L'ABBIGLIAMENTO
Da uno studio approfondito degli antichi costumi lucani si potrebbe
facilmente risalire alle diverse o simili origini etniche. È certo che
l'abbigliamento, o meglio il costume si è tramandato intatto per molti
secoli salvo, si intende, per le modifiche dovute alla naturale evoluzione.
Il costume era un segno distintivo del proprio censo o della propria
condizione, della propria classe sociale.
L'antico costume di Sant'Arcangelo, purtroppo, si può dire del tutto
scomparso, dal momento che già prima della seconda guerra mondiale era
entrato in disuso. Non si vede più quella elegante policromia, sobria allo
stesso tempo, che un naturale spirito d'imitazione e di progresso ha quasi
completamente distrutto.
La contadina portava in capo una tovaglietta (1) che copriva in parte la
fronte, iniziava all'attaccatura dei capelli e terminava sulla nuca. Detta
tovaglietta fatta di pizzo e merletti, era fermata dalle lunghe trecce
«gnettele» (2). Indossava poi una camicia di cotone tessuta al telaio, quasi
sempre con le proprie mani. La camicia era scollata, una specie di rocchetto
senza fiocco con maniche larghe fin sotto il gomito, guarnita di pizzi al
collo, alle maniche e sul davanti.
La scollatura metteva in evidenza il «berlocco», un monile d'oro appeso ad
una fettuccia di velluto nero. Completavano l'ornamento orecchini d'oro
formati da grandi cerchi che scendevano fin sulle spalle. Denaro ed altri
oggetti di valore venivano custoditi tra i seni.
La donna di campagna, in genere, non portava biancheria intima. Indossava
una camicia di cotone, lunga sin al di sopra delle ginocchia, che serviva da
sottoveste.
Sulla camicia portava un corsetto, «o corpere», di velluto nero, o marrone
scuro o blu o rosso, molto stretto alla vita, con allacciatura a stringhe e
guarnito con galloni d'oro sul davanti, sul dietro e sulle spalle. La gonna
di color nero o grigio scuro era molto larga, tutta a pieghe, lunga oltre il
ginocchio, fermata in vita da una cintura attaccata alla gonna detta «u
suttanielle». Sopra la gonna portava un grembiule, «vantesine», lungo quanto
la gonna stessa e largo da coprire i fianchi. Nei giorni di festa indossava
calze di filo bianco traforate e scarpe di «pelle al cromo» con tacco tozzo
ed alto fino a 5 6 cm. Nei giorni di lavoro indossava calze generalmente di
filo colorato, tessute a maglia spessa e scarpe di cuoio alte fino a metà
gamba. Erano degli stivaletti di color cuoio o nero, alti fin sopra il
polpaccio, fermati con stringhe.
Completava l'abbigliamento della contadina «u pannecíelle» cioè uno scialle
di dimensioni circa 1,20 x 0,80 di castoro o simile d'inverno, e di tessuto
più leggero d'estate, guarnito ai bordi di passamaneria nera. Detto capo di
vestiario veniva usato dalla donna quando usciva di casa (aveva l'uso
dell'odierno cappotto). In alcune circostanze sarebbe stato sconveniente non
portarlo: alla Messa, ad un funerale, nelle aule di giustizia.
Per una giovane fanciulla indossare il costume costituiva l'inizio della
maggiore età e quindi l'età «da marito».
L'uomo indossava una camicia bianca o rigata, di cotone grezzo tessuta a
telaio, senza colletto ma con pistagna tenuta da un bottone all'altezza del
pomo di Adamo; era senza «pettola» (3) cioè lunga sino alla vita, dal
momento che la «pettola» era un lusso da «galantuomo». Da ciò ne deriva
l'espressione «il cafone quando si è messo la pettola se l'è cacata», cioè
che, non essendo abituato a portare tale indumento, per il non saperlo
indossare o per gioia, lo ha imbrattato. Tale espressione era usata in senso
dispregiativo nei confronti del contadino arricchito e non consueto al nuovo
stato.
Al di sopra della camicia, con maniche lunghe fin sotto il gomito, vi era il
gilet di velluto nero, «cammesola», nel cui interno vi era una grossa
saccoccia, detta «mariola», ove venivano custodite le cose di valore.
