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Ceneri di Civiltà Contadina in Basilicata
GIUSEPPE NICOLA MOLFESE

L'ABBIGLIAMENTO

Da uno studio approfondito degli antichi costumi lucani si potrebbe facilmente risalire alle diverse o simili origini etniche. È certo che l'abbigliamento, o meglio il costume si è tramandato intatto per molti secoli salvo, si intende, per le modifiche dovute alla naturale evoluzione.
Il costume era un segno distintivo del proprio censo o della propria condizione, della propria classe sociale.
L'antico costume di Sant'Arcangelo, purtroppo, si può dire del tutto scomparso, dal momento che già prima della seconda guerra mondiale era entrato in disuso. Non si vede più quella elegante policromia, sobria allo stesso tempo, che un naturale spirito d'imitazione e di progresso ha quasi completamente distrutto.
La contadina portava in capo una tovaglietta (1) che copriva in parte la fronte, iniziava all'attaccatura dei capelli e terminava sulla nuca. Detta tovaglietta fatta di pizzo e merletti, era fermata dalle lunghe trecce «gnettele» (2). Indossava poi una camicia di cotone tessuta al telaio, quasi sempre con le proprie mani. La camicia era scollata, una specie di rocchetto senza fiocco con maniche larghe fin sotto il gomito, guarnita di pizzi al collo, alle maniche e sul davanti.
La scollatura metteva in evidenza il «berlocco», un monile d'oro appeso ad una fettuccia di velluto nero. Completavano l'ornamento orecchini d'oro formati da grandi cerchi che scendevano fin sulle spalle. Denaro ed altri oggetti di valore venivano custoditi tra i seni.
La donna di campagna, in genere, non portava biancheria intima. Indossava una camicia di cotone, lunga sin al di sopra delle ginocchia, che serviva da sottoveste.
Sulla camicia portava un corsetto, «o corpere», di velluto nero, o marrone scuro o blu o rosso, molto stretto alla vita, con allacciatura a stringhe e guarnito con galloni d'oro sul davanti, sul dietro e sulle spalle. La gonna di color nero o grigio scuro era molto larga, tutta a pieghe, lunga oltre il ginocchio, fermata in vita da una cintura attaccata alla gonna detta «u suttanielle». Sopra la gonna portava un grembiule, «vantesine», lungo quanto la gonna stessa e largo da coprire i fianchi. Nei giorni di festa indossava calze di filo bianco traforate e scarpe di «pelle al cromo» con tacco tozzo ed alto fino a 5 6 cm. Nei giorni di lavoro indossava calze generalmente di filo colorato, tessute a maglia spessa e scarpe di cuoio alte fino a metà gamba. Erano degli stivaletti di color cuoio o nero, alti fin sopra il polpaccio, fermati con stringhe.
Completava l'abbigliamento della contadina «u pannecíelle» cioè uno scialle di dimensioni circa 1,20 x 0,80 di castoro o simile d'inverno, e di tessuto più leggero d'estate, guarnito ai bordi di passamaneria nera. Detto capo di vestiario veniva usato dalla donna quando usciva di casa (aveva l'uso dell'odierno cappotto). In alcune circostanze sarebbe stato sconveniente non portarlo: alla Messa, ad un funerale, nelle aule di giustizia.
Per una giovane fanciulla indossare il costume costituiva l'inizio della maggiore età e quindi l'età «da marito».
L'uomo indossava una camicia bianca o rigata, di cotone grezzo tessuta a telaio, senza colletto ma con pistagna tenuta da un bottone all'altezza del pomo di Adamo; era senza «pettola» (3) cioè lunga sino alla vita, dal momento che la «pettola» era un lusso da «galantuomo». Da ciò ne deriva l'espressione «il cafone quando si è messo la pettola se l'è cacata», cioè che, non essendo abituato a portare tale indumento, per il non saperlo indossare o per gioia, lo ha imbrattato. Tale espressione era usata in senso dispregiativo nei confronti del contadino arricchito e non consueto al nuovo stato.
Al di sopra della camicia, con maniche lunghe fin sotto il gomito, vi era il gilet di velluto nero, «cammesola», nel cui interno vi era una grossa saccoccia, detta «mariola», ove venivano custodite le cose di valore. Completava l'abbigliamento la giacca ad un petto, di velluto un po' più lucido. I pantaloni, molto aderenti, erano lunghi fin sotto il ginocchio e tenevano strette, mediante due bottoni, le calze, che erano di cotone e lavorate a mano.
Dal ginocchio fino alla caviglia erano calzate ghette lunghe, di velluto, o dello stesso tessuto del pantalone, con ai due lati bottoni neri di metallo, che arrivavano sino alla scarpa.
Nell'Ottocento i contadini non usavano le scarpe, usavano una specie di calceo chiamato comunemente «zampitti».
L'uomo portava anche un certo tipo di cappello la cui fabbrica era nella vicina città di Lagonegro.
Completava l'abbigliamento un ampio mantello.
Alcune stoffe venivano tessute dalle donne al telaio «malcatign» (4). Il costume dell'uomo, anch'esso scomparso già da qualche decennio, era chiamato «36 bottoni», dal numero di bottoni di cui era adornato.
Mi è stato raccontato che, in passato, alcune persone di un certo censo portavano ad un orecchio soltanto o a tutt'e due un orecchino d'oro il quale aveva o funzione di ornamento o, presumibilmente, di talismano.
Non è il caso accennare all'abbigliamento che ha sostituito il costume in quanto simile a quello usato in tutta Italia. Intendo però accennare ad un uso particolare: il contadino nei giorni di festa vestiva «l'abito», quello stesso, sempre lo stesso, che ha usato il giorno del matrimonio.
In tempi più recenti, uno tra i primi doni che intercorrevano tra fidanzati era quello del fazzoletto ricamato, che la fidanzata donava al fidanzato. Quest'ultimo lo usava come ornamento al taschino della giacca, facendo uscire un lembo ricamato a forma di triangolo. Questo lembo veniva rivoltato e appoggiato sulla parte esteriore del taschino e fermato dalla clip della penna stilografica. Tale ornamento aveva una serie di significati particolari: che il giovane aveva avuto il dono del fazzoletto dalla fidanzata, che la sua fidanzata sapeva ricamare e che lui infine non era un analfabeta come molti altri compagni, in quanto si poteva «fregiare della penna».
Questo è stato uno dei motivi, forse l'ultimo ed il più banale, che ha indotto alcuni analfabeti a imparare a leggere e scrivere. E’ opportuna, a questo punto, una digressione che esula dal discorso sull'abbigliamento.
La schiavitù che procurava l'ignoranza, l'analfabetismo era grandissima; contezza di ciò si aveva quando il giovane doveva partire per il militare, dove si sarebbe dovuto, necessariamente, aggregare a persone che sapevano leggere e scrivere. Il giovane contadino era costretto a rivolgersi a questi ultimi per scrivere le lettere, o fare i conti, o comunque usufruire di quei normali e comuni mezzi che il progresso ha offerto dalla fine del secolo scorso.

