Molì
Domenico Molinari

 

Fin dalla tenerissima età Domenico Molinari ha scoperto la sua vocazione per l’arte.

Aveva infatti poco più di sei anni quando per la prima volta si imbatté in alcune stampe che riproducevano delle acqueforti del Dùrer e già da allora sentì chiaro quale sarebbe stato il suo futuro e cosa la vita gli avrebbe riservato.

Più volte si soffermò su quel foglio rinvenuto per caso, più volte tornò su quella figura (la morte a cavallo) che lo impressionava ed affascinava nel contempo ed in quel gesto ossessivo e ripetitivo in fondo già sentiva la pittura come mezzo a bui più congeniale per comunicare e trasmettere quanto di più importante avesse nell’animo. L’essere chiamati ad una vocazione, lo scoprirsi “diversi” non è davvero, così come percepito nell’immaginario collettivo, un privilegio, anzi nella gran parte dei casi questa condizione determina un malessere, un andare controcorrente che pone l’artista in continua contrapposizione con il resto dell’umanità e delle persone che lo circondano.

Ed a questa regola egli non è certo sfuggito se solo pensiamo al suo prematuro ritiro dalla scuola, avvenuto prima ancora di aver conseguito la licenza media, ed ai suoi racconti giovanili che ci rimandano l’immagine di un incompreso, di un ragazzo isolato ed emarginato soggetto alla stupida crudeltà dei coetanei ed al giudizio ottuso di una piccola comunità che non accetta compromessi con chi ha l'ardire di guardare appena più in là di un orizzonte precostituito.

Malgrado ciò Domenico Molinari ha continuato per la sua strada ed è proprio a quel periodo giovanile che dobbiamo parte debba sua produzione artistica più significativa.

Privo di mezzi sofisticati ma adattando materiali e colori reperiti nella modesta falegnamenia del padre egli ha iniziato a dipingere la natura, gli animali, gli uomini e le donne che sentiva appartenere ad un mondo che come il suo rimaneva incompreso ai più, giudicato “minore”, misero e superato dal quel progresso che oggi ben sappiamo nascondere mille insidie sotto la facciata.

A questo periodo dobbiamo il ritratto debba madre, del padre, dei nonni, i quadri che riprendono i luoghi conosciuti e le facce dei contadini simili a maschere antiche colte nell’attimo in cui mostrano la loro immagine più vera, in quella infinitesimale frazione di tempo nella quale ognuno si sente un tutt’uno con la natura, con l’universo, con quel Dio di cui tutti parlano senza conoscerlo abbastanza e che in questi quadri pare sprigionare il suo alito, la scintilla che dalla parte più profonda e recondita del cuore prende corpo e sprigiona la vita.

Nelle sue rappresentazioni Domenico Molinari ha ridisegnato la civiltà contadina ripulendola di quella crosta stantìa e non sempre veritiera creata da certa letteratura e ridandogli una luce nuova facilmente riscontrabile nei tratti, nelle pose, negli occhi e negli stessi volti di quei suoi contadini.

Queste figure paiono trasmetterci una dignità ed una consapevolezza che prende corpo solo dalla forza dell’umiltà e dal quel percepire il continuo divenire come indispensabile e mai scindibile fattore su cui baia l’essenza stessa del mondo.

Il XX secolo ha segnato profondi cambiamenti nell’arte e nel modo di interpretarla e concepirla, eppure non possiamo non sottolineare l’inutilità di certe ricerche e di certi tentativi che finalizzati ad individuare nuovi linguaggi, inevitabilmente, hanno completamente fallito nel dire qualcosa.

La pittura, la scultura, la musica, l’arte in genere non è che un mezzo per comunicare, un metodo per trasmettere ciò che si ha dentro ma in molti casi il linguaggio utilizzato non ha saputo adempiere al suo compito surclassando l’idea di ciò che si andava a rappresentare per divenire semplice forma che, ben al di là dell’astratto, è risultata incomprensibile e vuota.

Molinari non ha mai ceduto a simili tentazioni, anzi rimanendo aggrappato ad un linguaggio “antico” (i suoi riferimenti sono riscontrabili nel Caravaggio ed in molta arte del Seicento italiano e Spagnolo) egli ha scavato, senza mai cadere in un’inutile manierismo, nella natura degli uomini, nei misteri della vita e dell’universo e nei suoi meccanismi mai completamente compresi ma soprattutto mai completamente condivisi.

