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BELLEZZA NOSTRA
a cura di Piero Frullini

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TERRE DEL SUD
 

Terre del Sud

Terre del Sud derelitte e rimpiante
polvere e vento dai torrenti riarsi
nelle estati disfatte,
assidua
violenza bianca lungo itinerari
battuti dal pesante volo dei corvi.
E una vecchiezza antica della pietra
che assorbe anche i tormenti
e custodisce
segreti alteri o fiere
sanguigne primeve dignità, respinge
contatti d’amorevoli abbracci,
attira
definitiva la pietà
quando la vita è solo
stasi degli anni estremi.

 

Il millenovecentoquattordici segnò la data dei grandi rivolgimenti per molte regioni europee. E dei grandi lutti.

Di certo, quell’anno non portò sommovimenti straordinari per il sud dell’Italia. Dicono che da molto tempo prima di allora Cristo si fosse fermato a Eboli. Chi lo scrisse più tardi ripeteva profonde convinzioni di esperti, di uomini convissuti con le realtà di quel vecchio periodo di storia consolidata.

 Cristo si era fermato a Eboli. Vi sarebbe rimasto immobile per molti anni ancora. La linea orizzontale di quel confine ai cambiamenti passava certamente anche per Palazzo San Gervasio, paese di antica tradizione contadina, situato nell’entroterra potentino.

 Dove in quell’anno nacque in una famiglia campagnola Giuseppe Fradusco. In una terra avara, di disperata fatica e di scontrosa riservatezza.

Caratterizzavano quell’ambiente, nell’organizzazione del lavoro legato ai bisogni, le grandi masserie: masseria Regina, masseria Caputo, masseria Tufaroli, masseria d’Errico... Gli studi dei grandi autori meridionalisti presero le mosse anche — e molto profondamente — dall’osservazione di quelle realtà sociali in continua regressione civile.

Anche la minuscola masseria dei Fradusco, una ventina di ettari in località Casaleni Sottani, era rimasta esclusa dalla presenza itinerante di un qualsiasi messia liberatore dai legami consolidati nei secoli tra l’uomo e l’oppressione del sudore: pane e sale di ogni giorno, più sale che pane.

Quella condizione di vita non era da considerarsi come una condanna da parte della sorte (in giro per il mondo c’era di molto peggio!), ma come una conseguenza del fatto che nei tempi passati le vicende della gente di quella terra erano andate come erano andate! Asini e greggi, marce in solitudine, passione e fantasia, schiena curva a dissodare, seminare, attese nel dubbio di raccolti passabili, testa alta e fierezza; e quel tanto di astuzia che ha sempre insegnato agli uomini la strategia sottile per sottrarsi al peso dell’inerzia nella necessità.

 Peppino Fradusco nacque e crebbe in quell’ambiente.

Quando fu il tempo di andare a scuola, la madre Lucia sollecitamente gli preparò una borsa, cucita con stoffa rimediata in casa, dove niente andava buttato via, forse ritagli del vestito di fustagno del capofamiglia.

Peppino andò a scuola per due giorni in modo normale. Al terzo giorno venne la prima occasione di scontrarsi con gli altri, diversi da quelli di casa.

La baruffa tra compagni è da immaginarla più contesa che lite. Rimase sul terreno, distrutta, la borsa di stoffa; e siccome a casa Fradusco non c’erano disponibili altri ritagli di panno da ricucire, il ragazzo senza più cartella per il quaderno, la penna e il calamaio non ripercorse la strada da Casaleni Sottani alla scuola, ma quella, più utile a giudizio del padre Antonio, dalla masseria ai campi aridi da dissodare e al pascolo stentato dove custodire il gregge.