L'uso del fazzoletto

Nel passato l'uso del fazzoletto era limitato a tenerlo al collo per asciugarsi il sudore e non mai per soffiarsi il naso, cosa quest'ultima che era un vezzo dei «galantuomini».
Il contadino usava soffiarsi il naso in questo modo: stringeva le narici con le dita e soffiava fino a far affluire il muco nei condotti nasali. Mediante una seconda soffiata epelleva dal naso, facendo cadere a terra tutto il muco mediante successive soffiate.
Se le mani si erano imbrattate di muco venivano pulite strofinandole nella parte posteriore del pantalone.

La «Capera»

Le donne dei «galantuomini» si facevano pettinare dalla «Capera» la quale, oltre ad avere la funzione specifica di pettinatrice aveva quella, che era certamente la più importante, di divulgare le notizie buone o cattive delle famiglie presso cui si recava quasi quotidianamente, per praticare il suo mestiere.
Attraverso la «Capera» si verificava un'osmosi di notizie tra le diverse famiglie di «galantuomini». Un messaggio che per una miriade di motivi, non si voleva far pervenire direttamente, si affidava «alla capera» la quale, quasi sempre distorto e con una «cornice» di diverse dimensioni, lo trasferiva all'interessato. Queste, come le altre descritte, sono cose del tempo passato.

