Romano Fea

 

 

LA RAGAZZA CHE VOLEVA UN’ISOLA

 

22

Ero a letto, sulle soglie del sonno, e ancora udivo i piedi nudi di Sandor scalpicciare lungo il corridoio, in bagno e in cucina, dove per via di noti schiocchi, gorgogli e sospiri potevo immaginarlo intento a scolarsi, senza esitazioni o sospetti di rimorso, una lattina di birra dopo l’altra. Finché lo scalpiccio s’arrestò presso la porta della mia camera e potei sentire la sua voce incerta, tenuta sul registro di flauto, per chiedere udienza. Entrato, sedette ai piedi del letto e subito ritenne di dover simulare imbarazzo, sia per il ritrovarsi nella mia camera con me semiaddormentato, quanto per l’evidente necessità, a quel punto, di dover necessariamente dire qualcosa. Così ripeté delle banalità, alle quali risposi straccamente tergiversando. Disse:

-Ebbene, vecchio mio, sì: forse sono innamorato di quella ragazza.-

-Non ci credo,- risposi, ma Sandor non era venuto ad accasciarsi sulla mia coperta per verificare la potenza della mia fede.

-Sono innamorato non tanto delle sua persona, che peraltro riconosco assai lodevole, ma delle parole che dice e della vaghezza che le accompagna. Dei mondi che mi evoca, delle possibili vite annegate in un passato remotissimo. E del mistero su chi ella mai sia; una ragazza che passa sulla terra e tra noi come una farfalla indifferente, lasciandoci sbalorditi e amanti.-

-Non credi d’esagerare? Le donne seducono senza argomenti intellettuali, ricordi Wilde “La donna è una sfinge senza segreti”- dissi mettendomi a sedere appoggiato ai guanciali: così sistemato potei inghiottire un sorso della tisana d’erbe che tengo abitualmente sul comodino. Soprattutto alle soglie del sonno non mi riusciva di allontanare la tormentosa fantasia di Sandor affannato d’arare ed erpicare quel ventre morbido e piatto...

-Che è quel liquido?-

-Decotto di valeriana. Rasserenante.-

S’avvicinò, abbrancò il il tazzone e si trangugiò tutta la mia scorta notturna di valeriana.

-Mi ci voleva,- disse.

-Perché tanta agitazione?-

-Ti pare una cosa normale la mia vita degli ultimi tempi? I problemi sopravvenuti e risolti? Ho dovuto rinunciare alla mia nazione, alla famiglia, per ritrovarmi come un barbone ad implorare  rifugio presso un amico. Tu mi penserai impazzito, fuorviato dalle arti male di una femmina senza scrupoli e infatti eccomi a rappresentarti d’aver appena lasciato una moglie che è una superba bionda, alta, attiva, sicura di sé, mia compatriota e madre dei miei figli, per rincorrere una piccola straniera disoccupata di pelle scura e sorriso pavido, che fino all’altro ieri pascolava capre tra le montagne della Magna Grecia. Il fatto è che mi trovo invischiato nelle tensioni di questo mio corpo troppo ingombrante. Che puoi dirmi, Cigliano, sto perdendo il buonsenso? Mi sto rovinando? Sono impazzito? Oppure ho finalmente preso coscienza  del mio essere provvisorio sulla terra e mi ritrovo i sentimenti d’un grande artista, le parole d’un profondo saggio?-

-Che ne so? -

-Non te ne importa nulla?-

Decisi che all’amico abbisognava uno shock, ed ero pronto a somministrarglielo. - Bene, forse anch’io provo qualche tenerezza per Annita!-

Il silenzio cadde fra noi come un macigno e i minuti passarono sul nostro inespresso desiderio che molte delle nostre cose dette e fatte fossero soltanto un cattivo sogno e che il tempo scorrente potesse porgerci la nuova che non era vero niente, che i fenomeni in cui ci involgevamo erano stati soltanto un nido di sogno, che Sandor aveva ancora la sua Ursula a portata di telefono ed io la mia autonomia quasi spensierata di single. E soprattutto non incombesse su noi due lo spettro del contrasto per una donna sconosciuta ed ambigua. I minuti e i millesimi di minuto in cui il tempo si frazionava all’infinito non ci condussero ad alcuna svolta, e noi, nel primo rintocco della pendola nell’atrio, riconsiderammo i nostri volti pallidi dietro i quali s’andava formando la coscienza dell cruccio d’una ragazza lontana, apparentemente indisponibile, probabilmente imprendibile. Con  gesti automatici, Sandor mi porse una sigaretta, poi un’altra e insieme, in un turbine di pensieri, fumammo nel silenzio notturno rotto di tanto in tanto dagli ululati delle sirene di autoambulanze e dallo sferragliare degli ultimi tram.

Forse le sigarette finirono per calmarmi e farmi assopire, perché mi par di rammentare il disagio di parziali riprese di coscienza nel dormiveglia con la presenza fantasmatica dell’evanescente sagoma di Sandor intenta a poppare da una sigaretta che mai diventava cenere. E, alla fine, il mio amico si levò in piedi con circospezione, mi sfilò delicatamente il mozzicone di tra le dita e in punta di piedi se ne andò a cercare un improbabile riposo sul divano del salotto.