 Fino all’età di undici anni. Quando la cura delle pecore fu trasferita al fratello Michele e a Peppino toccarono impegni più gravosi, sacchi di patate da trasportare, muli e cavalli da rendere più docili, pane più duro da masticare. Verso di lui, come verso i fratelli più grandi, “Massaro” Antonio non mostrava animo di padre padrone, anche perché lo condizionava il carattere protettivo verso i figli di mamma Lucia, ma sapeva dettare disciplina e carichi di lavoro ben proporzionati ad ogni età e ad ogni necessità. Quello che si poteva fare con le braccia dei figli riduceva ricerca, problemi e compenso relativi ad eventuali braccianti.

 In questa realtà senza alternative non tutto si presentava negativo: l’abbaglio del gran sole per giorni e giorni, la solitudine obbligata per tempi interminabili, l’appartarsi nei ripari più improvvisati per mitigare il freddo invernale o le grandi piogge che gonfiavano la fiumara, davano corpo a iniziative e riflessioni mano a mano più coraggiose e profonde.

 In questo clima cominciò la lotta di Peppino Fradusco per uno scopo preciso. La ragione insegnava che la vita bisognava fabbricarsela con costanza di fatica e invenzione di proposte, di là dalle convenzioni esistenti o intraviste. E fuori dagli schemi che le giornate degli altri, anche quelle dei fratelli più grandi e del padre, potevano far supporre. Doveva essere tenuto ben fermo il legame che ormai si era stretto con la durezza della propria terra, ma si doveva puntare ad osservare tutti i segnali e ascoltare tutto quanto poteva arrivare da oltre gli orizzonti giornalieri.

Nella solitudine degli albori ricorrenti, passando mesi e anni con eguale costanza di pesi e di sudore, il ragazzo , l’adolescente, il giovanotto deve aver rimuginato a dovere un suo programma per il dopo: un possibile allontanamento dalla propria terra sarebbe rimasto un riferimento positivo, tanto da tenerselo chiuso tra le mani come le abitudini e le tradizioni, una volta che una libertà di scelta lo avesse posto fuori dal cerchio che

bisognava un qualche giorno tentare di spezzare. Risultano così chiari alcuni fatti ricorrenti, testimoniabili.

Dal millenovecentosessantotto, anno in cui ebbe inizio la mia collaborazione con Peppino Fradusco, e per trent’anni, nelle mie agende era fissata con largo anticipo una incombenza stabile: alla fine di ogni mese di maggio avrei dovuto assolvere al compito, assegnato una volta per tutte ma ogni anno ricordato da Peppino, di inviare un contributo congruo dei Fradusco per la festa patronale a Palazzo San Gervasio.

Quando la stagione degli impegni aziendali lo consentiva Peppino e il fratello Giovanni realizzavano il viaggio di Giugno, tappa fissa per la processione di Sant’Antonio; perché, dicevano al loro ritorno, aver portato a spalla il peso della statua del Santo prometteva loro di sopportare in condizioni migliori il fardello del lavoro quotidiano in città.

La masseria, una volta rimasta di proprietà di Peppino e Giovanni, cominciò, senza l’assiduità di un controllo impossibile, ad essere un peso senza reddito, ogni anno più marcatamente. Qualcun altro avrà forse goduto dei frutti di quella loro terra. Ma non passò mai per la mente di Peppino l’idea di disfarsi delle pietre e dei campi aridi di Casaleni Sottani, per la sacralità che il connubio paese d’origine e vita aveva consolidato negli anni.

Nei giorni interminabili del sudore e della fatica costretta, la durezza del rapporto tra l’avarizia dell’ambiente delimitato e la voglia di liberarsene per procurarsi esperienze programmate quotidianamente si sciolse nella determinazione di una scelta quando l’età di Peppino fu giusta per realizzarla.

Saper attendere e sopportare, ma poi decidere al momento dell’opportunità.

Questa caratteristica si ripeterà continuamente nella lunga strada percorsa, durante gli anni della piena maturità e delle affermazioni importanti. Ogni volta che la ragione metteva in evidenza possibilità concrete per compiere un salto o un passo decisivo verso un percorso nuovo più interessante, purché nel calcolo esatto del rischio, Peppino Fradusco era pronto ad affrontare fatiche nuove e ostacoli. Quando lui ripeteva che bisognava essere “uomo di mondo” intendeva affermare la necessità di una qualità: il mondo chiude nel suo cerchio l’attività dell’uomo e la condiziona, ma il coraggio dell’uomo dotato di capacità di calcolare il rischio di ogni avventura ne fa un elemento dello stesso mondo e rende all’intelligenza la possibilità di scegliere percorsi diversi per uscire dal cerchio.

