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BELLEZZA NOSTRA
a cura di Piero Frullini

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L'IMPRESA E GLI ALTRI
 

Dal sessantatre al settanta il campo d’azione dell’Impresa Fradusco fu al quartiere Tuscolano. Cinque enormi fabbricati intensivi, ventisette scale, seicentosettanta appartamenti, cento negozi, quattro enormi autorimesse.

Tonnellate e tonnellate di ferro e di calcestruzzo che Fiorello vide mettere in opera, sorvegliando la bontà della esecuzione dei lavori.

Giovanni era corteggiato dai fornitori, Giuseppe lo era altrettanto dai grossi papaveri dell’industria edilizia romana e dai politici. Con la sua dimessa abitudine a non mettersi in mostra cercava di sviare l’attenzione dalla sua Azienda, ma non riusciva a passare inosservato tra le maglie che un certo ambiente tesseva per sfruttare la potenza economica di una categoria. Lui continuava con noncuranza la sua battaglia, studiava gli ostacoli, portava avanti il suo progetto, senza farsi abbagliare. C’era sempre una fila di mediatori dietro alla presenza di Peppino alla Ripartizione dell’Edilizia privata: offrivano meraviglie di terreni, combinazioni straordinarie. Lui aveva una difesa insuperabile:

“Sono solo l’Amministratore, devo ascoltare i Soci”; facendo intendere che dietro di lui ci fossero una quantità di finanziatori ai quali spettavano le decisioni...

Fu questa una strategia sottile e redditizia quando si trattò di vendere l’intero fabbricato di via Livilla alle Ferrovie dello Stato: gli alti funzionari del Ministero ponevano cento paletti, ma Peppino ne superava la presenza mettendone in campo altrettanti e rifugiandosi dietro la possibile noncuranza per l’affare che avrebbero dimostrato “i soci”. Forte come era della sua sicurezza economica e del buon lavoro compiuto. Ebbe esito favorevole il suo giocare a rimpiattino.

A metà del ciclo produttivo al Tuscolano Peppino acquisì un altro collaboratore speciale. Al “romano de Roma” Ing. Claudio Bonanni vennero affidati i calcoli del cemento armato e le Direzioni dei lavori a cominciare dalla costruzione del fabbricato di Viale dei Consoli. Ho conosciuto molti tecnici nel campo delle costruzioni, ma le doti di

Claudio Bonanni mi sono apparse sempre superiori. Un ottimo calcolatore può determinare impostazioni tali nella strategia e nell’economia di un’impresa edile da prefigurare un successo finanziario oltrechè una serenità assoluta del risultato finale ai fini della sicurezza. Bonanni esprimeva queste doti che Giuseppe Fradusco non volle perdere, assicurandosi oltre che le capacità professionali anche l’amicizia sincera dell’ingegnere. Del quale ammirava molto l’eleganza dei modi, del vestire e dell’esprimersi, come il sottile senso dell’umorismo. Condivideva il suo buon gusto e il buon palato, seduti al tavolo dei ristoranti romani più caratteristici, dopo che avevano assistito insieme a qualche incontro importante di pugilato: succedeva di rado, ma quando ce n’era l’occasione l’allegria era il piatto principale.

Succedeva di rado perché Peppino Fradusco aveva trasformato il ricordo delle privazioni che si portava dentro dall’adolescenza e dal periodo della guerra in virtù quotidiane.

Le capacità culinarie della moglie Mariannina non avevano molte occasioni di esaltarsi nella preparazione del cibo per il marito. Lui rimaneva fedelissimo al principio del mangiar poco per stare bene in salute, con la scelta ristretta a poche cose da consumare per le sue personali necessità: lampracioni, porri, gran quantità di peperoncini verdi, un po’ di prosciutto di Norcia fornito dal negozio di Lorenzo Magrelli, poco pane, pochissimo vino. Senza peraltro costringere nessuno a condividere i suoi gusti.

Questa abitudine ai pasti frugali si sposava con la puntualità maniacale alla tavola di casa. Quando veniva l’ora del pranzo o della cena Peppino aveva stabilito che tutta la famiglia fosse riunita, perché tutti, moglie e figli, dovevano cogliere l’occasione di quelle soste giornaliere per ascoltarsi e raccontarsi, nella continua trasposizione delle idee, dei problemi e delle esperienze tra genitori e figli.

Il rispetto di quella puntualità da parte dei ragazzi diventò una regola prioritaria, ad evitare persino esplosioni di ira e rabbuffi poco teneri da parte del padre: il quale considerava il rispetto per la disponibilità del proprio tempo e di quello degli altri come qualcosa di sacro: Peppino Fradusco assegnava un valore enorme all’impiego delle ore di cui disponeva e voleva supporre che così fosse anche per chi aveva da fare con lui. Per tale motivo digeriva male i ritardi degli altri agli appuntamenti, specialmente perché lui si presentava sempre largamente in anticipo. Uno dei modi per non renderlo prevenuto nei propri confronti consisteva nel presentarsi agli incontri quantomeno senza ritardo, meglio se prima dell’ora fissata. Chi riusciva a capirlo già creava una buona corrente d’intesa con quell’uomo che, comunque, arrivava sempre precedendo gli altri, specialmente se gli appuntamenti erano relativi a questioni di lavoro.