Amare quella ragazza. Perché mai proprio io? Nulla di quanto accaduto sembrava corrispondere agli innamoramenti di mia esperienza. Non il desiderio spasmodico di quel corpo. Non la golosità di sottrarlo ad altri. Non desiderio di comunanza di propositi o d’interessi culturali. O sportivi. Nulla di nulla. Solo l’inedita esigenza di star vicino a quella ragazza per ascoltarne le canzoni, o poesie che fossero. Una sorta di perduta ammirazione, di soggezione al mistero, d’adorazione.

Ma il futuro? Il futuro non conta quando si ama. Non vi si crede molto, perché quello che conta è il presente. Si è invischiati nel presente. In ogni modo percepivo distintamente come il mio innamoramento fosse reale, genuino, di specie nuova. E subito mi rendevo conto d’avere già pronto un avversario molto agguerrito, che già una volta aveva indotto Annita a fondamentali atti d’amore, ed in seguito aveva goduto la possibilità di vivere lunghe settimane in stretta relazione con lei. Che fare? Dalla strada sottostante giunsero rumori di passi affrettati, un clacson angoscioso: i suggelli sul mio passato incolore e il preannuncio di giorni venienti carichi di imprevisti.

 

Il mattino successivo trovai Sandor ancora a fumare stravaccato sul divano, gli occhi rossi e sbarrati nella penombra, la finestra chiusa, la tapparella abbassata e la camera piena di fumo acre. Avanzai in quella caligine, scostai le tende e spalancai la finestra. Quando i fiotti di luce ed aria lo percossero, spense la cicca nel posacenere ricolmo e si alzò a fatica.

-Annita sarà mia,- bofonchiò, avviandosi stancamente verso lo stanzino della doccia.

 

Nell’attesa d’un’eventuale lettera di Annita, circostanziata e completa di recapiti,  stabilimmo silenziosamente un gentlemen-agreement sufficiente a garantirci la sopravvivenza comunitaria nella mia casa ormai ridotta una sorta d’accampamento.

La seconda lettera di Annita tardò almeno tre mesi. Questa volta si trattava di un messaggio più consistente:  riportava un indirizzo e molti elementi sulla sua nuova vita. Viveva dunque in Baviera, ad Augsburg, cittadina non distante da Monaco, e lavorava come aiuto cuoca, o forse sguattera, in un istituto di riposo per anziani. Il salario non era disprezzabile, tuttavia appena sufficiente a coprire le spese di sopravvivenza e di alloggio in una monocamera d’affitto. La città pareva non spiacerle, coi tetti spioventi e le vie accuratamente lastricate, tuttavia, e malgrado le gentilezze del suo datore di lavoro, di nome Döring, lamentava di sentirsi alquanto isolata ed assalita di nostalgia per i mari e le terre mediterranee. E ci chiedeva di scriverle qualche cartolina di ricordo.

Leggemmo e rileggemmo e la sera, dopo il lavoro, ne riparlammo al tavolo dell’osteria dove ci ritrovavamo per la cena.

-Quel Döring non mi piace,- disse Sandor.

-Insinui senza conoscere...-

-Un tedesco che si mostri gentile con una ragazza di pelle scura  e quasi ignorante di lingua tedesca, puzza di bruciato.-

-Effettivamente la ragazza è troppo sola e senza esperienza per affrontare la vita in una città lontana e straniera,- considerai ad alta voce, un po’ per celiarlo ed un po’ per esorcizzare i timori che stavano affiorando anche in me.

-Il suo lavoro dev’essere stressante, fra vecchi queruli ed incontinenti.-

-Certo la cameretta affittata non ha alcuna comodità; avrà dovuto preferire la meno cara esistente sul mercato.-

-La solitudine è cattiva consigliera.-

-Finirà presto o tardi di stancarsi del lavoro in quel mortorio di pensionato.-

-E allora guai a lei. Guai saranno quando s’accorgerà che solo con qualche piccola trasgressione la vita sarà accettabile anche in una città pestifera come Augsburg.-

-Una cittaducola ambigua e pericolosa.-

-Anni fa conobbi uno di Augsburg, un tipo per niente raccomandabile,- aggiunse Sandor.

-Dovremmo metterla in guardia, quella povera ragazza.-

Sandor dondolava l’enorme schiena e sulla fronte gli si scavavano profonde rughe di apprensione:   

-Metterla in guardia non basterà. Bella forza! Non seguirebbe i nostri consigli. Non sarebbe giusto. Noi qui, in casa nostra, nel nostro benessere d’un buon lavoro e d’una ragionevole speranza di futuro, e lei sola come un cane bastardo, a ripulire la piscia di vecchi dementi e, nelle ore di libertà, a fiutare gli angoli di una città puzzolente.-

-I bastardi siamo noi, mio caro,- dissi ingoiando l’ultimo boccone, - che l’abbiamo imbrogliata inducendola a lasciare la sua città e poi caricandola di rimorsi per una famiglia, la tua,  andata a rotoli.-

-Il bastardo sarei io?- disse Sandor, livido.

-Decidi tu.-

-Tu ce l’hai su con me perché è venuta nella mia camera di Matera e perché l’ho frequentata ad Innsbruck.-

-Lascia perdere. Quello che conta è che oggi è sola e sofferente: mentre noi parliamo e parliamo neghittosamente, Annita sta  perdendosi in quelle vie nebbiose.-

Finimmo il nebbiolo in silenzio, poi Sandor  proclamò con decisione:

-Io parto. Vado lassù. Prendo una licenza dal lavoro e vado a raggiungerla.-

-Non puoi andare solo!-

-Non posso? Chi me lo impedirebbe?-

-Anch’io ho una parte in questa vicenda.-

-Tu? Una parte?- aveva rimosso il nostro colloquio notturno: per lui le parole degli altri possedevano solo un valore transitorio e corrispondente alle sue momentanee esigenze.

