche
iniziate nell'827, con lo sbarco a Mazara, e concluse, nel 902, con la
presa di Taormina. anche sulle coste della Calabria e di tutta l'Italia
meridionale gli Arabi occuparono, con continue scorrerie che seminavano
il terrore fra le popolazioni locali, molti paesi e città: nella seconda
metà del sec. IX li troviamo persino a Taranto e a Bari. Spesso,
risalendo il corso dei fiumi, arrivavano anche nelle zone interne e, in
certi luoghi, si fermavano anche definitivamente, come ricordano molti
toponimi e tante parole di origine araba ancora oggi usate nei dialetti
pugliesi, lucani e calabresi.
Finalmente, nell'anno 880, un esercito bizantino di circa 40.000 uomini
sbarca in Italia e riesce a liberare Taranto e tutte le coste del golfo;
ma non sappiamo fin dove i Bizantini siano penetrati nell'interno ove
sono sempre di casa i Longobardi, tanto che queste terre dell'Italia
meridionale sono dette, dagli stessi Bizantini, "Longobardia"; perciò,
in questo periodo, tre popoli si battono per il possesso delle regioni
del Mezzogiorno d'Italia: Bizantini, Longobardi e Arabi musulmani (i
Saraceni).
Chi, poco dopo, riuscì a cacciare i Saraceni da tutti i territori occupati
nell'Italia meridionale fu uno dei più grandi capitani e uomini politici
dell'Impero bizantino: Niceforo Foca, il quale, con una serie di
battaglie vittoriose, occupò tutta la Calabria, la Puglia e la Lucania
meridionale tra i fiumi Sinni e Bradano (6).
Sant'Arcangelo, perciò, con ogni probabilità, doveva trovarsi entro i
termini del nuovo dominio bizantino. Niceforo Foca, con fine tatto
politico, seppe accordarsi con i Longobardi e seppe farsi benvolere
dalle popolazioni locali, così che, verso la fine del sec. IX (888), il
dominio bizantino può dirsi abbastanza stabile in tutto il Meridione
d'Italia.
Molto confusa è la situazione amministrativa di buona parte dell'Italia
meridionale, e della Basilicata in particolare, in questo periodo: se il
dominio bizantino appare sicuro sulle coste, è, al contrario,
ostacolato, nell'interno e nelle zone più vicine a Benevento, Capua e
Salerno, dai principi longobardi, i quali, mentre riconoscono, in
qualche modo, l'autorità del basileus, cercano, d'altra parte, di
limitarne il potere. Inoltre le popolazioni longobarde odiano i
Bizantini, prepotenti e fiscali, e questi, a loro volta, disprezzano i
Longobardi, tanto che, ancora oggi, in alcune zone della Basilicata è
vivo, nel dialetto, un termine ingiurioso molto significativo:
"lammardo", cioè "longobardo" (7).
Le conquiste di Niceforo Foca furono realizzate sotto l'imperatore Basilio
I; sotto il regno del successore, Leone VI il Saggio, tutte le terre
dell'Italia meridionale appartenenti all'Impero furono ordinate in due
"temi": quello di Calabria (l'antico tema di Sicilia) e quello di
Longobardia (8). Questo nome, che in origine indicava tutta l'Italia
meridionale riconquistata da Niceforo Foca, indicò, poi, esclusa la
Calabria, l'Italia meridionale riconquistata da Niceforo Foca.
Non è possibile determinare con esattezza i confini dei due territori ma,
con ogni probabilità, il tema di Calabria arrivava fino al Sinni, mentre
il tema di Longobardia comprendeva tutte le altre zone: Puglia e parte
della Lucania meridionale, quella, più o meno, compresa tra la foce e il
medio corso dei cinque fiumi della Regione. Una cosa molto importante e,
nello stesso tempo, piuttosto strana per la mentalità moderna, è che in
queste zone, che passavano tanto facilmente dai Longobardi ai Bizantini
(e, purtroppo, qualche volta, ai Saraceni) convivevano insieme il potere
bizantino e quello longobardo, le leggi di Giustiniano e quelle
germaniche.