Completava l'abbigliamento la giacca ad un petto, di velluto un po' più
lucido. I pantaloni, molto aderenti, erano lunghi fin sotto il ginocchio e
tenevano strette, mediante due bottoni, le calze, che erano di cotone e
lavorate a mano.
Dal ginocchio fino alla caviglia erano calzate ghette lunghe, di velluto, o
dello stesso tessuto del pantalone, con ai due lati bottoni neri di metallo,
che arrivavano sino alla scarpa.
Nell'Ottocento i contadini non usavano le scarpe, usavano una specie di
calceo chiamato comunemente «zampitti».
L'uomo portava anche un certo tipo di cappello la cui fabbrica era nella
vicina città di Lagonegro.
Completava l'abbigliamento un ampio mantello.
Alcune stoffe venivano tessute dalle donne al telaio «malcatign» (4). Il
costume dell'uomo, anch'esso scomparso già da qualche decennio, era chiamato
«36 bottoni», dal numero di bottoni di cui era adornato.
Mi è stato raccontato che, in passato, alcune persone di un certo censo
portavano ad un orecchio soltanto o a tutt'e due un orecchino d'oro il quale
aveva o funzione di ornamento o, presumibilmente, di talismano.
Non è il caso accennare all'abbigliamento che ha sostituito il costume in
quanto simile a quello usato in tutta Italia. Intendo però accennare ad un
uso particolare: il contadino nei giorni di festa vestiva «l'abito», quello
stesso, sempre lo stesso, che ha usato il giorno del matrimonio.
In tempi più recenti, uno tra i primi doni che intercorrevano tra fidanzati
era quello del fazzoletto ricamato, che la fidanzata donava al fidanzato.
Quest'ultimo lo usava come ornamento al taschino della giacca, facendo
uscire un lembo ricamato a forma di triangolo. Questo lembo veniva rivoltato
e appoggiato sulla parte esteriore del taschino e fermato dalla clip della
penna stilografica. Tale ornamento aveva una serie di significati
particolari: che il giovane aveva avuto il dono del fazzoletto dalla
fidanzata, che la sua fidanzata sapeva ricamare e che lui infine non era un
analfabeta come molti altri compagni, in quanto si poteva «fregiare della
penna».
Questo è stato uno dei motivi, forse l'ultimo ed il più banale, che ha
indotto alcuni analfabeti a imparare a leggere e scrivere. E’ opportuna, a
questo punto, una digressione che esula dal discorso sull'abbigliamento.
La schiavitù che procurava l'ignoranza, l'analfabetismo era grandissima;
contezza di ciò si aveva quando il giovane doveva partire per il militare,
dove si sarebbe dovuto, necessariamente, aggregare a persone che sapevano
leggere e scrivere. Il giovane contadino era costretto a rivolgersi a questi
ultimi per scrivere le lettere, o fare i conti, o comunque usufruire di quei
normali e comuni mezzi che il progresso ha offerto dalla fine del secolo
scorso.
L'uso del fazzoletto
Nel passato l'uso del fazzoletto era limitato a tenerlo al collo per
asciugarsi il sudore e non mai per soffiarsi il naso, cosa quest'ultima che
era un vezzo dei «galantuomini».
Il contadino usava soffiarsi il naso in questo modo: stringeva le narici con
le dita e soffiava fino a far affluire il muco nei condotti nasali. Mediante
una seconda soffiata epelleva dal naso, facendo cadere a terra tutto il muco
mediante successive soffiate.
Se le mani si erano imbrattate di muco venivano pulite strofinandole nella
parte posteriore del pantalone.
La «Capera»
Le donne dei «galantuomini» si facevano pettinare dalla «Capera» la quale,
oltre ad avere la funzione specifica di pettinatrice aveva quella, che era
certamente la più importante, di divulgare le notizie buone o cattive delle
famiglie presso cui si recava quasi quotidianamente, per praticare il suo
mestiere.