Di comune accordo facemmo una telefonata alla sede della nostra radio, e la sera successiva eravamo su un treno IC, in corsa verso la Germania. Il giorno appresso sbarcammo ad Augsburg, il tempo d’un caffè ed un taxi ci sbarcò davanti al portone della casa di ricovero per anziani. Una costruzione di solidità ottocentesca, coll’austera facciata ornata di finte colonne e fantasie di trabeazioni. Ci aprì una ragazza di guance rosse e lunghi capelli biondi tirati allo spasimo sulla testa per formare la cosiddetta coda-di-cavallo.

-La signorina Annita è assente. Ha già fatto il suo turno di oggi. A casa non la troverete: è in città per commissioni, ma di sicuro sarà a cena all’hotel Rosinen.-

Fermammo un taxi e, col cuore in gola corremmo all’hotel Rosinen, un antico stabilimento nel settore storico del centro, luogo di classe per una clientela danarosa, immerso in un grande parco: un prato verde bordato d’ippocastani. A quell’ora il ristorante era chiuso e noi risalimmo sul taxi per farci accompagnare all’indirizzo della monocamera ove Annita abitava.

Era una casetta a due piani con i balconi ed i davanzali ben stipati di vasi di gerani fioriti, lungo un viale alberato costeggiato da case molto simili tra loro per volumi, aspetto ed abbellimenti floreali. Ci aprì una signora di mezz’età, civettuola nel grembiule nero e la crestina di governante, la quale ci informò seccamente che no, Fräulein Annita non abitava più in quella casa da più d’un mese. Né sapeva dove si fosse trasferita. -La faccenda si complica,- disse Sandor di malumore, risalendo sul taxi.

-Non si potrà trovare quella sciacquetta prima dell’ora di cena,- rincarai, proponendo di rinunciare ad altri tentativi.

-Si complica e puzza, la nostra lercia faccenda. Quel vecchio albergo dal nome poco rassicurante, puzza come un pesce dimenticato nella sporta.-

-Ha un aspetto poco serio. Luogo di coppie irregolari.-

-E lei andrà a cena proprio in quel lupanare! Questo mi fa montare la rabbia.-

-A chi lo dici!-

Non sapendo come ingannare il tempo fino all’ora di cena, convincemmo il tassista ad accompagnarci in una birreria non lontana dall’hotel Rosinen, dove il nostro malumore e l’apprensione tentarono d’esalare nel frastuono di canti e nei pesanti aromi dei salamini abbrustoliti. All’ora opportuna ci alzammo pesanti per la birra e ci avviammo a piedi verso l’hotel dove speravamo di ritrovare la nostra amica.

-Qualcosa mi dice che anche questa volta non la troveremo,- brontolò con irritazione Sandor, - è quasi buio, pensi che potrò orinare contro quest’albero?-

-I tedeschi non fanno di queste cose. Le ammende sono severe. -

-Ma io sono austriaco, e poi non è vero che i tedeschi ... mai stato all’Oktoberfest?-

-Fai come credi, in caso d’emergenza io fischierò.- M’allontanai di qualche passo guardandomi attorno per segnalare eventuali passanti in arrivo. La penombra stava trasformandosi in tenebra e le luci del non lontano hotel Rosinen brillavano tra le foglie degli ippocastani. Poco dopo intravvidi l’ombra pesante di Sandor scivolare lestamente al di là dei  tronchi neri. Lo seguii di soppiatto.

-Quel bastardo d’austriaco sta scontando l’ubriacatura di birra!- considerai, badando a non mostrarmi nel tener dietro alla sua traiettoria che, manco a dirlo, era la più breve verso l’hotel. Lo scopo di Sandor era certo di raggiungere da solo l’hotel, trovare per primo la ragazza, mostrarsi e dichiararle qualcosa prima del mio sopraggiungere: il suo amore, o una proposta di matrimonio, ovvero la fantasia di una fuga romantica che liberasse la giovane dal pesante lavoro, dalla triste vita d’emigrante. Nel rendermi conto di quella ridicola ed infantile manovra del mio amico, improvvisamente mi sentii crescere nelle gambe un’energia furibonda, e decisi di battere quello sleale fruendo della mia snellezza e della maggior velocità della corsa.

Eravamo ormai tra gli alberi del parco dell’hotel e la vetrata del ristorante era stata spalancata nell’atrio allagato di luci festose nell’attesa dei clienti. Qualche limousine stava parcheggiando fra le colonne della facciata ed i portieri attendevano immobili come statue lungo la scalea, fasciati nella loro perfetta uniforme: spiccai la corsa, attraversando il prato per la via più breve.

Corsi un bel po’ prima d’udire il grido furioso di Sandor che, rendendosi finalmente conto d’aver perso il vantaggio della sorpresa, pur forzando non riusciva aumentare la spinta della sua notevole massa sul morbido del prato. Salii i gradini di volata, passai sotto gli occhi sbalorditi dei portieri e del maître e m’infilai nella sala gremita. Sfilai rapidamente fra i tavoli, finché udii al mio fianco una voce femminile che ripeteva Nick, Nick.