Durante il periodo delle vendite degli appartamenti al Prenestino Nuovo, fin dal 1962, i Fratelli Fradusco diventarono “sponsor” delle loro iniziative aziendali. Precorrendo, con buona pace dei pubblicitari, iniziative di aziende molto più grandi.

L’idea di finanziare una manifestazione sportiva e abbinarla all’attività dell’impresa venne una notte a Peppino mentre ripassava con la mente lo svolgimento di una corsa ciclistica del giorno prima per le salite dei Castelli romani, che aveva visto protagonista un nipote, Antonio figlio di Michele Fradusco. Quel ragazzo aveva la buona stoffa e la passione del corridore in bicicletta, partecipava alle gare come “allievo” e ne vinceva una dietro l’altra. Anche suo fratello Gianni muoveva le prime pedalate come “esordiente”, con fortune alterne. Michele il padre dei due giovanissimi atleti, che gestiva allora un negozio di vino e olio al Tuscolano, era un appassionato di ciclismo, amico dei molti addetti romani all’ambiente di quello sport.

Peppino rifletté che assumere l’iniziativa dell’organizzazione di una gara — da ripetere negli anni — legandola al nome dei Fratelli Fradusco costruttori, sarebbe stata una buona pubblicità: i manifesti, la gare, la premiazione avrebbero contribuito a far conoscere una realtà positiva; e lui avrebbe potuto tentare persino di contattare sul campo chi partecipava comunque alla manifestazione — pubblico, dirigenti, parenti dei corridori ... -  per intavolare possibili trattative di vendita delle case già pronte.

La manifestazione nacque al quartiere Prenestino e si ripeté per alcune edizioni fino al sessantacinque, quando la corsa si svolse con arrivo al cantiere della “Gemma del Tuscolano”. Sui manifesti appariva la scritta “Coppa Fratelli Fradusco”, organizzata dal Gruppo sportivo Fradusco sotto l’egida del CONI e della Federazione Ciclistica Italiana.

Ma alle prime avvisaglie di contestazioni e rivolgimenti sociali, che si preannunciavano con segnali inequivoci dalle piazze e con fermenti poco rassicuranti che Peppino coglieva con attenzione dalle notizie della stampa e della televisione, dopo un anno di “stare a vedere come vanno le cose”, nel sessantasette i Fradusco scelsero di scordarsi della manifestazione e di ripararsi quanto più possibile nell’ombra del loro operare, con il minor rumore possibile fuori dell’ambiente dei cantieri. La forza dell’azienda doveva poggiare nel “fare” e non nell’ “apparire”.

Quando scoppiò da parte delle nuove potenze economiche individuali della città la smania di mettersi in mostra e di destare meraviglie, Peppino Fradusco considerò opportuno assumere un comportamento opposto, nella riflessione principale che Giovanni aveva tre figli (e sarebbero venuti presto i nipoti) e lui, ormai, riuniva ogni giorno attorno alla tavola cinque ragazzi. Erano già cresciuti attaccati alla gonna di mamma Mariannina anche gli ultimi due figli, Rosella nata nel cinquantotto e il piccolo Fabio del sessantaquattro.

I tre più grandi erano tutti i giorni fuori di casa per la scuola. La “tribù” dei Fradusco andava protetta dai pericoli nuovi che nascevano dalla evoluzione stessa della vita sociale e dalle sue magagne. Esporsi poteva procurare solo guai e conseguenze rischiose. E questo era quanto di più disastroso Peppino era portato a temere.

Nell’ufficio di viale dei Consoli 94 al Tuscolano il nove marzo del sessantotto cominciò la mia collaborazione con il costruttore Giuseppe Fradusco.

Mi aveva contattato telefonicamente e mi aveva proposto di lavorare con lui. L’azienda per la quale operavo stava per chiudere ogni attività.

Telefonicamente avevo accettato.

Perché quella collaborazione diventasse amicizia trasparente e duratura ci volle qualche tempo: non molto, ma quel tanto necessario perché, aperti l’uno alla sincerità dell’altro, nei lunghi tempi trascorsi insieme durante i giorni, poco a poco ci svelassimo segreti, progetti, preoccupazioni, ricordanze, in una simbiosi che ci permise di capirci poi al volo su tutti gli argomenti che capitava di affrontare.

Di ambedue riaffioravano spesso i legami con la comune origine contadina, il rifiuto delle ambiguità, la necessità di sacrificarsi per un impegno da rispettare. Avevamo ambedue considerazione e rispetto delle fatiche da affrontare per uno scopo da raggiungere, che si estendevano con naturalezza a quelle di quanti lavoravano intorno a noi per i medesimi risultati. Avevamo ambedue considerazione e rispetto per i desideri,

le esigenze e i dubbi dei clienti da servire, perché fra l’impresa e loro si stabilisse una corrente di simpatia che rimuovesse gli ostacoli e definisse con loro uno stato di fiducia permanente. Abbiamo combattuto insieme molte lunghe battaglie, per le quali Peppino abbozzava una strategia da discutere per farla diventare linea di condotta una volta che fosse stata definita esattamente. Abbiamo avuto al fianco oppure di fronte innumerevoli persone, cervelli, forze da sostenere o da demolire, uomini e donne con mille problemi, bisogni, richieste, ragionamenti, allettamenti, caratteri.

Ma nessun nemico!

 

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