Attraverso la «Capera» si verificava un'osmosi di notizie tra le diverse
famiglie di «galantuomini». Un messaggio che per una miriade di motivi, non
si voleva far pervenire direttamente, si affidava «alla capera» la quale,
quasi sempre distorto e con una «cornice» di diverse dimensioni, lo
trasferiva all'interessato. Queste, come le altre descritte, sono cose del
tempo passato.
Scarare (5) ovvero cercare
La volpe si libera dalle pulci in questo modo: va in cerca, nel campo dove
si è tosato, di resti di lana di pecora e forma una specie di palla molto
dura. Si porta nei pressi di un torrente o di un fosso e vi si immerge piano
piano iniziando dalla coda sino alla testa. Le pulci, che temono l'acqua,
salgono lungo il corpo della volpe, sino a portarsi nei pressi del muso.
Qui, con l'uso della palletta di lana e con i denti ammazza le pulci.
Alcune donne lucane invece, una volta, al sole, in primavera e in estate e
vicino al focolare d'inverno, tra loro, si cercavano in testa i pidocchi o
le pulci che venivano ammazzati ponendo il pidocchio sull'unghia del pollice
sinistro. Si «cercava» con pazienza spostando i capelli con i due pollici ed
indici della mano che si trovano nell'area occipitale, parietale, frontale e
temporale. Dopo aver percorso con le dita tutto il capo si aveva la certezza
che in testa non vi fossero più pidocchi; i capelli venivano pettinati con
lo «scaraturo».
Dopo aver fatto le operazioni ora descritte la donna ricomponeva i capelli
facendo le treccie. È questo un ricordo del passato perché l'elevato grado
d'igiene ha fatto, per fortuna, scomparire questa pratica.
NOTE
1) Trattavasi del cosiddetto copricapo ripiegato.
2) Fiorente era il commercio di capelli di donna. Venivano da paesi
forestieri, anche a Sant'Arcangelo, ad acquistarli.
3) Falde posteriori della camicia.
4) Per dare al tessuto un colore erano usate alcuni tipi di bacche che, in
acqua bollente, davano al tessuto colore.
5) Dal greco ec‑cara
(xcara = capo,
ec dal).
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IL
MATRIMONIO La
ragazza, com'è naturale, terminata l'adolescenza, aspetta con trepidazione
che un giovane la guardi, la desideri come «zita» e poi chieda la mano ai
suoi genitori.
Ogni donna, infatti, appena superata l'età del menarca, prima sogna e poi
pensa di trovare un marito; il non trovarlo, dopo aver raggiunto una certa
età, può essere anche una calamità. Tale pregiudizio trova la sua origine
nei tempi remoti in cui la donna era soltanto donna di casa e non era in
grado di produrre da sola reddito; questo compito era affidato
esclusivamente all'uomo il quale provvedeva con il suo lavoro.
L'esigenza di trovare marito qualche volta poteva costituire anche necessità
di trovare chi, nel futuro, le avrebbe evitato di condurre una vita grama. A
volte ed in alcuni casi rimanere nubile costituiva problema di fame.
Tempi addietro la donna, per trovare marito, ricorreva a riti propiziatori
di cui è il caso di fare qualche breve cenno.
La fanciulla trascorreva i giorni intenta ai suoi lavori, non tralasciando
di guardarsi intorno per incontrare prima con lo sguardo chi l'avrebbe, poi,
impalmata, se ci fosse stato il «destino». Intanto ella non mancava
«d'interrogare il destino» e conoscere attraverso particolari pratiche quale
sarebbe stato il suo futuro.
La domenica delle Palme, ritornando dalla Chiesa dove si era recata a fare
benedire la Palma di olivo ornata di nastri policromi e santini, gettava sul
fuoco un ramoscello, pronunciava alcune frasi e chiedeva, infine, alle Palme
se il prossimo anno sarebbe stata sposata oppure no (i parenti della sposa
hanno sempre interesse a concludere il matrimonio prima possibile). Se la
palina scoppiettava allora certamente il prossimo anno si sarebbe avverato
il suo sogno; se, invece, non scoppiettava, non vi era allora alcuna
speranza di matrimonio per il prossimo futuro.
Poteva ripetere l'esperimento il giorno di S. Giovanni; in tale giorno
prendeva un pezzo di piombo, che faceva liquefare e che, rapidamente,
buttava in una bacinella d'acqua.