Era proprio lei, Annita, seduta ad un tavolo tondo in compagnia d’un biondiccio di mezz’età. Mi fermai a guardarli, commosso. Erano piuttosto eleganti e disinvolti, apparentemente a loro pieno agio.

-Il mio amico Nick Cigliano!- disse Annita, compiaciuta,- che piacere rivederti. Ti vorrei qui, con noi.-

Il suo compagno accennò affermativamente col capo e spostò la propria sedia di una spanna, restando poi in piedi. Uno svelto cameriere s’avvicinò reggendo una sedia e finalmente potemmo sederci prima che l’incontenibile massa di Sandor piombasse su noi. Nel vederci seduti tranquillamente il mio amico si bloccò, rosso e ansante per la corsa a perdifiato.

-Ma benissimo, ecco che arriva anche il signor Patsch,- sorrise Annita senza esternare sorpresa: - troveremo un posto anche a lui.-

Batté le mani ed il cameriere provvide aggiungendo una quarta sedia:

- Eccoti sistemato, mio caro, ed ora riprendi fiato con un sorso di quest’ottimo vino, un Rothenberg, vero Hans? Amici, vi presento il mio datore di lavoro, il signor Hans Döring, titolare della casa di riposo di cui v’ho scritto. Hans, questi sono gli amici che mi hanno considerevolmente consigliata e aiutata nel mio cammino verso la libertà.-

L’uomo si alzò a mezzo dalla sedia, s’inchinò lievemente e risedette mostrando un sorriso compiaciuto. Un silenzioso cameriere ci servì di un’insalata di frutta, con che iniziò una delle cene memorabili della mia vita.

 

 

23

 

Il vestito lungo ed attillato di Annita brillava sotto i lampadari del salone, i suoi gesti erano sapientemente misurati, quantunque gioiosi di freschezza ed amabilità. Nell’aureola di quei movimenti e sorrisi, la sua carnagione non chiara, impreziosita dall’abito con riflessi rosa, pareva l’abbronzatura d’una donna in carriera piuttosto che la naturale carnagione d’una pastora lucana fuori sede. Il suo parlare, un brioso miscuglio di italiano, tedesco e dialetto lucano, corroborato da divertenti mimiche giovanili, riusciva a spianare la fronte sudata di Sandor e faceva impallidire i miei fantasmi d’una possibile sua combinazione amoroso-sessuale col riservato e silenzioso Hans Döring. Il quale, lungi dall’annoiarsi per il protrarsi dei monologhi d’Annita, tendeva a scassinare la misurata feritoia del suo costante sorriso e ad aumentare il ritmo dei brindisi col trascorrere dei minuti. I camerieri compitissimi si alternavano alla nostra tavola con piattini stuzzicanti e bottiglie ottimamente coordinate, finchè il basamento su cui erano cresciuti i pregiudizi sui miei tre commensali principiò a sgretolarsi e mi trovai finalmente sulla beata nuvola dalla quale si possono ammirare soltanto  panorami soffusi di bellezza e pace.

 

-I signori saranno tuoi ospiti nei prossimi giorni, suppongo, spero non debbano ripartire presto,- disse graziosamente Hans Döring ad Annita.

-Sono sicura che resteranno qui con noi.

-Accetterete l’invito, non è vero, miei cari?-

A Sandor non riusciva di trangugiare una frase che aveva in gola e corrispondeva ad un affanno insopportabile: subito la espresse ad Annita: -Siamo stati a casa tua, all’indirizzo che ci hai comunicato, ma ci hanno informati che tu avevi lasciato la camera!-

-Certo, è così. Ma gli avvenimenti degli ultimi tempi sono stati tanto affollati e urgenti che la mia lettera, scritta tempo fa, mi restò nella borsetta, io dimenticai di spedirla, ed alla fine spedendola, non pensai di aggiornare i fatti nel frattempo mutati. Come si può seguire tutto? La vita è così difficile! Vi prego di scusarmi se, per colpa mia avete attraversato più volte la città la quale, peraltro, è bella e godibile, come avrete potuto accertare anche questa sera. Sarete dunque miei ospiti: la casa che abito, un’ala della palazzina di Hans, possiede due stanze assai graziose, ed in ciascuna vi è un comodo letto. Potrete rimanervi fino alla conclusione degli affari che vi hanno portato qui ad Augsburg!-

Sandor appariva perplesso: -Il signor Döring vorrà ...-

-Hans è ben lieto che io riceva amici ed amiche.-

 Ci sorridemmo e ristringemmo la mano in segno d’amicizia durevole: in fondo, ora che le nostre ansie erano velate dall’eloquio fluviale e divertente di Annita, quel buon Hans finì per apparirci tenero ed ossequente ai desideri della ragazza, quasi si sentisse suo debitore invece che datore di lavoro.

Sbarcammo da una grossa limousine davanti al cancello d’una imponente costruzione nella stessa via in cui sorgeva l’ospizio: una ricca ed altissima recinzione di ferro battuto separava dalla strada il grande edificio costituito di due ali poste ad angolo retto, affacciate su un cortile arredato di aiuole fiorite e alti alberi. Hans azionò un telecomando, il grande cancello si spalancò lentamente, ci augurammo la buonanotte ed Hans entrò in un portoncino nel corpo di casa disposto ortogonalmente alla via. Restati soli, seguimmo Annita verso la seconda ala della casa.