Le personalità, che mano a mano si definiscono nella vita derivando dall’ambiente, si formano anche da vicinanze con oggetti e persone riproposte di continuo, ma indefinibili perché non attribuite. Storie antiche, costanti tradizioni, eredità di umori tramandati, continuità di legami linguistici, valori legati a DNA indistruttibili si ritrovano sempre nelle espressioni esterne del carattere per chi ha completato la crescita nei vasti silenzi e nella morsa delle difficoltà quotidiane.

L’ambiente contadino di Palazzo San Gervasio all’inizio del secolo scorso si colloca all’interno di quello più ampio e significativo della regione di Venosa, dove in antichi tempi si formò l’interiorità pungente del maggior poeta satirico dell’antichità romana, e dove in tempi più vicini nelle foreste ventose del Vulture dettò legge in nome di un personale culto della libertà delle scelte il più famoso brigante del sud. Da quell’ambiente, una volta definito lo sviluppo fisico della persona e stabilita la necessità di completarsi per accrescimento, un giovanotto tentò di liberarsi, richiamato altrove da stimoli nati nelle difficoltà di un’età vissuta fra strategie disegnate interiormente e odori forti di macchie inaridite.

 

Un poeta di quella terra ha scritto:

 

"Noi che facciamo? All’alba stiamo zitti
nelle piazze per essere comprati,
la sera è il ritorno nelle file
scortati dagli uomini a cavallo,
e sono i nostri compagni nella notte,
coricati all’addiaccio con le pecore."

 

 

Anche per Peppino Fradusco venne il tempo di quella domanda urgente: Noi che facciamo?

In quell’ambiente valeva un’unica risposta: partire...

Con la convinzione di dover percorrere una strada ancora più scoscesa, con la sicurezza di dover andare incontro a confronti inaspettati con quanto fosse diverso dal proprio carattere e dalle proprie abitudini.

Molti avevano da mostrare almeno un pezzo di carta conquistato a fatica. Peppino Fradusco no: tre giorni di scuola e poi soltanto l’insegnamento della vita e la scoperta dei valori altrui carpita dalla furbizia e da una capacità d’intuizione esercitata con costanza.

Non un pezzo di carta, ma le parole sagge della madre e le leggi del quotidiano; e le tavole dei numeri, costruite con intelligenza, che regolavano i rapporti con il resto del mondo, con tutto quello che non fosse terra di Venosa.

E noi che facciamo?

Aspettare per partire, prepararsi a partire per conoscere altrove il nuovo, l’imprevisto, aprire il buio del rischio, le possibilità. Per i giovanotti del Sud c’era un periodo preciso in cui ognuno sentiva di fare un passo per una probabile realizzazione, di poter cogliere l’occasione di evadere, di respirare diverso; e del pari ognuno percepiva l’insorgere di paure non sperimentate ancora per confronti indefiniti e lontananze soltanto immaginate. Per qualcuno la paura del mare, per altri quella di rocce e scoscendimenti montagnosi, per altri ancora il caos delle città mai viste.

Alla prova dei fatti, quando veniva il tempo della leva militare, molti subivano scoraggiamenti e umiliazioni frustranti: ragazzi diventati ormai uomini nella durezza dei desideri inappagati e nel legame stretto con le pietre delle case e dei campi, si entusiasmavano per l’aprirsi delle possibilità di contatti diversi, di orizzonti allargati d’ambiente e di persone; ma li colpiva il dubbio di non essere poi accettati, di essere costretti a diffidenze quotidiane, a solitudini più atroci. I più fortunati erano quelli che venivano destinati a formazioni militari che stanziavano nelle zone meridionali: quanto meno l’adattamento alle mentalità e agli usi locali del mondo esterno alle caserme sarebbe stata una conquista più facile...