L'improvviso passaggio del piombo dallo stato liquido allo stato solido
(data la diversa temperatura) faceva assumere al piombo una particolare
forma, dalla quale si traevano auspici: se il piombo aveva forma di zappa,
allora il marito sarebbe stato un contadino; se assumeva una forma di
martello poteva trattarsi di muratore o calzolaio e così via.
Elementi determinanti nella interpretazione della forma erano la fantasia e
le aspirazioni della giovinetta. Il più delle volte il piombo si presentava
amorfo, eppure la giovane ne traeva rosei auspici ed era felice, dal momento
che arguiva che sarebbe giunto il giorno in cui qualcuno si sarebbe
interessato di lei.
L'età in cui, in genere, la donna contraeva matrimonio era compresa tra i 15
e i 20 anni.
Il giovane, detto «pillíne» da polline o da pollone, prima di essere
chiamato alle armi, guardava la ragazza da marito, «guagnenelle vacandia»,
che aveva conosciuto o durante la mietitura e la trebbiatura o la vendemmia
o la raccolta delle olive (1). Sceglieva la ragazza che non appartenesse al
parentado dal momento che un tale matrimonio, specie tra i contadini, è per
lo più quasi sempre evitato.
Frequenti occasioni di incontro e quindi di conoscenza erano rappresentate
durante il ritorno in paese, mentre si percorreva la stessa via o a piedi o
a cavallo o durante la permanenza nelle masserie. Il giovane che aveva posto
l'occhio su una ragazza frequentava il rione ove abitava la futura
fidanzata, la osservava, si informava, se non era a conoscenza, del censo e
di quanto altro poteva giovargli per conoscere meglio «i costumi» della
ragazza.
Nei giorni di festa la seguiva in Chiesa, a debita distanza, sistemandosi in
un posto dove poteva agevolmente guardarla. Acquistavano la «fortuna» che
era rappresentata da un pezzo di carta sul quale era stampato il futuro di
entrambi. La «fortuna» era venduta da girovaghi forestieri che percorrevano
tutte le strade del paese con una fisarmonica ed una gabbia contenente un
pappagallo.
Ad ogni incrocio o trivio il venditore di «fortuna» si fermava ed
incominciava a suonare le canzoni più in voga per far avvicinare i curiosi.
Non appena si avvicinava l'acquirente, a seconda che fosse maschio o
femmina, il pappagallo «pescava» nel mucchio la «fortuna». Il venditore
vendeva anche canzonieri, almanacchi, calendari.
Il giovane spasimante per «fare la maffia» (2) o si metteva una coppola, un
fazzoletto di colori appariscenti e vivaci legato al collo, oppure si
cospargeva i capelli di olio per renderli lucidi, lisci e ben pettinati (a
volte ho visto qualche seme di peperone tra i capelli; ciò stava a
significare di aver usato olio nel quale erano stati fritti i peperoni).
Così azzimato si recava nei pressi della casa della sposa, fingeva di
trovarsi occasionalmente da quelle parti se incontrava qualche parente della
ragazza corteggiata. Quest'ultima, stando in casa, seguiva con la massima
discrezione le «mosse» del corteggiatore, a volte spiando dalla finestra
socchiusa per evitare le ire dei genitori, se questi erano dissenzienti.
Se il giovane si accorgeva di essere corrisposto, a mezzo di persona amica o
di altra persona notoriamente usa a fare «ambasciate», faceva sapere al
padre della ragazza le proprie intenzioni.
La risposta del padre era quasi sempre stereotipata: «facesse prima il
soldato e poi si vedrà; sapesse comunque che a noi fa piacere».
Nell'ipotesi invece che il genitore non fosse contento del giovane,
recisamente diceva di no, trovando la scusa che ancora non aveva «fatto il
soldato».
Nella prima ipotesi, il giovane quando tornava in licenza, la prima visita
in divisa andava a farla al futuro suocero, di poi si recava in caserma a
firmare la licenza e successivamente a casa propria.
Durante le sere che rimaneva in paese non mancava di portare la serenata
alla ragazza assoldando un suonatore di organetto e cantando lui stesso «ad
aria» bellissime canzoni che ho raccolto in parte e che sono a volte vera e
spontanea poesia.