-Hans mi ha ceduto tutto il primo piano di quest’ala,- disse Annita, -è stato assai generoso con me. In verità, anch’io sono stata generosa con lui, rimpiazzando la direttrice dell’ospizio che ha dovuto lasciarci; debbo aver lavorato soddisfacentemente poiché egli si fida ciecamente di me, e mi lascia mano libera anche durante lunghe assenze.-

Domandammo a che cosa fossero dovute quelle assenze.

-Al suo lavoro che è alquanto impegnativo, dovendosi occupare contemporaneamente di diverse attività.-

-Fra voi c’è solo fiducia e gratitudine?- scappò detto a Sandor, cui l’aria fresca della notte aveva rinfocolato una buona quantità di sospetti e conseguenti interrogativi.

-Non soltanto, si capisce, non soltanto!- disse con leggerezza Annita, ed in uno scintillìo  del suo abito ci precedette nella casa.

Era ormai notte alta. Annita ci assegnò le stanze e provando colla mano la morbidezza dei materassi mostrò quanto il dormirci potesse risultare confortevole. In questo mostrò una professionalità che ci fece pensare al suo rapporto coi vecchietti dell’ospizio, poi ricevemmo un bacio sulla guancia e gli auguri di buonanotte. La seguimmo con lo sguardo mentre s’introduceva in una camera all’altro lato del corridoio.

La mia valigia era piccola e conteneva solo l’essenziale per un viaggio di qualche giorno: disposi camicie e biancheria nell’armadio, indossai un pigiama ed uscii a bussare alla camera di Sandor. Lo trovai ancora vestito, seduto sul letto nell’immobilità lardosa d’un orso in attesa del letargo.

-Che si fa?- gli dissi.

-Andiamo da lei,- rispose Sandor, senza esitazioni.

-E Hans?-

- Ha quasi il doppio dei nostri anni. Saprà pure quello che si fa!-

-Che cosa può essere quell’uomo per Annita?-

-Chi può saperlo? Forse lo sanno soltanto loro due. O, forse, neppur loro. Penso d’essere finito in un cantiere: lavori in corso.-

-Ma Annita ha esplicitamente dichiarato, o ammesso, una cosa.-

-Ha detto “non soltanto, si capisce”. Intendeva “non soltanto fiducia e gratitudine”. Si capirà, ma in questo momento io non capisco.-

-Allora andiamo da lei. Saperlo subito è essenziale per il nostro comportamento di domani e di sempre.-

-Essenziale è la parola. Andiamo.-

Bussammo alla porta di Annita. Aprì ed era avvolta in quell’indumento leggero che mia moglie chiamava négligé.

-V’aspettavo,- disse indicando delle poltroncine. Anch’ella sedette ed attese che parlassimo.

-Accidenti,- disse Sandor accarezzandosi le tasche.

-Che accade?-

-Ho dimenticato le sigarette in camera.-

Annita gli porse una scatola di ebano contenente una varietà di sigarette.

-Posso fumare?-

Ricevette uno sguardo ironico: -Vedo che non hai dimenticato il registratore tascabile.-

-Abbiate pazienza;-  accese nervosamente ed aspirò con l’apprensione e la foga del fumatore di pipa che s’avvede del prossimo  spegnimento del tabacco.

-Che cosa volevate domandarmi?-

Parlai io: -È che volevamo sapere come ti va.-

-Avete notato la mia soddisfazione. Lavoro, sono apprezzata. Ricompensata. Ho una casa.-

-Ma ... Hans?-

-Un uomo che ha molto vissuto e conosce le cose della vita.-

-È  mite e remissivo come appare?-

-Non precisamente.-

-Puoi raccontarci com’è, come vive, che cosa dice?-

-Come potrei descrivere una persona? Ed un grande come lui? Io riesco soltanto ad avvicinarmici con qualche parola, con pensieri.  Con la mia timidezza. -

-Che cosa volevi dire poco fa con  “non soltanto, si capisce”?-

-Perché fare di queste domande banali? M’inquietate. Giornalisti quotati come voi che percorrono mille chilometri per venire nottetempo a dirmi banalità!-

Silenzio, se non il fruscìo nel vento notturno degli alti olmi del cortile e, a lunghi intervalli, il lamento d’un gufo.

Disse improvvisamente Sandor: -Non pensi mai ad Ereso?-

-Ci penso sempre. Che cosa credete? La mia fatica non è di evocare parole di canto, ma di ritrovare, tra le loro urgenze di sbocciare, spazi vitali per il mio corpo, raccordi con la gente!-

-Tu sei venuta ad Augsburg ed hai dimenticato tutto!- provocò Sandor con voce tremante, ma ella sorrise e mormorò:

 

quando il pianto fluisce ...

più tenera è totale compresenza:

in unico drappello va numerando

i fatti del passato,

 d’acqua irrorando in boccio

i fiori del futuro.

 

-Io non riesco a  vivere in questo mistero! Devi confessare che cosa ti spinge a dire quelle parole,- dissi.

-Le mie canzoni vengono da chissà dove e sono frammenti d’una nuvola infinita: se un giorno fossero altra cosa, allora non canterei più;

 

Un dio m’ha invasa,

 tutto traduco in limpide strofe.

Da quell’ora mi sento rinata,

bimba appena slattata.