Scarare (5) ovvero cercare

La volpe si libera dalle pulci in questo modo: va in cerca, nel campo dove si è tosato, di resti di lana di pecora e forma una specie di palla molto dura. Si porta nei pressi di un torrente o di un fosso e vi si immerge piano piano iniziando dalla coda sino alla testa. Le pulci, che temono l'acqua, salgono lungo il corpo della volpe, sino a portarsi nei pressi del muso. Qui, con l'uso della palletta di lana e con i denti ammazza le pulci.
Alcune donne lucane invece, una volta, al sole, in primavera e in estate e vicino al focolare d'inverno, tra loro, si cercavano in testa i pidocchi o le pulci che venivano ammazzati ponendo il pidocchio sull'unghia del pollice sinistro. Si «cercava» con pazienza spostando i capelli con i due pollici ed indici della mano che si trovano nell'area occipitale, parietale, frontale e temporale. Dopo aver percorso con le dita tutto il capo si aveva la certezza che in testa non vi fossero più pidocchi; i capelli venivano pettinati con lo «scaraturo».
Dopo aver fatto le operazioni ora descritte la donna ricomponeva i capelli facendo le treccie. È questo un ricordo del passato perché l'elevato grado d'igiene ha fatto, per fortuna, scomparire questa pratica.

 

NOTE

1) Trattavasi del cosiddetto copricapo ripiegato.
2) Fiorente era il commercio di capelli di donna. Venivano da paesi forestieri, anche a Sant'Arcangelo, ad acquistarli.
3) Falde posteriori della camicia.
4) Per dare al tessuto un colore erano usate alcuni tipi di bacche che, in acqua bollente, davano al tessuto colore.
5) Dal greco eccara (xcara = capo, ec dal).

