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BELLEZZA NOSTRA
a cura di Piero Frullini

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LA CASA AL MARE
 

Nel periodo in cui l’attività dei cantieri si stava spostando dal Prenestino al Tuscolano Giovanni acquistò un attico a Villa Serventi e vi si trasferì: aveva abitato, subito prima, in una casa in affitto a via Terni, dove, nel cinquantasette, era morto “massaro” Antonio che si era trasferito vicino ai figli negli ultimi anni di vita. Giuseppe, che intanto aveva portato la famiglia ormai completa ad abitare in un appartamento più grande e decoroso al quartiere Trieste, preso in locazione da un Ente previdenziale per non correre il rischio di dover cambiar casa troppo spesso, si fece la casa al mare.

Scelse un posto tranquillo, a ridosso della pineta di Castelporziano. A Torvaianica in quel tempo stava sorgendo il villaggio Tognazzi, integrato da un tratto di spiaggia privata e protetta, di là della litoranea.

Alle spalle delle file di villette sulla strada sotto un ombrello di pini marini, su progetto dell’amico Aureggi debitamente corretto, Peppino costruì una solida villa, ampia abbastanza perché tutti e cinque i figli avessero dove trascorrere le vacanze insieme a lui e alla madre.

Fiorello guidava la schiera degli operai che si spostavano quotidianamente al mare dal cantiere cittadino. Per Peppino la casa di Torvaianica diventò una bitta d’attracco, il luogo per i suoi riposi mentali, la base per le sue avventure di pescatore improvvisato, l' “ubi” dove, incontrando persone, selezionava le nuove amicizie, il punto di partenza per

le sue escursioni di amante della natura.

Più tardi, nei suoi racconti diventarono ricorrenti — e famose da ricordare — le uscite mattutine del sabato all’interno delle pinete e della tenuta presidenziale, alla ricerca di asparagi, funghi e cicoria: una ricerca pretestuosa, perché il vero motivo del suo girovagare solitario per sentieri e piazzole non era altro che il soddisfacimento del bisogno personale di un contatto ricreato con l’ambiente agreste di Palazzo San Gervasio. Come famose da ricordare diventarono negli anni le avventure del “marinaio”, il  quale con qualcuno degli amici “convinto” a seguirlo — magari controvoglia -, oppure con Fabio, costretto a quell’esercizio per tutto il tempo dell’adolescenza e i primi anni della giovinezza passati d’estate al villaggio Tognazzi, sfidava se stesso affrontando la violenza di un elemento più forte di lui.

Regolarmente, Roberto e Antonio, i figli più grandi, sfuggivano alle sollecitazioni paterne con la scusa delle esigenze di un’età più favorevole ad invocare impegni personali inderogabili.

Bisognava gettare o ritirare reti enormi rispetto ai risultati della pesca: a notte ancora fonda si staccava dalla riva un piccolo fuoribordo di quattro metri, diretto a qualche miglio dalla costa. Il pescatore per diletto era posseduto dalla voglia di affrontare esperienze del tutto nuove, capaci di assorbire lontano dal contatto con la folla di tutti i giorni le sue esplosioni di energia interna e di scaricare il fardello dello stress accumulato dentro inconsapevolmente.

Talvolta la pesca era eccezionale, talvolta scarsa, molte negli anni le reti perdute, sottratte o distrutte.

Al rientro del pescatore dall’impresa in mare, durante il tragitto fra la spiaggia e la villa, tutti ascoltavano allegra e forte la voce che scaricava la tensione con le note e le parole di “O sole mio ...

Molti amici via via rinunciarono a seguire Peppino nell’avventura, perché le escursioni in mare erano di quelle capaci di abbattere ogni più volenterosa resistenza; ma tutti restarono amici. Solo il giovane Fabio continuava a subire le benevole ingiunzioni del padre e ne assecondava brontolando gli azzardi, pur temendo i rischi e sopportando male la sveglia alle prime ore del sonno.

Con quegli amici rimasti tali Peppino organizzava gare di bocce, incontri in allegria, invenzioni di barzellette: uso buono di un tempo che si offriva adatto a legare sentimenti duraturi. Così con Antonio Ghirelli, Adalberto Andreani, Fernando Caporali, il colonnello Gorelli, il generale Antonio Todaro, l’avvocato Caroleo, Ado Baiardo, l’ingegnere Enrico Benni, i giovani Gianni Ripoli e Lucetti, Teodorico de Angelis, Enrico Modigliani, l’architetto Giuliano Angelucci, il dottor Mario Longo, gli amici di via Mediterraneo e via Lugano...

La signora Mariannina vigilava perché nei tempi di permanenza del marito e dei figli nella villa non si allentasse — pur nel favore di circostanze ripetitive — il contatto costante tra Peppino e i ragazzi, anche le femmine, che non doveva essere diverso per intensità da quello esistente nella casa di Roma.

Ma esistevano tempi precisi in cui Peppino diventava un solitario. Assente per tutti e a tutto quanto lo circondava. Succedeva quando prendeva a camminare con lena e lungamente sotto il sole lungo la battigia, chilometri di un avanzare ardito fino al molo di Ostia Lido, andare e tornare; durante il quale le idee diventavano materia che scottava e non soffrivano interventi da, ombre improvvise.

Dopo la marcia faticosa lungo la scia bianca della risacca si dedicava alle interminabili sabbiature, alle quali Peppino assegnava un ruolo importantissimo per la rigenerazione di una buona salute per tutto un anno da trascorrere in città esposto alla tramontana dei cantieri: si seppelliva in piena calura sotto lo strato cocente che sarebbe stato deleterio per qualsiasi pelle. Questo esercizio di resistenza si ripeteva ogni giorno per tutto il periodo delle ferie estive trascorse nella casa al mare. E, quando il tempo era propizio, durante i fine settimana di relax che lui vi si concedeva.

A turno toccava ai figli ad assisterlo, vigilando su possibili reazioni alla temperatura infernale della sabbia, attenti a ricoprirlo bene e a liberarlo, ad asciugarne il sudore esagerato che si liberava dal corpo asciutto.

Un giardiniere curava le piante, teneva sempre pronta la legna per il camino, pensava alla pulizia dell’ambiente. Ma la coltivazione della fava e dei pomodori era una mansione che Peppino riservava a se stesso. Seminare, concimare, veder crescere e maturare: erano momenti da godere in esclusiva per poter raccontare anche di quei miracoli della natura che si ripetevano a tempi fissi sotto le sue mani. Riti ripetitivi, come altri a certe date importanti: l’incontro con gli amici al primo maggio, quando Peppino offriva fava, pecorino, prosciutto; e un “gotto” di vino dei castelli che lui si ostinava a chiamare “uno champagnino”. E quello di Ferragosto per celebrare insieme a loro la festa del cocomero.

Spesso le riunioni di famiglia o gli scambi di battute e di barzellette con gli amici avvenivano attorno ai lunghi tavoli del ristorante “Zi Checco”, che per primo aveva assegnato a Peppino l’appellativo di “uomo venuto dal mare”. Che, di rimando, lo apostrofava: “‘A bbellezza nostra!...  ”

In ogni tempo dell’anno quella casa sul litorale doveva essere preparata ad accogliere anche i momenti della stanchezza di un uomo che non voleva apparire mai provato dagli impegni e dal lavoro; che, invece, era uno come tutti i suoi simili e perciò soggetto ai momenti del rilassamento e alla necessità della sosta per affrontare ogni giorno i pesi del proprio cammino.

 

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