 

-Ti prego, bambina, figlia, non fuggire più nella penombra delle parole!- aggiunsi nello sgomento di Sandor che non s’aspettava un’aggressione verbale tanto barocca. Ma Annita rispose tranquilla, indiscutibile come una sibilla domestica e famigliare:

 

Ho molto camminato

tra i perimetri egèi,

conosciuto i  saggi e gli oziosi,

ascoltato discorsi in Parlamento,

ma oggi in nera tela di negletta

oggi la verità conosco:

questa che scrivo.

 

-Quale età hai quando scrivi?-

-Non so nulla di me, quasi nulla. In parte posso ricordare, raffigurarmi, gli anni che m’avete illustrato voi, ma non so quanto credervi. Nelle sere senza fine dei miei quindici anni, la mia vera dolorosa esperienza, lassù tra le montagne, è stata la mancanza di rapporti col mondo, mentre mi sentivo profondamente diversa e lontana dai giovani che incrociavo sui sentieri, i quali si muovevano come fossero al centro del mondo.

 

Anni trascorro cercando il nume

celato fra sangue e occhi neri.

Fanciulla coi piedi nel salso

mare, illusa d’averlo ghermito

attesi abbagliata. Or certezza

mi lascia.

 

-E il tuo più caro, chi può essere?-

 

Presso l’apertura d’una stanza,

guardando il porto, le vele legate

delle barche grandi di Tiro,

appoggiò il capo sulla tavoletta:

un rigo di sangue

aprì e concluse l’ultimo poema.

 

-Ma chi, chi? -

-Alceo, chi mai? Proprio voi domandate?

 

Le quattro decadi portano lutti,

i molto amati vanno tramontando

come soli tra cupe acque occidentali,

come la luna.

Giunge silente l’età degli addii

lenta  agonia di  giorni,  sigillati

da  soli e lune,  in  larve di memoria;

così i nostri più cari.

E tu, migliore di tutti noi,

mutando le consuetudini

di compagnia obliosa, tu vivido

sorgi la notte tra sogni.

M’aggrappo ai papiri che lasciasti

pregiati, a rimedio dell’angoscia

notturna: durerai quanto me,

qui ti annunzio!

 

Disse Sandor: -Eppure tu, forse non sai...,- ma venne interrotto da un ticchettio ai vetri. Annita si scosse, s’alzò e spalancò gioiosamente la finestra.

-È Hans che getta sassolini, nascosto fra i tronchi degli alberi;- si sporse e salutò allegramente colla mano, -buonanotte, caro. Sono qui con Nick e Sandor e parliamo dei vecchi tempi. Perché non sali anche tu?-

Udimmo la voce di Hans, cordiale e ridente: -Preferisco andare a dormire, è ormai tardi. Ho scorto accese le luci e pensavo potesse mancare qualcosa ai tuoi ospiti. Se non occorre nulla, andrò a letto. Ci ritroveremo domattina. Buonanotte a tutti,- e se ne andò lasciandoci un che d’amaro in bocca.

-Un bravo amico,- disse Annita dolcemente, -Ma ora seguiamo il suo consiglio: ritiriamoci a dormire. Vi prego, sognatemi! Mi piace essere sognata.-

Tornammo nelle nostre stanze.

 

 

24

 

Il profondo silenzio del parco in cui è immersa la sontuosa casa Döring favorì il nostro sonno, cosicché ci svegliammo sereni a metà mattinata e trovammo un bigliettino di Annita affisso alla porta della mia camera. Uscita di casa assai presto per esigenze dell’ospizio dei vecchi, non sarebbe rientrata che a fine pomeriggio; sbrigassimo gli affari che ci avevano condotti ad Augsburg e, in serata, avremmo partecipato con lei ed Hans ad un incontro fra amici, con giochi di società e champagne.  La ragazza continuava a mostrare di non aver inteso, oppure una femminile astuzia le aveva suggerito di ignorare, la reale cagione del nostro arrivo ad Augsburg, ossia il suo coinvolgimento nei nostri sentimenti.

Sandor pareva contrariato di trovarsi al cospetto d’un’intera giornata priva di stimoli, da passare in mia compagnia ed io, piccato, sentii maturare il momento di rinfacciargli lo squalificante sotterfugio della sera precedente per conquistare in solitaria il ristorante dell’hotel Rosinen.

Ascoltò la mia lamentela con scarsa attenzione e potei indovinare come, ascoltando, stesse mentalmente chiamando a raccolta parole ed argomenti per difendersi: infatti contrattaccò con impeto, dichiarando che la slealtà era stata tutta mia. Che avevo approfittato d’una sua necessità fisiologica per sparire fra gli alberi e vigliaccamente galoppare in solitudine verso l’hotel. Cosicché, non riuscendo a ritrovarmi in quella penombra, forzatamente egli aveva dovuto supporre una mia mossa sleale. E, secondo la sua appassionata e ipocrita rievocazione, quei timori stavano nel giusto: se n’era accorto vedendomi emergere dall’ombra dagli ippocastani, in rapida corsa nell’erba del parco verso il ristorante.