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IL MATRIMONIO

La ragazza, com'è naturale, terminata l'adolescenza, aspetta con trepidazione che un giovane la guardi, la desideri come «zita» e poi chieda la mano ai suoi genitori.
Ogni donna, infatti, appena superata l'età del menarca, prima sogna e poi pensa di trovare un marito; il non trovarlo, dopo aver raggiunto una certa età, può essere anche una calamità. Tale pregiudizio trova la sua origine nei tempi remoti in cui la donna era soltanto donna di casa e non era in grado di produrre da sola reddito; questo compito era affidato esclusivamente all'uomo il quale provvedeva con il suo lavoro.
L'esigenza di trovare marito qualche volta poteva costituire anche necessità di trovare chi, nel futuro, le avrebbe evitato di condurre una vita grama. A volte ed in alcuni casi rimanere nubile costituiva problema di fame.
Tempi addietro la donna, per trovare marito, ricorreva a riti propiziatori di cui è il caso di fare qualche breve cenno.
La fanciulla trascorreva i giorni intenta ai suoi lavori, non tralasciando di guardarsi intorno per incontrare prima con lo sguardo chi l'avrebbe, poi, impalmata, se ci fosse stato il «destino». Intanto ella non mancava «d'interrogare il destino» e conoscere attraverso particolari pratiche quale sarebbe stato il suo futuro.
La domenica delle Palme, ritornando dalla Chiesa dove si era recata a fare benedire la Palma di olivo ornata di nastri policromi e santini, gettava sul fuoco un ramoscello, pronunciava alcune frasi e chiedeva, infine, alle Palme se il prossimo anno sarebbe stata sposata oppure no (i parenti della sposa hanno sempre interesse a concludere il matrimonio prima possibile). Se la palina scoppiettava allora certamente il prossimo anno si sarebbe avverato il suo sogno; se, invece, non scoppiettava, non vi era allora alcuna speranza di matrimonio per il prossimo futuro.
Poteva ripetere l'esperimento il giorno di S. Giovanni; in tale giorno prendeva un pezzo di piombo, che faceva liquefare e che, rapidamente, buttava in una bacinella d'acqua.
L'improvviso passaggio del piombo dallo stato liquido allo stato solido (data la diversa temperatura) faceva assumere al piombo una particolare forma, dalla quale si traevano auspici: se il piombo aveva forma di zappa, allora il marito sarebbe stato un contadino; se assumeva una forma di martello poteva trattarsi di muratore o calzolaio e così via.
Elementi determinanti nella interpretazione della forma erano la fantasia e le aspirazioni della giovinetta. Il più delle volte il piombo si presentava amorfo, eppure la giovane ne traeva rosei auspici ed era felice, dal momento che arguiva che sarebbe giunto il giorno in cui qualcuno si sarebbe interessato di lei.
L'età in cui, in genere, la donna contraeva matrimonio era compresa tra i 15 e i 20 anni.
Il giovane, detto «pillíne» da polline o da pollone, prima di essere chiamato alle armi, guardava la ragazza da marito, «guagnenelle vacandia», che aveva conosciuto o durante la mietitura e la trebbiatura o la vendemmia o la raccolta delle olive (1). Sceglieva la ragazza che non appartenesse al parentado dal momento che un tale matrimonio, specie tra i contadini, è per lo più quasi sempre evitato.
Frequenti occasioni di incontro e quindi di conoscenza erano rappresentate durante il ritorno in paese, mentre si percorreva la stessa via o a piedi o a cavallo o durante la permanenza nelle masserie. Il giovane che aveva posto l'occhio su una ragazza frequentava il rione ove abitava la futura fidanzata, la osservava, si informava, se non era a conoscenza, del censo e di quanto altro poteva giovargli per conoscere meglio «i costumi» della ragazza.
Nei giorni di festa la seguiva in Chiesa, a debita distanza, sistemandosi in un posto dove poteva agevolmente guardarla. Acquistavano la «fortuna» che era rappresentata da un pezzo di carta sul quale era stampato il futuro di entrambi. La «fortuna» era venduta da girovaghi forestieri che percorrevano tutte le strade del paese con una fisarmonica ed una gabbia contenente un pappagallo.
Ad ogni incrocio o trivio il venditore di «fortuna» si fermava ed incominciava a suonare le canzoni più in voga per far avvicinare i curiosi. Non appena si avvicinava l'acquirente, a seconda che fosse maschio o femmina, il pappagallo «pescava» nel mucchio la «fortuna». Il venditore vendeva anche canzonieri, almanacchi, calendari.