Ogni sera il fidanzato si recava ad ora stabilita in casa della fidanzata e
non si sedeva mai al suo fianco. Tra i due doveva esserci necessariamente o
la madre o il padre o una sorella e ciò per evitare delle «avances» che il
fidanzato naturalmente avrebbe fatto se fosse stato solo. Venivano evitate
le occasioni di incontri solitari tra i due, sino a quando non sarebbero
stati marito e moglie; la donna per desiderio dei genitori e per
consuetudine radicata doveva rimanere non sfiorata dal fidanzato.
Quando alla fine della licenza si approssimava la partenza il giovane si
recava a salutare i genitori della ragazza (non essendo ancora fidanzati
tutta la cordialità si estrinsecava verso i futuri suoceri) unitamente ai
suoi genitori, i quali facevano la richiesta ufficiale. Durante la cena
(questo prevedeva il protocollo), il padre della ragazza enumerava quali
beni, «o ssute» le uscite , avrebbe dato, prima del matrimonio ed a mezzo
notaio, alla figlia, oltre al corredo. Il tutto veniva discusso, venivano
avanzate rivendicazioni e ulteriori richieste quasi con spirito contrattuale
e con impeto di controparte.
Non era raro che i matrimoni si concludessero prevalentemente o
esclusivamente per interesse; c'era sempre «chi metteva le calze rosse» cioè
l'intermediario, «u tramezzano», che faceva «l'ambasciata», cioè combinava
il matrimonio come abbiamo visto.
Al fidanzamento dei promessi sposi, al principale artefice veniva dato in
dono un paio di calze e fazzoletti (da questo uso ha preso origine il detto
delle calze rosse).
Il corredo della sposa generalmente era composto di 6, 8, 10, 12 capi per
ogni tipo di biancheria secondo la disponibilità e il censo della famiglia.
Quanti bellissimi corredi sono rimasti intonsi ed immacolati nelle casse di
signorine che, ancora, attendono invano di trovare marito.
L'uomo portava per corredo lo stretto necessario per uso personale ma aveva
altresì l'obbligo di provvedere ad alcuni mobili essenziali per
l'arredamento della nuova abitazione.
«I trastelli», «le tavole», «il saccone» riempito di granoturco ed il
materasso di stoppa erano a carico della sposa così come i bauli che
avrebbero dovuto contenere la biancheria, e gli utensili da cucina.
«Lo stipone» che costituiva la dispensa della futura famiglia, «u tumpagno»,
«la fazzatora», erano tutti a carico dello sposo come pure le sedie e la
«gàvita» che serviva per ammazzare il maiale e per curare i salami ed il
lardo.
Generalmente la conversazione tra le famiglie dei nubendi si concludeva con
una promessa su punti fissi e che venivano rispettati a pena di rottura di
matrimonio.
Dopo il congedo dal servizio militare, fissavano i genitori degli sposi la
data del matrimonio. In questa occasione la madre dello sposo donava alla
sposa oggetti d'oro, pendenti, anello, spilla. Vi era un'usanza, ora del
tutto scomparsa: tra i vari doni che il fidanzato offriva alla fidanzata vi
era una «conocchia» (3). Tale dono veniva generalmente offerto dai pastori;
mentre pascolavano le greggi, intagliavano con il coltello un ramo di legno
di olmo o simile, traendone una conocchia bellissima degna di essere
regalata alla futura sposa. Il dono aveva anche un significato simbolico dal
momento che la «conocchia» era un arnese usato per filare la lana. I
genitori della fidanzata ricambiavano il dono al fidanzato con oggetti
personali.
Veniva preparata la casa degli sposi con mobili costruiti espressamente dal
falegname. Due giorni prima del matrimonio la madre della sposa preparava
tutto il corredo che veniva esposto e sulle «spase» (manufatto di vimini
circolare, né convesso né concavo, generalmente di un metro di diametro)
venivano riposti i pezzi più belli del corredo. Le fanciulle amiche della
sposa portavano, in corteo, le «spase», in testa, mentre attraversavano il
paese per fare ammirare a tutti gli oggetti deposti.
