Molì
Domenico Molinari

 

BREVE NOTA DELL’ARTISTA

 

Mi piacerebbe oggi svelarvi un segreto. Vorrei che vi fermaste un momento, soffermando il vostro sguardo sulla figura riportata a pagina 39 (fig. 2 - opere). Ora se ritornate al vostro passato, sicuramente i più fortunati di voi ricorderanno di aver avuto un grande aiuto da chi gli stava vicino, specie nei primi anni quando si è bambini. Sicuramente molti ricorderanno la madre ed il padre che con il loro amore, le loro cure costanti e la necessaria protezione cercano di dare il massimo delle attenzioni alla propria creatura. Non è certo raro trovare madri che si preoccupano se il proprio figlio non mangia o se esce di casa d’inverno poco coperto; costantemente pronte ad incoraggiarlo nei momenti bui, costantemente presenti nei momenti belli e felici come in quelli di sconforto e di tristezza. Ebbene tutto questo succede a gente fortunata. Ma la figura che vi ho invitato a guardare certo non appartiene alba categoria di persone che sopra vi ho descritto, anzi la sua esperienza di vita è stata talmente drammatica da superare ogni più fervida fantasia, tanto da diventare anche per me una piaga che ancora oggi porto nel cuore e che per sempre ha condizionato il mio giudizio sugli uomini e la mia stessa visione del mondo. Dunque il ritratto in questione rappresenta mio nonno, Molinari Domenico nato ad Albano di Lucania nel 1887. Il padre (Vito Molinari) e la madre (Santoro Rosa) diedero i natali a quattro figli, tre maschi ed una femmina; Rachele che era la più grande poi Giovanni, Domenico ed il più piccolo Rocco. Questi quattro bambini rimasero ben presto orfani, tanto che mio nonno ricordava appena la figura della madre, ed ancora oggi non è dato sapere se tutto ciò avvenne per cause naturali, per volontà di Dio o per mano “umana”. Fatto sta che da questo evento inizia una lunga e penosa storia che per crudeltà va ben oltre ogni immaginazione e che per grandi linee e per la prima volta in vita mia mi appresto a raccontarvi.

I quattro bambini vennero, dunque, affidati ad uno zio (un tale zio Antuoni) che con loro ricevette in custodia anche la piccola proprietà di famiglia. Da lì a poco quello stesso zio venne accusato di avvelenamento della piccola Rachele, morta nel frattempo in circostanze “strane”, ma quando fu tempo di giudizio, come spesso avviene, la giustizia si diede assente e l’accusato fu assolto e libero di tornare a casa. Dopo questo fatto il più grande dei bambini, Giovanni, non rientrò alla masseria e cominciò a lavorare come pastore presso altri e tutto questo contribuisce a rafforzare l’idea che sentendosi egli stesso in pericolo abbia preferito allontanarsi e mettersi al sicuro, I due bambini più grandi certo sapevano qualcosa sulla tragica fine dei genitori e tutto questo certo gravava sub loro destino. Mio nonno ed il fratello Rocco, troppo piccoli, furono costretti a rimanere ancora a lungo in compagnia di quello scellerato zio e della sua famiglia e ad accusanne quotidianamente le angherie ed i soprusi. Seppure anziano egli mi raccontava di come venivano trattati allora; del loro non diritto a sedersi a tavola con il resto della famiglia e delle attese a cui erano costretti, come i cani, per ricevere gli avanzi o addirittura niente. Lo zio Antuoni in un sadico giuoco ripeteva ogni giorno davanti a suoi figli   loro mangeranno quando il gallo farà l’uovo...” poi rivolgendosi a mio nonno ripeteva “...Domé vai a vedere se il gallo sta covando...” ed egli ubbidiente si avviava al pollaio ed ogni volta tornava alla tavola più affranto e deluso trovando vana la sua ricerca. Ma la fame, come si sa, aguzza l’ingegno e dopo un po’ anche quell’ingenuo bambino capì che il gallo non faceva le uova ma le galline si. Le galline facevano le uova e ne facevano tante; tante da poter essere rubate senza essere scoperti e da poter sfamare lui e suo fratello che in un’altra occasione, reo di aver sottratto un pezzo di pane, fu appeso a testa in giù ad una trave e costretto a rimanere in quella posizione durante tutta la cena che la famiglia consumò comodamente e tranquillamente in un tempo che dovette sembrare a quell’anima innocente infinito. Solo all’età di sei anni mio nonno ricevette le sue prime scarpe ed anche questo avvenimento era legato ad un aspetto pratico e non certo a soddisfare un bisogno primario. Egli infatti fu ben presto destinato ad aiutare il pastore che accudiva gli animali ed in merito a questo vi è un altro episodio che in un certo qual modo ha segnato la sua e la mia vita. Tra le mucche ve ne era una, di nome mariuccia, che era la più buona e che un giorno in prossimità del fiume Camastra mise al mondo un vitellino. Il tutto avvenne alla presenza del pastore che a detta di mio nonno era un uomo molto bravo ed accorto e che dopo aver dato i primi aiuti alla madre ed al vitellino dovette assentarsi per badare al resto degli animali che nel frattempo si erano allontanati. Restato solo mio nonno non perse di vista un attimo mariuccia ed il suo figlioletto e quando questi iniziò ad allattare, nel gesto di aiutarlo pensò egli stesso di imitarlo e con stupore si accorse che il tutto non infastidiva certo la mucca che, anzi, nel beccare e lavare il figlioletto riservava le stesse cure anche a quel figlio acquisito. Al suo ritorno il pastore assistette alla scena, dapprima stupefatto e poi scoppiando in una grossa risata e sulla via del ritorno invitò, quasi per scherzo, mio nonno a salire su mariuccia che, stupendo ancora una volta quel buonuomo, non oppose alcuna resistenza. L’uno con il vitellino caricato in spalle e l’altro a cavalcioni sulla mucca si incamminarono verso casa e per mio nonno fu davvero il primo giorno felice della sua vita poiché sentiva in fondo di aver ritrovato una madre in mariuccia ed un buon padre nel pastore.