Il giovane spasimante per «fare la maffia» (2) o si metteva una coppola, un fazzoletto di colori appariscenti e vivaci legato al collo, oppure si cospargeva i capelli di olio per renderli lucidi, lisci e ben pettinati (a volte ho visto qualche seme di peperone tra i capelli; ciò stava a significare di aver usato olio nel quale erano stati fritti i peperoni). Così azzimato si recava nei pressi della casa della sposa, fingeva di trovarsi occasionalmente da quelle parti se incontrava qualche parente della ragazza corteggiata. Quest'ultima, stando in casa, seguiva con la massima discrezione le «mosse» del corteggiatore, a volte spiando dalla finestra socchiusa per evitare le ire dei genitori, se questi erano dissenzienti.
Se il giovane si accorgeva di essere corrisposto, a mezzo di persona amica o di altra persona notoriamente usa a fare «ambasciate», faceva sapere al padre della ragazza le proprie intenzioni.
La risposta del padre era quasi sempre stereotipata: «facesse prima il soldato e poi si vedrà; sapesse comunque che a noi fa piacere».
Nell'ipotesi invece che il genitore non fosse contento del giovane, recisamente diceva di no, trovando la scusa che ancora non aveva «fatto il soldato».
Nella prima ipotesi, il giovane quando tornava in licenza, la prima visita in divisa andava a farla al futuro suocero, di poi si recava in caserma a firmare la licenza e successivamente a casa propria.
Durante le sere che rimaneva in paese non mancava di portare la serenata alla ragazza assoldando un suonatore di organetto e cantando lui stesso «ad aria» bellissime canzoni che ho raccolto in parte e che sono a volte vera e spontanea poesia.
Ogni sera il fidanzato si recava ad ora stabilita in casa della fidanzata e non si sedeva mai al suo fianco. Tra i due doveva esserci necessariamente o la madre o il padre o una sorella e ciò per evitare delle «avances» che il fidanzato naturalmente avrebbe fatto se fosse stato solo. Venivano evitate le occasioni di incontri solitari tra i due, sino a quando non sarebbero stati marito e moglie; la donna per desiderio dei genitori e per consuetudine radicata doveva rimanere non sfiorata dal fidanzato.
Quando alla fine della licenza si approssimava la partenza il giovane si recava a salutare i genitori della ragazza (non essendo ancora fidanzati tutta la cordialità si estrinsecava verso i futuri suoceri) unitamente ai suoi genitori, i quali facevano la richiesta ufficiale. Durante la cena (questo prevedeva il protocollo), il padre della ragazza enumerava quali beni, «o ssute» le uscite , avrebbe dato, prima del matrimonio ed a mezzo notaio, alla figlia, oltre al corredo. Il tutto veniva discusso, venivano avanzate rivendicazioni e ulteriori richieste quasi con spirito contrattuale e con impeto di controparte.
Non era raro che i matrimoni si concludessero prevalentemente o esclusivamente per interesse; c'era sempre «chi metteva le calze rosse» cioè l'intermediario, «u tramezzano», che faceva «l'ambasciata», cioè combinava il matrimonio come abbiamo visto.
Al fidanzamento dei promessi sposi, al principale artefice veniva dato in dono un paio di calze e fazzoletti (da questo uso ha preso origine il detto delle calze rosse).
Il corredo della sposa generalmente era composto di 6, 8, 10, 12 capi per ogni tipo di biancheria secondo la disponibilità e il censo della famiglia. Quanti bellissimi corredi sono rimasti intonsi ed immacolati nelle casse di signorine che, ancora, attendono invano di trovare marito.
L'uomo portava per corredo lo stretto necessario per uso personale ma aveva altresì l'obbligo di provvedere ad alcuni mobili essenziali per l'arredamento della nuova abitazione.
«I trastelli», «le tavole», «il saccone» riempito di granoturco ed il materasso di stoppa erano a carico della sposa così come i bauli che avrebbero dovuto contenere la biancheria, e gli utensili da cucina.
«Lo stipone» che costituiva la dispensa della futura famiglia, «u tumpagno», «la fazzatora», erano tutti a carico dello sposo come pure le sedie e la «gàvita» che serviva per ammazzare il maiale e per curare i salami ed il lardo.
Generalmente la conversazione tra le famiglie dei nubendi si concludeva con una promessa su punti fissi e che venivano rispettati a pena di rottura di matrimonio.