Chiudevano il corteo alcuni animali da soma ornati con campanelli e
pendagli, in genere muli prestanti i quali trasportavano sul basto ognuno
due bauli contenenti il resto del corredo non suscettibile di ammirazione da
parte delle donnette sempre curiose.
Nella casa degli sposi quattro giovani ragazze, vergini, preparavano il
letto, disseminato di confetti.
La madre dello sposo, e se lo sposo era orfano una parente, provvedeva a
porre sotto il materasso una falce, ad attaccare alla porta un sacchettino
pieno di granelli di sale raccolti in un lembo di camicia da uomo (era
rigorosamente proscritta la camicia da donna) (4), accendeva il fuoco,
metteva fuori dalla finestra (o della porta) un tizzone spento e inchiodava
a forma di croce sulla porta o alla finestra due foglie di ulivo benedetto
il giorno delle Palme. Preciso che vi era radicata credenza che gli spiriti
maligni, prima di compiere nelle case designate i maleficii loro ordinati,
dovevano contare i granelli di sale contenuti nel sacchetto.
Durante la notte gli spiriti e solo di notte in quanto l'oscurità è loro
alleata non avrebbero fatto in tempo a contare i granellini di sale perché
con il sopraggiungere dell'aurora la luce del nuovo giorno avrebbe dissolto
ogni cosa.
La falce è il rimedio contro il malocchio, il tizzone spento allontana i
malanni e le intemperie materiali, morali ed economiche che possono accadere
ai nubendi: al «zito», alla «zita» e alla futura nascente famiglia.
Quando arrivava il giorno tanto sospirato, la mattina delle nozze, fin dalle
prime ore, i parenti della sposa e dello sposo, le amiche della sposa, le
vicine, invitate e non invitate, si recavano in casa della sposa addobbata a
festa. Collaboravano tutte nel vestire la sposa la quale indossava
generalmente l'abito bianco. Nel secolo passato, le donne anche per le nozze
vestivano in costume. Le donne non più vergini o le vedove dette «cattive»
(5) si sposavano con abiti normali. La sposa di regola il giorno delle nozze
doveva indossare un indumento già usato, avuto in prestito da una amica
felicemente sposata e gravida. Quando era pronta attendeva il suono della
campana. Gli uomini invitati andavano in casa dello sposo che, in corteo, si
recava in casa dalla «zita», alla quale portava in dono un oggetto d'oro che
generalmente era una spilla.
La sposa usciva da casa condotta dal padre o da altra persona di famiglia o
dal compare d'anello; seguiva lo sposo al braccio di una donna di famiglia;
chiudeva il corteo un parente degli sposi. Lungo il tragitto venivano
gettati sul capo degli sposi grano in segno di abbondanza, «cannilicchi»,
cioè confetti, fiori e monetine.
In Chiesa veniva celebrato il rito. Gli sposi all'entrata in Chiesa non
dovevano bagnarsi le mani con l'acqua Santa perché poteva essere inquinata
da qualche «polverina magica». Lo sposo per propiziarsi una futura vita
felice doveva stare accorto di fare capitare sotto il proprio ginocchio o
nei pressi della propria gamba un lembo di vestito della sposa. La sposa, se
non era proprio contenta del matrimonio (ma ciò avveniva raramente) durante
la cerimonia versava qualche furtiva lacrima causata presumibilmente da
rimpianti e da ricordi.
Terminato il rito gli sposi, seguendo una via diversa da quella dell'andata,
ritornavano o alla casa della «zita» o in un'altra casa preparata per
l'occasione, dove cominciava la distribuzione di dolci e liquori di colori
diversi, fatti in casa con zucchero, alcool ed essenze varie.
Dopo la distribuzione di dolci (molti portavano le buste per conservare
dolci avuti e non consumati al ricevimento) incominciava il pranzo. Vi erano
precise regole circa il posto da occupare a tavola. Naturalmente il posto
migliore era riservato agli sposi, i quali dovevano mangiare nello stesso
piatto e dal quale poi successivamente anche altri intimi attingevano il
cibo, secondo la più o meno stretta parentela con gli sposi medesimi.