Di fronte a quell’infingardo non mi restò che tacere, il silenzio è dei forti, rinunciando a peggiorare la qualità delle ore da passare insieme. Non sapendo che altro fare, ci rassegnammo a passeggiare per la città, finché riparammo per la pioggia in una casa d’aste, dove un solerte banditore batteva rapidissimamente grandi quantità d’oggetti, uno dopo l’altro. In quella sala corremmo il rischio d’acquistare a caro prezzo un’intera attrezzatura fotografica risalente all’inizio del ‘900, camera oscura portatile inclusa, per cui ritenemmo opportuno scappare in una birreria tipica dove avemmo agio di rinsaldare i nostri antichi vincoli di colleganza ed amicizia. La cura, tra uno stivale di birra ed una collinetta di salamini, ebbe risultati benefici, al punto che a sera ci ripresentammo puntuali a casa Döring, gli occhi sereni e privi di tracce d’astio.

Annita ed Hans erano già nella sala di ricevimento apparecchiata per gli ospiti, un salone dotato di sontuosi grappoli di fonti luminose, posto a pianterreno e occupante tutta l’estremità dell’ala di casa dove dimorava Hans.

Hans domandò distrattamente notizie degli affari sbrigati nel corso della giornata ma, astraendosi dalle nostre zoppicanti risposte, cambiò argomento e propose di attendere gli ospiti all’impiedi, mangiucchiando qualcosa.

I cibi stuzzicanti del buffet e lo champagne ci ridettero quello stato di facilità e leggerezza che l’austerità della casa aveva represso. Annita s’allontanò per concludere la propria acconciatura e, quando ricomparve fasciata d’un abito giallo impreziosito da  un’enorme rosa pure gialla sul fianco, la sua splendente bellezza mediterranea ci fece ammutolire d’ammirazione, e muti restammo finché ella non ci scosse con allegra ironia.

Ella mostrava la notevole virtù di sapersi adattare istintivamente e senza fatica alle persone ed agli avvenimenti, così da farmi riflettere con certa amarezza sull’acqua che sa aderire ai corpi che sommerge per poi ritrarsi senza conservare in sé traccia o remora. Proprio la persuasione di quella facilità d’adattamento mi colpì duramente, conscio come sono del mio essere invece duro e radicato nell’argilla delle mie colline, tanto staccato dal fluire del mondo da temerlo ed esorcizzarlo, per rifugiarmi impancato tra pensieri viziosi nella presunzione di poterlo giudicare e così appagarmene. Con un sorriso ed una carezza, soprattutto colla fascinosa levità del suo esempio, Annita aveva saputo tracciare il breve perimetro della mia capacità di rapportarmi alla gente, insinuandomi coordinate di atteggiamenti più vitali e felici.

Solo quella sera m’accadde di potermi accorgere che il cieco e sordo attaccamento al lavoro in cui m’ero da tempo rifugiato, aveva determinato un’azione deprimente sugli stimoli vitali legati al matrimonio arrivando a causare la consunzione dei miei rapporti con la donna che era stata mia moglie. La quale ora se ne vive, per quanto ne so, in una cittadina della pianura padana, dove s’è trovata un lavoro decente e campa nell’avermi dimenticato, in compagnia di chissacchì.

A riprova della mia amara coscienza d’essere non più d’un intruso presso Annita, fioriva la chiara consapevolezza di non avere mai tentato di aprirmi con lei narrando, o semplicemente facendole sospettare, l’intimo turbamento che la sua presenza, come il suo ricordo, mi suscitavano. Infatti, se all’inizio ogni parola pronunciata da quella sua voce dolcemente profonda, modulata con un’istintiva sapienza  non aveva che attivato i miei subalpini sensori di diffidenza, nel tempo era pervenuta a mostrarsi colma di tanta indicibile e misteriosa dolcezza da lasciarmi turbato e perdutamente avvinto. In aggiunta, la sostanza della sua misteriosa recitazione, quasi cantata in un dialetto dimenticato dalla gente da forse venti secoli, le conferiva l’aura d’un mistero quasi insopportabile per il ragazzo di mezz’età che io sono, di cui scorgevo l’immagine riflessa nelle ricche specchiere di casa Döring, il bicchiere vuoto in mano e la fronte incisa da rughe di disagio e malessere.

A quella ragazza avevo offerto la mia casa, è ben vero, l’avevo protetta, nutrita, rispettata e benvoluta e ciononostante  ora, cribbio!, mi sentivo debitore nei suoi confronti! Sorseggiavo champagne e riflettevo su quanto, in pochi mesi, le sue virtù avessero lavorato nel profondo dei miei sclerotizzati sentimenti per cucirmi a filo doppio alla fantasia di una vita in comune con lei. Una vita tutta da inventare poiché,  non lo stare ad ascoltare la sua voce recitante, non la sterile osservazione delle sue stranezze giovanili e neppure il sottile, sconosciuto turbamento ch’essa mi donava potevano costituire la base d’un’unione sensata.

E tuttavia, ormai da mesi, forze sconosciute, inspiegabili quanto irragionevoli, ma tutto sommato ammiccanti e piacevoli, mi spingevano a tentare l’abbandono della mia ambigua, dorata pace di single, finanche a sospendere il mio tranquillo lavoro presso la radio, per buttarmi ad occhi chiusi in un vortice di sensazioni sconosciute che non sapevo qualificare e, in fondo, temevo d’analizzare! Con straordinaria potenza s’era costituita ed era cresciuta in me la voglia di mettermi in gioco con Annita, di giocare tutto me stesso, accettando qualsiasi rischio. Di pormi come puntata in un azzardo, a fronte di un’improbabile vincita, pago soltanto di poter rimanere ad osservarla nel suo trascorrere effimero e noncurante agitando le ali preziose delle sue parole.

