<< precedente

BELLEZZA NOSTRA
a cura di Piero Frullini

successivo >>

I PRIGIONIERI
 

La destinazione finale dei due sergenti fu quella del campo di concentramento di Thorn, una località a metà strada fra Varsavia e Danzica, nel territorio polacco, occupato dall’inizio della guerra dai tedeschi.

Uno dei tanti luoghi di raccolta, più lager che campo di detenzione. Oggi quella località si chiama Torùn.

Il ricordo di quel “campo” e di quella località ebbe un’importanza fondamentale nella vita di Peppino. Quando egli ne parlava, innumerevoli volte durante gli anni lontani dalla prigionia, rifuggiva dal raccontare gli stenti e l’impotenza dei giorni trascorsi nell’ostilità delle baracche e sotto la tracotanza dei militari tedeschi. Quel campo aveva segnato una tappa da ripercorrere, vicende da non scordare più. Perché durante il soggiorno obbligato nella cattività di Thorn erano accaduti fatti più importanti della fame e della fatica, che avevano maturato definitivamente la personalità del prigioniero.

A ricordare con solennità quel soggiorno terribile ma fruttuoso, quando negli anni pacificati fu possibile radunare alcuni superstiti del “campo” sopravvissuti alle angherie, alle malattie, al trattamento disumano subito, Peppino li convinse che bisognava festeggiare periodicamente la loro miracolosa sopravvivenza, incontrandosi in allegria e rivisitando anche - come in pellegrinaggio - i luoghi dei patimenti e delle paure, dove ognuno di loro era diventato definitivamente uomo.

Gli incontri annuali furono possibili per la capacità organizzativa e per la discreta regia del professor Cortesani, uno dei sopravvissuti.

Senza particolari cerimonie, ma con l’intenzione di ricordare affettuosamente comuni peripezie, amicizie nate o perdute, nacque il gruppo “quelli di Thorn”, un tempo soldati sfortunati, casualmente riuniti in fraternità per celebrare ricordi, pericoli superati e parlare anche dei commilitoni meno fortunati che non ce l’avevano fatta a scampare alla morte.

Gli incontri periodici diventarono punti di riferimento per riaffermare tra anziani soldati che la bellezza della vita appariva chiara dal riflesso dello specchio dei giorni lontani in cui anche le speranze si erano affievolite e le forze quasi perdute. Per farlo capire anche ai familiari e ai figli che partecipavano a quelle feste della memoria.

Thorn era un luogo tetro. Ma sarebbe stato sopportabile se la condizione di vita fosse stata quella di “prigionieri di guerra”.

Invece nei campi tedeschi non esistevano codici umani di comportamento, dettati da norme comuni alle nazioni belligeranti.

Gli internati diventarono oggetti, braccia da sfruttare senza scrupoli, cervelli da addormentare.

Tutto questo a Peppino Fradusco, che lo capì sin dai primi giorni della prigionia, non piaceva per niente. Con le conseguenze del caso.

Prima ancora che a Thorn la destinazione immediata dopo la cattura era stata diversa. Ritenuti buoni muscoli da fatica pesante, i due “compari” erano stati assegnati al lavoro in una fabbrica nei dintorni di Dresda, non lontano da Wistritz.

Peppino non sopportava di dover sudare per gli altri, specialmente se gratuitamente e in condizioni di degrado: era una questione di carattere!

Poco dopo l’assegnazione a quella fabbrica, il 20 dicembre del quarantatre, l’insofferenza si mutò in ribellione. I due prigionieri costretti ai lavori forzati affrontarono la loro situazione, insopportabile fin dai primi giorni, con una fierezza e un’incoscienza tali da poterli compromettere definitivamente.

Riporto, nella traduzione giurata dal tedesco, l’ordinanza d’accusa del Tribunale della Divisione n.404 dell’esercito tedesco, stilata in Dresda il sei gennaio del quarantaquattro, contro gli internati militari italiani sergente Antonio Bonicchi e sergente Giuseppe Fradusco.

“Viene ordinata l’accusa, in quanto Essi sono sufficientemente sospetti di aver rifiutato l’ubbidienza con parole e fatti, in base ad una decisione uniforme ed agendo in comune e continuamente. (Insubordinazione recidiva).

Reato contro il paragrafo 94 MSTGB (codice penale militare) e paragrafo 47 RSTGB (codice penale del governo).

Gli accusati erano assegnati a lavorare presso la Ditta New-Brobstan. Essi abbandonarono il loro posto di lavoro il 20 dicembre millenovecentoquarantatre e si recarono al Comando Stalag IV C a Wistritz, dove si presentarono verso le ore 17 dal A.O. capitano Jaenkel. Essi asserivano di essere malati e di non poter più eseguire il lavoro al posto loro assegnato e chiesero contemporaneamente di essere assegnati a un lavoro più leggero.

Un esame eseguito dal medico del campo constatava invece la piena capacità di lavoro e di servizio dei due accusati. Essi ricevettero allora dall’ufficiale, mediante l’interprete Rossi, l’ordine di recarsi immediatamente al loro vecchio posto di lavoro e di compiere il lavoro. Essi rifiutarono di ubbidire al caporale Kienzle, dichiarando alla richiesta di andare con lui “Nix arbeiten — niente lavorare — parlare con ufficiale”~ Non ubbidirono neppure né ad un ulteriore ordine impartito dall’ufficiale né alla minaccia di fare uso delle armi. Dichiararono invece, col petto denudato: “Fucilateci, fucilateci”. Nonostante l’energica intimazione di ubbidire all’ordine e diversi colpi col calcio del fucile, gli accusati si mettevano per terra gridando ed urlando fortemente rifiutandosi d’incamminarsi.