Il menù era quasi sempre lo stesso: verdura cotta in brodo, «maccaruni a
cannicelli» (è da parecchio che viene usata la normale pasta asciutta),
carne di pecora e di capra o di maiale bollita e arrosto, insalata, frutta
di stagione (se d'inverno frutta secca), il tutto innafiato con vino
generalmente contenuto in fiaschetti di legno, «iascarielli», o in «rizzuli»
, cioè in recipienti di creta. Agli sposi e solo ad essi era destinato il
fritto delle interiora degli animali (fricassé) servito direttamente dalla
cuoca, a cui lo sposo elargiva una mancia nel momento che glielo portava.
Terminato il pranzo vi era sempre un suonatore di organetto o una
orchestrina che iniziava a suonare dopo i lunghi brindisi. Iniziavano quindi
le danze che si protraevano sino a notte inoltrata. Durante il ballo chi non
aveva inviato il regalo consegnava allo sposo una busta contenente denaro.
Il ballo più comune era la tarantella, molto simile a quella napoletana, sia
nel passo che nelle figure. Gli strumenti musicali erano: l'organetto, il
tamburo a sonagli e l'acciarino, quest'ultimo era formato da un triangolo di
tondino d'acciaio che veniva percosso da un pezzo di legno o di ferro che
produceva un suono squillante che con il tamburo serviva a scandire il
tempo.
Aprivano le danze gli sposi, seguiti dai congiunti in ordine di parentela
più prossima. Oltre al ballo già detto si eseguivano altri balli più
moderni: valzer, polka, e ciò dal termine della guerra 1915 1918, dal
momento che prima si usava solo la tarantella. Infatti, non essendo
possibile all'uomo avvicinarsi troppo alla donna, durante la tarantella la
donna reggeva fra le mani un fazzoletto tirato dai vivagni opposti che
volteggiava con verso e teneva così a distanza il danzatore. L'uomo a sua
volta faceva le « castagnole » e con lo scrocchio delle dita accompagnava il
tempo della musica.
Prima di mezzanotte gli sposi, accompagnati dai parenti più intimi,
prendevano possesso della nuova casa. I parenti in genere sorvegliavano la
quiete degli sposi affinché non si arrecasse loro disturbo o venissero fatti
riti magici in genere portatori di irreparabili mali.
Era anche comune uso che i suonatori, prima di rincasare, portassero la
serenata sotto la finestra o davanti alla porta degli sposi. Non era raro il
caso in cui gli amici dello sposo, mentre questi era impegnato dalla
cerimonia, si introducevano furtivamente nella casa degli «ziti» per fare il
«sacco», cioè sistemare le lenzuola in modo che gli sposi per dormire
dovevano rifarsi il letto oppure mettevano nel letto qualcosa che potesse
spaventarli al momento in cui si coricavano, ad esempio una scopa o altro
materiale.
La mattina successiva gli sposi non si alzavano sino a quando non arrivavano
i parenti i quali preparavano loro il caffè o la colazione. Iniziavano il
primo giorno da «nzurati» (6).
NOTE
1) Le occasioni di incontro in
genere erano collegate ai lavori nei quali si impiegavano mano d'opera
mista.
2) Per «maffia» si è sempre inteso dare il seguente significato: una certa
ricercatezza nel vestire che generalmente è molto eccentrico, capelli e
basette lunghe, baffi vistosi. «Maffia» non è proprio sinonimo di
delinquenza.
3) Una volta si filava la lana ed il cotone con il fuso. La lana o il cotone
da filare venivano posti intorno alla conocchia. Sull'addome e sulla gamba
destra ero posta «a vantera»; pezzo di pelle di pecora o panno. Si filava
imprimendo velocità al fuso strofinandolo sulla «vantera». Il movimento
rotatorio attorcinava la lana e la seta al fuso in modo da renderla filo. «
Vantera», dal greco
anti contro,
entera intestini, pancia.
4) La camicia da donna poteva essere venuta a contatto con sangue
catameniale che è considerato, della donna, la cosa più impura.
5) Dal latino «captivus» = prigioniero del dolore.
6) Dal greco zeugnumi
= congiungere, aggiogare, dare in matrimonio.
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