Peppino Fradusco godette di questo beneficio: il ventisette settembre del novecentotrentacinque si presentò al 47° Reggimento di Fanteria dislocato a Matera per adempiere agli obblighi della “leva”. Nel foglio matricolare sono annotate le caratteristiche fisiche del giovanotto, dettagliate pignolescamente, integrali tanto da far venire la voglia di costruire un identikit: “capelli neri ondulati, viso ovale, naso greco, mento regolare, occhi castani, sopracciglia nere, colorito bruno, bocca giusta, dentatura sana, arte e professione contadino.”

Se aggiungiamo l’indicazione della circonferenza toracica (ottantatre centimetri) e la statura (1.69), abbiamo tutti gli elementi per riconoscere la figura, le caratteristiche e le movenze di un uomo che noi abbiamo conosciuto più tardi, rimasto tale e quale di quando aveva vent’anni.

Nel foglio matricolare è annotato anche il titolo di studio: terza classe elementare.

Sappiamo per certo che quell’annotazione non regge al vaglio della prova: Peppino era

rimasto a quel terzo giorno di scuola e non alla terza elementare. Ma nel millenovecentotrentacinque la burocrazia non esigeva l’esibizione di documenti a dimostrazione di dichiarazioni spontanee. Esisteva già nei fatti una forma di autocertificazione che ognuno rendeva verbalmente secondò le esigenze.

E l’esigenza di Peppino Fradusco, al momento di partire “militare”, era quella di non apparire inferiore agli altri compagni, per non dover subire sarcasmi o umiliazioni che difficilmente avrebbe sopportato!

Grado di istruzione: terza elementare. Era un’invenzione studiata da tempo, da quando il desiderio di imparare a scrivere e leggere aveva generato un programma:

dietro il gregge Peppino si era imposto di conquistare la padronanza dei numeri con un esercizio assiduo, compiuto forse accostando sassi a sassi in fila o in diagonale, per delineare risultati di operazioni pratiche da mandare a memoria per ripetizione.

Ma nelle ore lunghissime dall’alba ai tramonti, che definivano partenza dalla casa ai campi e ritorno alla masseria, il ragazzo (e poi l’adolescente) si era proposto di cogliere ogni occasione per assimilare dal comportamento e dalle azioni degli altri i segni delle parole e la corrispondenza fra segni e significato fonico.

Allora anche quanto si poteva cogliere nella nuova fase di abitudini e impegni della vita militare, ad esempio l’incontro con le capacità dei commilitoni, doveva essere catturato al volo e reso insegnamento pratico, anche per rendere meno bugiarda quell’affermazione d’essere stato uno scolaro di terza elementare.

Così, insieme all’istruzione da acquisire su cose “militari” Peppino si dedicò furbescamente a carpire insegnamenti da quel che facevano e da come lo facevano altri compagni d’arme.

Spiava con astuzia quelli intenti a scrivere cartoline alle fidanzate o alle madri oppure a leggere posta arrivata da casa; poneva domande ingenue, apparentemente senza interesse, ma mirate ad acquisire nozioni nuove e ad imprimere nella memoria i segni che si identificavano con le parole.

Fu un tempo troppo breve per riuscire nell’intento di assimilare una condizione importante, ma fu l’inizio di un’azione stimolante: il congedo illimitato arrivò nel luglio del trentasei. Se si toglie dal periodo della “leva militare” una licenza straordinaria di tre mesi, il tempo trascorso in caserma cumulò insieme si e no centottanta giorni. Pochi per tutti, ma non per uno come Peppino Fradusco abituato a dilatare il proprio tempo attivo allungando il giorno con una contrazione estrema delle ore del sonno, per dare più ampiezza ai pensieri e alle riflessioni su quanto egli riusciva ad elaborare dal vissuto degli altri.

 

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