Anche quando furono estromessi dall’entrata del palazzo del Comando si mettevano nuovamente per terra e si rifiutavano di ubbidire agli ordini ripetutamente dati.

Mezzi di prova:
capitano Jaenkel quale testimone
caporale Kienzle
cap. magg. Semmerle
l’interprete Rossi.

Viene, pertanto, ordinata la convocazione del Tribunale Militare del Campo”.

Quando Peppino Fradusco ebbe modo di ricordare innumerevoli volte quel giorno, raccontandolo ai familiari, agli amici o ai suoi avversari, poteva con forza vantarsi di aver

scoperto il petto davanti alle armi dei tedeschi e di averle sfidate senza paura.

Il processo che seguì da parte dei nazisti fu l’atto che inorgoglì al massimo grado Peppino Fradusco per tutta la vita. Fu la certificazione della sua indipendenza dalle costruzioni del potere e della prepotenza.

Il tribunale militare decise abbastanza benevolmente, se quel che poteva costare una fucilazione immediata per insubordinazione ripetuta fu considerato forse un atto sconsiderato motivato da esuberanza. Comunque la condanna fu abbastanza dura: ne derivò l’internamento in un campo dove la prigionia era veramente tale, senza neppure la varietà del poter muoversi giornalmente per raggiungere una fabbrica, costretti gli uomini alla solitudine della baracca e alle più rigide giornate di Thorn, migliaia e migliaia di derelitti. Per i quali diventò abitudinario ammalarsi magari di polmonite, esporsi anche al congelamento degli arti senza che qualcuno si preoccupasse di prestare cure di qualche effetto, perdere chili di peso per la costanza della fame.

Fortunatamente la tempra fisica di Peppino e la sua volontà di superare i pericoli, perché non si affievolisse la speranza di tornare un giorno a casa, lo tenevano in piedi. Riusciva ancora ad esprimere le sue risorse, straordinariamente lucido nonostante le condizioni atroci delle vicende quotidiane.

Lo dimostra un fatto apparentemente insignificante.

Una delle poche soddisfazioni della vita nelle baracche era quella di poter fumare ogni tanto un po’ di tabacco, rimediato con le iniziative più impensate. Accanto alla cella di Peppino c’era quella di un prigioniero russo. Nel divisorio di legno i due avevano praticato un foro, non grande da essere notato ma adatto a scambiarsi qualche piccolo oggetto o qualche cibaria.

Peppino, un certo giorno, era entrato in possesso miracoloso di due sigarette; il russo aveva invece quattro fiammiferi, quelli di legno con una buona capocchia. Ambedue erano proprietari di cose preziose. Ma inutili perché separate da una parete di legno, inservibili.

Bisognava svegliare la propria abitudine all’accortezza e all’invenzione: avere le sigarette e non poter fumare era il massimo dell’incongruenza. Ma il peggio per Peppino sarebbe stato di non sfruttare a pieno una possibilità. Dare al russo una sigaretta in cambio di un fiammifero sarebbe stato bello ma improduttivo perché avrebbe consentito sì di farsi una bella tirata, ma avrebbe impedito la ripetitività del piacere di fumare. Non era ragionevole. Allora Peppino propose uno scambio diverso, solo

all’apparenza svantaggioso per lui: l’altro avrebbe dato due fiammiferi contro la sigaretta. Il russo accettò volentieri, confidando che accendere la sigaretta con due fiammiferi era cosa fatta.

Dopo lo scambio, Peppino operò come quando doveva risolvere un problema arduo dietro il gregge di pecore della masseria. Con attenzione estrema, e con pazienza ormai abituale, usò la lametta arrugginita del suo armamentario di prigioniero come un bisturi essenziale. Attento ad incidere con precisione, i due fiammiferi diventarono otto fili di legno, ognuno con la sua parte di capocchia ben attaccata. Ora la sigaretta poteva essere usata con parsimonia, accesa e spenta otto volte.

Una sorta di moltiplicazione delle risorse, che nella situazione della prigionia voleva dire riuscire a sopravvivere con estremo giudizio, astuzia e attenzione al rischio di tutte le ore.

Ciò che era esattamente quanto la vita aveva insegnato a Peppino Fradusco, che ne avrebbe caratterizzato il percorso nella strada del successo.

Arrivò finalmente il tempo della rotta dell’esercito tedesco e l’arrivo dell’Armata rossa a Thorn. Ma non mutò gran che delle giornate dei prigionieri.

Qualcosa era già cambiato, in peggio: l’amico Bonicchi era rimasto ucciso durante i bombardamenti nei giorni della ritirata tedesca. E al campo c’era sempre più anarchia e fame. Ma arrivò anche il tempo della pace. I russi aprirono i varchi del campo di prigionia e gli uomini che avevano avuto la fortuna di salvare la pelle sciamarono come gregge senza pastori.

Si ritrovarono fuori liberi ma disperati, senza mezzi, spogliati di tutto fuorché della dignità, lasciati soli a cercare una direzione per tornare in qualche modo ai propri paesi, senza sapere come.

Qualche aiuto incontrato per caso nei posti più impensati, dove le gambe portavano, dava modo ai tantissimi profughi dei campi della detenzione e degli stermini di continuare a cercare la strada di casa.

Peppino Fradusco impiegò quattro mesi per compiere il suo viaggio da Thorn a Roma. Ma riuscì a tornare; e anche le rovine non lontane da piazza Vittorio raccontavano di speranze da coltivare.

 

Home

introduzione

terre del sud

a Roma

le fotografie la guerra i prigionieri dopo il ritorno
una vita da costruttore le nozze e la famiglia salto di qualità
l'impresa e gli altri la casa al mare tempi difficili
anni di aspre battaglie cambiamenti i cantieri

 

 

 

 

[ Home ]    [ Scrivici ]

 

 

 

 

.

 


.

.