"Così la città di Matera, fra l'886 e l'890 è amministrata direttamente
dagli ufficiali del basileus ... ma, siccome l'antico diritto longobardo
è sempre osservato nelle convenzioni private, si fa ancora appello, in
certi casi, all'intervento del principe di Salerno e dei suoi delegati.
L'antica città longobarda di Acerenza rimane sede d'un gastaldo nominato
dal principe di Salerno. Ma la vera autorità di questo gastaldo è sempre
più limitata dall'azione degli ufficiali bizantini, insediati nelle
vicinanze" (9).
In questo periodo il dominio bizantino si consolidò e la Regione tutta
subì profondi e duraturi mutamenti in ogni campo: giuridico, religioso,
linguistico, culturale (10).
In Basilicata i Bizantini provengono dalla Puglia, dalla Calabria e dalla
Sicilia ove erano numerosi già nel sec. VI. Sebbene non si debba pensare
a una vera e propria immigrazione di Greci nell'Italia meridionale,
tuttavia molti coloni dovettero venire sia in Sicilia e Calabria che sul
litorale apulo-lucano, anche per "ripopolare le terre ... desolate dalle
invasioni dei Saraceni. Basilio I il Macedone, ad esempio, vi trasferì
in una sola volta 3000 schiavi affrancati ..." (11). Ma, soprattutto, si
deve tener conto che più che il numero ha importanza l'autorità che
anche poche persone possono avere sugli abitanti di un paese,
soprattutto se questi sono poveri e ignoranti: e molta autorità avevano,
certamente, i Bizantini nell'Italia meridionale dei secc. IX e X, se
pensiamo che essi, quasi tutti, erano funzionari dello Stato, preti e
monaci, ufficiali e soldati. Gli ecclesiastici erano seguiti per la
fiducia che in essi riponevano i poveri contadini e i pastori
abbandonati a se stessi, senza guida e senza istruzione; gli altri per
le necessità più elementari della vita di ogni giorno. Si può parlare,
perciò, per questo periodo del medioevo meridionale, di una specie di
"colonizzazione" da parte dei Bizantini; i quali erano malvisti dalla
popolazione per il feroce e ingiusto fiscalismo, divenuto proverbiale,
che per tanti anni esercitarono, anche se l'autorità lontana
dell'imperatore di Costantinopoli era considerata come qualcosa di
indiscutibile e di sacro. Ecco perché quando, all'inizio del sec. XI, la
dominazione bizantina, che non era mai stata del tutto sicura essendo
stata sempre insidiata dai Longobardi e dai Saraceni, cominciò a
traballare sotto i colpi dei giovani Normanni, dopo un primo periodo di
sbigottimento e di avversione, i popoli dell'Italia meridionale e della
Sicilia finirono per accettare i nuovi padroni e le loro istituzioni,
fino a che, con la fondazione della monarchia di Re Ruggiero (1130) essi
ebbero un loro stato e un loro posto nell'Europa cristiana.
Ma la dominazione bizantina era stata troppo importante e aveva agito
troppo in profondità perché venisse totalmente dimenticata. Da Belisario
ai Normanni c'è uno spazio di ben seicento anni: più che sufficiente per
dare un'impronta tipica a un territorio anche vasto come quello
dell'Italia meridionale.
Il ricordo dell'epoca bizantina resterà ancora a lungo nelle istituzioni
religiose e nelle norme giuridiche, e, sotto l'aspetto linguistico, è
vivo ancora oggi in tante parlate dell'Italia meridionale. Ecco perché
tanti ricordi sono rimasti, in queste terre, di quei tempi lontani:
ricordi in tanti toponimi caratteristici e, soprattutto, nella lingua.
Alcuni paesi usavano addirittura il greco come propria lingua locale; e,
in qualche zona della - Calabria e del Salento, alcuni anziani parlano
anche oggi un dialetto greco.