In questo clima quotidiano e continuo (gli episodi riportati sono solo alcuni dei tanti che hanno dovuto subire) si consumò l’infanzia di mio nonno e di quel suo fratello più piccolo ma ciò nonostante essi crebbero forti ed in buona salute, tanto da essere, così come abbiamo già detto, destinati fin dalla tenerissima età alba custodia degli animali che per loro divennero gli unici veri amici ed i soli esseri degni di rispetto.

Molti si chiederanno ora quale attinenza vi è tra quanto fin qui narrato e la mia concezione dell’arte e della pittura ed in che cosa soprattutto questo centri con la realizzazione di un ritratto. A questi dubbi io non posso e non so rispondere che questo: mio nonno per sua fortuna ha saputo trasformare quella violenza ricevuta in amore e saggezza. Egli era un uomo mite, un buono, una persona dolce che amava gli animali più di molti uomini e che se pur a livello di percezione contestava quella concezione del mondo creata dalle tante religioni che distorcono l’idea stessa di Dio e che vogliono l’essere umano al centro dell’universo, supremo giudice e carnefice di una natura della quale egli stesso non è che una parte infinitesimale. Per mio nonno gli animali, gli alberi, un filo d’erba aveva un’anima ed in molti casi essa era da considerarsi più illuminata e sacra di quella di tanti cosiddetti uomini. Questo suo modo di concepire il mondo ha contraddistinto la sua esistenza ed egli lo ha trasmesso ai suoi figli ed a me stesso influenzando in modo determinante le mie scelte ed il mio approccio alla vita.

Se c’è un segreto, dunque, nella mia pittura è questo: nei miei ritratti, nelle mie figure, in tutti i miei quadri, specie in quelli giovanili, io ho rappresentato dei volti, delle persone, degli animali; riprendendo le loro fattezze, ricopiando i loro tratti ma sempre cercando di scavare nel loro intimo, sempre con l’intento di tirare fuori la parte più nascosta e celata della propria anima. Il ritratto di mio nonno è il ritratto di un uomo che ha sofferto, che ha patito la fame ed il sopruso ma è anche il ritratto di chi ha saputo trasformare quelle sue esperienze in amore e saggezza facendosi un’idea del mondo e dell’universo che non vede supremazie ed ingiustizie ma equità e rispetto per tutti gli esseri viventi. Più che attraverso la scrittura o la parola il mio modo di comunicare si esplicita attraverso la pittura - è stato per me così da sempre - e nelle riproduzioni riportate in questo libro, nei miei quadri ed in tutti i miei lavori vi è davvero una parte di me, la mia parte migliore, quanto di più grande e prezioso io conservo nel profondo del mio cuore.

 

Laurenzana. 22 Luglio 2002                                                                      Domenico Molinari

       
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