Non fosse stato per Sandor. E per Hans Döring!  I quali ora stavano sgranocchiando frutta secca con serena noncuranza, abbarbicati ad alti trespoli.

Una cosa per volta, mi dissi allontanando i pensieri più tormentosi, cominciamo col sondare le reali intenzioni di Annita.

 

Gli ospiti arrivarono: due grosse automobili prive di cappotta invasero il cortile in un gran crocchiare di ghiaia. Ne sgusciarono quattro uomini e due donne, quasi tutti piuttosto giovani,  straordinariamente allegri, vivaci e, fin da subito mi venne da pensare, pronti ad commettere qualsiasi stravaganza pur di trascorrere allegramente la serata.

Il meno giovane del gruppetto era un fotografo d’una cinquantina d’anni, Manfred Baumann, colla sua piccola Leica in tasca; era accompagnato da Katja Rausser, giovane modella, mi confidò Hans. Altri due, Bern e Witold, evidentemente stretti d’amicizia esclusiva, entrarono nella sala discutendo fittamente fra loro e, pur partecipando alle chiacchiere e alle schermaglie verbali rimbalzanti fra pareti e specchi, risultarono ben determinati a ripigliare sottovoce i loro argomenti in ogni momento libero. Dal canto loro gli ultimi due, Frieder ed Herlinde, certo uniti da legami sentimentali, nella prima parte della serata non tralasciarono occasione per sfiorarsi, toccarsi golosamente e scambiarsi giocosi baci.

Hans accolse gli ospiti con calorosi abbracci e baci schioccanti alle ragazze; tutti si mostrarono felici di rivederlo ‘dopo troppo, troppo tempo’ mentre egli con Bern e Witold si accordava per la musica da inserire come sottofondo durante la serata.

-Accorderemo i nostri discorsi con la musica,- disse Bern scegliendo fra i cd.

-Allora non si ballerà,- obiettò Katja protendendo un simpatico broncio infantile.

-Balleremo quando vorremo,- disse benignamente Hans, ed il suo sorriso aveva lo staccato compiacimento di Zeus che, non avendo trovato di meglio, se ne sta sull’Olimpo pronto a dividere il cocuzzolo del monte con chiunque si presenti animato di buone  intenzioni. Con larghi gesti tranquilli ci invitò a tavola e, notando Frieder intento a masticare pasticcini senza rinunciare ad accarezzare le spalle della biondissima Herlinde, aggiunse ridendo:

-Se vorrete, il primo gioco consisterà nello scambio delle coppie.-

-Come sarebbe a dire, con chi mai dovrei mettermi?- domandò Annita.

-Deciderà un sorteggio. Ci si scambia e le nuove coppie inizieranno a giocare parlando tra loro, confidandosi liberamente e senza remore, come si conoscessero da sempre. In tal modo si arriva ad infrangere le barriere che separano le persone che si vedono per la prima volta, stabilendo istantaneamente legami di simpatia e complicità.-

 -Che cosa potremmo dirci, una volta rifatte a caso le cinque coppie?- domandò il lentigginoso Witold, che ci scrutava interdetto, occhi globosi sotto capelli a spazzola.

-L’improvvisazione è il bello di questo gioco: due persone che non si conoscono e forse di diversa nazionalità, si scambiano sufficienti e quasi-sinceri dati storici personali da poter sostenere successivamente il ruolo della coppia affiatata, sia nella conversazione che nei giochi. Dovrebbero sortirne coppie apparentemente ricche di un passato originale e curioso, in parte inventato ma plausibile e divertente, da utilizzare creando un presente quasi-reale, secondo come porterà lo sviluppo casuale del gioco.-

-Sembra divertente. Bene, io scriverò i nomi di tutti noi su altrettanti foglietti che poi ripiegheremo nel fondo d’un cappello e faremo estrarre ad occhi chiusi al più giovane,- propose Herlinde.

Il sorteggio stabilì gli accoppiamenti in modo alquanto divertente e per taluni preoccupante: Annita con Katja, Manfred e lo sbuffante Sandor, i soddisfattissimi  Bern e Witold, Frieder con Hans e, sorpresa, a me toccò la bionda Herlinde.

-Direi che il sorteggio è da rifare,- borbottò Frieder, imbarazzatissimo, - poichè due donne sono state sorteggiate assieme, mentre una precedente coppia, quella di Bern e Witold, non è stata infranta!- S’interruppe nel timore d’aver commesso una scorrettezza e rivolse uno sguardo interrogativo agli amici, che con bonari sorrisi s’affrettarono a tranquillizzarlo.

-Così ha deciso la sorte; non vorremo negare che la gran parte degli accadimenti di ognuna delle nostre giornate, sia opera del caso!- dichiarò Hans colla sua bonomia profetica.

-Se così ha voluto la sorte, così noi staremo,- concluse Annita, serafica.

 

Con gli occhi cercai Sandor e trovai i suoi occhi su me. Pareva sorpreso, deluso, amareggiato dalla banalità di quell’intrattenimento. Quanto a me mi sentii defraudato, violato nei sentimenti. Indagai il volto di Annita, ma lo trovai sereno, partecipe e contemporaneamente privo di un vero interesse.

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"La ragazza che voleva un'isola":
 

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all'Autore (Romano Fea)


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