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Donato M. Mazzeo  MASCHITO
Maschito  Storia e Leggenda Verso il Futuro
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NENG HAHËN

ME KULECËT

 

Nella parte del paese rivolta a mezzogiorno, le strade strette e in leggera pendenza si perdono dentro gli atri di ampi cortili in cui si affacciano molti usci di case basse, un tempo con la “mezza porta” di legno ruvida e grezza, accostata allo stipite dell’entrata principale che si chiudeva soltanto di notte.

E un rione che si sviluppa attorno ad uno spiazzo centrale, articolato in modo che la gente possa tuttavia usufruire di piccoli spazi adibiti alla vita comunitaria: piazzuole, gradini. ballatoi su cui potersi ritrovare insieme, la sera, con i vicini.

Fino a non molti anni fa, in questo periodo, a pochi giorni dalla ricorrenza di Pasqua. per le strade di questo vecchio quartiere contadino cera un’animazione diversa, un’atmosfera gaia, festosa.

Le donne, a piccoli gruppi, si recavano al forno vicino con grosse quantità di pasta già lievitata, per preparare i “kulece”: un cibo simile al pane sia per il sapore che per gli ingredienti, ma tuttavia con qualche pretesa in più: i soliti farina, acqua e sale, ma in una composizione meno diluita, più solida e compatta.

La pasta una volta lievitata, veniva divisa in pezzi di circa cinquecento grammi: ognuno di questi veniva poi lavorato in modo da allungarne notevolmente la forma, fino a poterne annodare le estremità così ottenute, si lasciava quindi essiccare il tutto su lunghe tavole infarinate.

Perché poi i propri non sì confondessero con i “kulece” preparati dalle altre famiglie, si imprimeva su ognuno un marchio di riconoscimento fatto con la grossa chiave di casa.

Terminata questa fase sì lessava il preparato in un grosso calderone e finalmente lo si infornava.

Come si può dedurre da questa pur sommaria descrizione, la preparazione dei “kulece” era lunga e fors’anche faticosa: ma tutte le donne con cui ho parlato mi hanno detto che comunque era molto divertente stare insieme alle vicine. alle amiche ed alla fornaia che solitamente era una donna di spirito, arguta e informatissima su fatti e vicende di tutto il paese.

Era quella un’occasione in cui le donne parlavano molto fra di loro, si lanciavano frizzi e battute mordaci che provocavano risate da parte di tutti, un modo antico dì stare insieme, allegramente. tra donne.

Il fuligginoso antro della fornaia era per loro uno dei luoghi d’incontro privilegiati, come per gli uomini stare in piazza. nel “circolo” o dal barbiere.

Oggi lo stesso quartiere è quasi del tutto cambiato: sulle case basse è stato costruito un altro piano con uno stretto balconcino, la scala esterna chiusa “a veranda”, la mezza-porta di un tempo sostituita da un portoncino a vetri con struttura in laminato - come si dice - “anticorodal”. Il forno a legna non c’è più, non c’è più neanche la fornaia: ora c’è un giovane che fa il pane per tutto il paese, con l’impastatrice elettrica. Quelle donne che andavano al forno, però, ci sono ancora. ma non siedono nel grosso cortile comune; sono invecchiate presto e attendono che vengano i figli da Milano o da Torino, magari con il dolce pasquale reclamizzato da un’industria settentrionale.

E qui potrebbe finire il discorso gastronomico e se ne potrebbe cominciare un altro, sociologico, giacché i cibi e la preparazione degli stessi, mentre segnalano l’esatta dimensione dei ritmi di vita di un’intera collettività, offrono uniche un’indicazione sul costume e sull’economia della medesima.

E proprio quell’economia povera, al limite del regime di pura sopravvivenza, che ha in gran parte determinato l’emigrazione e che ha conseguentemente portato con sé un radicale cambiamento dei gusti e della capacità di stare insieme, i motivi e le forme della coesione sociale che hanno retto per secoli, in pochi anni sono stati sostituiti da altri, nuovi, diversi, forse più sofisticati, ma pur sempre importati e perciò inautentici, subìti.

Zi’ Dila ha compreso certamente tutto questo quando mi ha detto: “Oh, vajze ime, kulecet nèng hahen me”.

 

Angela Anastasia Rosati         

 

 

 

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