Inoltre in molti paesi dell'Italia meridionale il greco, anche se non
lingua propria del luogo, era conosciuto da tutti, specialmente dalle
persone più istruite, come provano i molti documenti in lingua greca
pubblicati nel "Syllabus" del Trinchera (12). Si tratta, per lo più, di
documenti notarili, di donazioni, di contratti, di carte dotali,
raccolti in vari archivi di Napoli e a Cava dei Tirreni. Numerosi sono i
documenti riguardanti la Basilicata, provenienti da vari paesi:
Chiaromonte, Noia (Noepoli), Carbone, Calvera, Colobraro (13), Favale
(Valsinni) (14), Policoro.
Un'altra prova della presenza di gente di lingua greca nell'Italia
meridionale, in questo periodo, è data dal fatto che Federico II fece
tradurre in greco le sue celebri "Constitutiones melfitanae" (15). Se ne
deduce che nel suo Stato, sebbene si fosse già nel sec. XIII, una parte
della popolazione era ancora di lingua greca.
Ancora oggi molti luoghi dell'Italia meridionale, soprattutto nelle
campagne, conservano nomi, specialmente di santi, che ricordano il
periodo bizantino, e, cosa ben più importante, molte parole, nelle
parlate meridionali, sono di sicura origine greca.
NOTE:
1 G. RACIOPPI, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, Roma,
1889 vol. II, pp. 16 sg.
2 G. GAY, L'Italia meridionale e l'impegno bizantino,(traduzione italiana)
Firenze, 1917, pp. 322 sg.
3 E. PONTIERl, Tra i Normanni nell'Italia meridionale, II ediz., Napoli,
1964 pp. 179 sg.
4 G. POCHETTINO, I Longobardi nell'Italia meridionale (570-1080), Napoli,
1930, pp. 230-231.
5 G. GAY, op. cit., pg. 6, "Si è detto che i Greci per nascondere in
qualche modo la perdita di Taranto, di Brindisi e di gran parte
dell'antica Calabria, avessero mantenuto questo nome su le liste
ufficiali, applicandolo alla solo regione di cui rimasero effettivamente
signori".
6 G. GAY, op. cit., pg. 128.
7 N. CILENTO, Luoghi di culto, iconografia e forme della religiosità
popolare nella società lucana fra Medioevo ed età moderna. In "Società e
Religione in Basilicata nell'età moderna. Atti del convegno di
Potenza-Matera (25-28 sett. 1975), Potenza, 1977, vol. I, pg. 566.
8 N. CILENTO (luogo citato) parla, senza citare fonti, "... di tre temi:
di Longobardia con capitale Bari, di Lucania con capitale Tursi, di
Calabria con capitale Rossano".
9 G. GAY, OP. cit., pg. 167.
10 A questo proposito si consideri che circa ottocento codici greci,
dispersi, oggi, in varie biblioteche dell'Europa e dell'America,
provengono da antichi monasteri della Calabria e, in genere, dell'Italia
meridionale, fra cui Carbone, nella Basilicata meridionale. Cfr. G.
ALESSIO, La Calabria preistorica e storica alla luce dei suoi aspetti
linguistici, Napoli, 1956, pp. 25-26.
11 E. PONTIERI, op. cit., pg. 93.
12 F. TRINCHERA, Sylllabus graecarurn membranarum, Napoli, 1865.
13 In un atto di vendita redatto a Colobraro dal prete Guglielmo,
nell'anno 1192, al secondo segno di croce dei testimoni si trova
scritto: o tu calobraru critès iosfrès tu aghiu archanghelu martir
ipegrapsa dia tu stauru (io Goffredo di Sant'Arcangelo giudice di
Colobraro testimone ho sottoscritto con la croce). Trinchera, Op. cit.,
pg. 312.
14 In un atto di adozione, stipulato a Favale dal prete Teofilatto (si
noti il nome greco) nel 1146, è presente, come fidejussore e come
testimone un loannes tu aghiu archanghelu (Giovanni di Sant'Arcangelo).
TRINCHERA, op. cit., pg. 189. Per quanto riguarda le trascrizioni dei
documenti si noti che solo raramente, nel Trinchera, sono segnate le
lettere maiuscole e gli accenti; abitualmente le parole sono scritte
senza alcun segno ortografico.
15 G. RACIOPPI, op. cit., vol. II, pg. 93. |