Dopo il congedo dal servizio militare, fissavano i genitori degli sposi la data del matrimonio. In questa occasione la madre dello sposo donava alla sposa oggetti d'oro, pendenti, anello, spilla. Vi era un'usanza, ora del tutto scomparsa: tra i vari doni che il fidanzato offriva alla fidanzata vi era una «conocchia» (3). Tale dono veniva generalmente offerto dai pastori; mentre pascolavano le greggi, intagliavano con il coltello un ramo di legno di olmo o simile, traendone una conocchia bellissima degna di essere regalata alla futura sposa. Il dono aveva anche un significato simbolico dal momento che la «conocchia» era un arnese usato per filare la lana. I genitori della fidanzata ricambiavano il dono al fidanzato con oggetti personali.
Veniva preparata la casa degli sposi con mobili costruiti espressamente dal falegname. Due giorni prima del matrimonio la madre della sposa preparava tutto il corredo che veniva esposto e sulle «spase» (manufatto di vimini circolare, né convesso né concavo, generalmente di un metro di diametro) venivano riposti i pezzi più belli del corredo. Le fanciulle amiche della sposa portavano, in corteo, le «spase», in testa, mentre attraversavano il paese per fare ammirare a tutti gli oggetti deposti.
Chiudevano il corteo alcuni animali da soma ornati con campanelli e pendagli, in genere muli prestanti i quali trasportavano sul basto ognuno due bauli contenenti il resto del corredo non suscettibile di ammirazione da parte delle donnette sempre curiose.
Nella casa degli sposi quattro giovani ragazze, vergini, preparavano il letto, disseminato di confetti.
La madre dello sposo, e se lo sposo era orfano una parente, provvedeva a porre sotto il materasso una falce, ad attaccare alla porta un sacchettino pieno di granelli di sale raccolti in un lembo di camicia da uomo (era rigorosamente proscritta la camicia da donna) (4), accendeva il fuoco, metteva fuori dalla finestra (o della porta) un tizzone spento e inchiodava a forma di croce sulla porta o alla finestra due foglie di ulivo benedetto il giorno delle Palme. Preciso che vi era radicata credenza che gli spiriti maligni, prima di compiere nelle case designate i maleficii loro ordinati, dovevano contare i granelli di sale contenuti nel sacchetto.
Durante la notte gli spiriti e solo di notte in quanto l'oscurità è loro alleata non avrebbero fatto in tempo a contare i granellini di sale perché con il sopraggiungere dell'aurora la luce del nuovo giorno avrebbe dissolto ogni cosa.
La falce è il rimedio contro il malocchio, il tizzone spento allontana i malanni e le intemperie materiali, morali ed economiche che possono accadere ai nubendi: al «zito», alla «zita» e alla futura nascente famiglia.
Quando arrivava il giorno tanto sospirato, la mattina delle nozze, fin dalle prime ore, i parenti della sposa e dello sposo, le amiche della sposa, le vicine, invitate e non invitate, si recavano in casa della sposa addobbata a festa. Collaboravano tutte nel vestire la sposa la quale indossava generalmente l'abito bianco. Nel secolo passato, le donne anche per le nozze vestivano in costume. Le donne non più vergini o le vedove dette «cattive» (5) si sposavano con abiti normali. La sposa di regola il giorno delle nozze doveva indossare un indumento già usato, avuto in prestito da una amica felicemente sposata e gravida. Quando era pronta attendeva il suono della campana. Gli uomini invitati andavano in casa dello sposo che, in corteo, si recava in casa dalla «zita», alla quale portava in dono un oggetto d'oro che generalmente era una spilla.
La sposa usciva da casa condotta dal padre o da altra persona di famiglia o dal compare d'anello; seguiva lo sposo al braccio di una donna di famiglia; chiudeva il corteo un parente degli sposi. Lungo il tragitto venivano gettati sul capo degli sposi grano in segno di abbondanza, «cannilicchi», cioè confetti, fiori e monetine.
In Chiesa veniva celebrato il rito. Gli sposi all'entrata in Chiesa non dovevano bagnarsi le mani con l'acqua Santa perché poteva essere inquinata da qualche «polverina magica». Lo sposo per propiziarsi una futura vita felice doveva stare accorto di fare capitare sotto il proprio ginocchio o nei pressi della propria gamba un lembo di vestito della sposa. La sposa, se non era proprio contenta del matrimonio (ma ciò avveniva raramente) durante la cerimonia versava qualche furtiva lacrima causata presumibilmente da rimpianti e da ricordi.
Terminato il rito gli sposi, seguendo una via diversa da quella dell'andata, ritornavano o alla casa della «zita» o in un'altra casa preparata per l'occasione, dove cominciava la distribuzione di dolci e liquori di colori diversi, fatti in casa con zucchero, alcool ed essenze varie.
Dopo la distribuzione di dolci (molti portavano le buste per conservare dolci avuti e non consumati al ricevimento) incominciava il pranzo. Vi erano precise regole circa il posto da occupare a tavola. Naturalmente il posto migliore era riservato agli sposi, i quali dovevano mangiare nello stesso piatto e dal quale poi successivamente anche altri intimi attingevano il cibo, secondo la più o meno stretta parentela con gli sposi medesimi.
Il menù era quasi sempre lo stesso: verdura cotta in brodo, «maccaruni a cannicelli» (è da parecchio che viene usata la normale pasta asciutta), carne di pecora e di capra o di maiale bollita e arrosto, insalata, frutta di stagione (se d'inverno frutta secca), il tutto innafiato con vino generalmente contenuto in fiaschetti di legno, «iascarielli», o in «rizzuli» , cioè in recipienti di creta. Agli sposi e solo ad essi era destinato il fritto delle interiora degli animali (fricassé) servito direttamente dalla cuoca, a cui lo sposo elargiva una mancia nel momento che glielo portava.
Terminato il pranzo vi era sempre un suonatore di organetto o una orchestrina che iniziava a suonare dopo i lunghi brindisi. Iniziavano quindi le danze che si protraevano sino a notte inoltrata. Durante il ballo chi non aveva inviato il regalo consegnava allo sposo una busta contenente denaro. Il ballo più comune era la tarantella, molto simile a quella napoletana, sia nel passo che nelle figure. Gli strumenti musicali erano: l'organetto, il tamburo a sonagli e l'acciarino, quest'ultimo era formato da un triangolo di tondino d'acciaio che veniva percosso da un pezzo di legno o di ferro che produceva un suono squillante che con il tamburo serviva a scandire il tempo.
Aprivano le danze gli sposi, seguiti dai congiunti in ordine di parentela più prossima. Oltre al ballo già detto si eseguivano altri balli più moderni: valzer, polka, e ciò dal termine della guerra 1915 1918, dal momento che prima si usava solo la tarantella. Infatti, non essendo possibile all'uomo avvicinarsi troppo alla donna, durante la tarantella la donna reggeva fra le mani un fazzoletto tirato dai vivagni opposti che volteggiava con verso e teneva così a distanza il danzatore. L'uomo a sua volta faceva le « castagnole » e con lo scrocchio delle dita accompagnava il tempo della musica.
Prima di mezzanotte gli sposi, accompagnati dai parenti più intimi, prendevano possesso della nuova casa. I parenti in genere sorvegliavano la quiete degli sposi affinché non si arrecasse loro disturbo o venissero fatti riti magici in genere portatori di irreparabili mali.
Era anche comune uso che i suonatori, prima di rincasare, portassero la serenata sotto la finestra o davanti alla porta degli sposi. Non era raro il caso in cui gli amici dello sposo, mentre questi era impegnato dalla cerimonia, si introducevano furtivamente nella casa degli «ziti» per fare il «sacco», cioè sistemare le lenzuola in modo che gli sposi per dormire dovevano rifarsi il letto oppure mettevano nel letto qualcosa che potesse spaventarli al momento in cui si coricavano, ad esempio una scopa o altro materiale.
La mattina successiva gli sposi non si alzavano sino a quando non arrivavano i parenti i quali preparavano loro il caffè o la colazione. Iniziavano il primo giorno da «nzurati» (6).

 

NOTE

1) Le occasioni di incontro in genere erano collegate ai lavori nei quali si impiegavano mano d'opera mista.
2) Per «maffia» si è sempre inteso dare il seguente significato: una certa ricercatezza nel vestire che generalmente è molto eccentrico, capelli e basette lunghe, baffi vistosi. «Maffia» non è proprio sinonimo di delinquenza.
3) Una volta si filava la lana ed il cotone con il fuso. La lana o il cotone da filare venivano posti intorno alla conocchia. Sull'addome e sulla gamba destra ero posta «a vantera»; pezzo di pelle di pecora o panno. Si filava imprimendo velocità al fuso strofinandolo sulla «vantera». Il movimento rotatorio attorcinava la lana e la seta al fuso in modo da renderla filo. « Vantera», dal greco anti contro, entera intestini, pancia.
4) La camicia da donna poteva essere venuta a contatto con sangue catameniale che è considerato, della donna, la cosa più impura.
5) Dal latino «captivus» = prigioniero del dolore.
6) Dal greco zeugnumi = congiungere, aggiogare, dare in matrimonio.

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