Un grande fotografo prova centinaia di scatti prima di giungere a quello giusto, prima di tirare fuori quell’unica foto che li racchiuda tutti; nelle opere di Molinari, invece, questa operazione pare riuscire al primo colpo.

 

I suoi occhi e le sue mani sembrano muoversi con naturalezza quasi irreale per scavare nella materia fino a scoprirne la primordiale vitalità, la purezza dei sentimenti che la animano e che si muovono sotto pelle seppure in apparente staticità.

Si guardi al ritratto della madre e si vedrà l’austerità del carattere.

Si guardi alla “Falegnameria” ed al ritratto del padre e si vedrà la bontà d’animo ed il desiderio di trasmettere all’apprendista i segreti del suo “nobile” mestiere.

Si guardino i ritratti dei nonni e si vedrà una saggezza ed una pacatezza che ha un sapone antico.

Nei volti delle contadine e nelle scene rupestri pare respirarsi l’odore del fieno e dell’erba appena bagnata e nei tratti di quelle donne, nei bambini che mostrano e sorreggono tra le braccia con orgoglio, nei loro gesti che rispecchiano la quotidianità non è difficile riscontrare la stessa beatitudine di certe madonne rinascimentali. Questo ed altro ancora si sprigiona dalle opere giovanili di Domenico Molinari ed il tutto pare bene concentrarsi e sintetizzarsi nel quadro prodotto in copertina.

In esso, ad altezza quasi naturale, vengono riprese tre donne, una madre e le due sue figlie, in una posa quasi statuaria che poco o niente lascia al movimento.

Formano un gruppo, eppure, prese singolarmente ben potrebbero rappresentare un’opera a sé.

L’una è abbracciata all’altra ma senza calore, senza coinvolgimento, quasi a sottolineare che pur tra i tanti in fondo ognuno è solo con se stesso.

L’opera ruota e fa perno sulla figura centrale: una ragazza, la più giovane delle tre, il cui sguardo sembra posarsi lontano con le linee del corpo che acerbe paiono appena accennansi sotto l’abito a sacco di un verde antico e tenuissimo.

I Volti sono duri e spigolosi come le pietre e immobili come da un’eternità, ma in quella staticità ben si legge il fluire delle cose che scorre sotto ogni superficie.

Quei volti contengono le gioie e i dolori del mondo, raggruppati in un tutt’uno e riposti, come in un fazzoletto bianco, nell’angolo più buio e nascosto del cuore e quelle labbra serrate paiono urlarci: anche noi sappiamo, anche noi abbiamo compreso delle stagioni che muoiono in fretta e del breve battito nel quale si consuma un respiro.

E come loro anche l’autore ben conosce quel battito, quell’attimo che fugge, quel perpetuo divenire che da corpo alba vita.

Da questa consapevolezza egli ha intrapreso la strada, da questo sentire sono venuti i suoi quadri ma, fatto ancor più importante, da qui sono scaturite le sue scelte, da qui nascono la sua irrequietezza e quel suo modo di vivere libero che lo rendono ancor oggi un essere speciale, un uomo non comune, e che in un lungo peregrinare lo hanno portato ad un continuo girovagare per il mondo.

 

E’ dunque a questo periodo che dobbiamo una sostanziosa produzione artistica ma anche la formazione di quel carattere, forte e anarchico, che contraddistingue la personalità di Domenico Molinari.

Al termine di questa fase, stretto dall’ambiente e mosso da quel fuoco a cui abbiamo accennato, egli ha iniziato a muoversi in una ricerca che lo portasse sostanzialmente verso se stesso e che gli rendesse compiuto il suo destino.

Infatti, dopo alcuni tentativi consumati a Napoli e Roma, poco più che diciottenne lo troviamo già a Firenze ed èqui che si apre un nuova fase della sua vita.

Partito da Laurenzana con pochi spiccioli nelle tasche, appena i soldi per il biglietto ferroviario, approda in una delle città più belle del mondo ed inizia a conoscere il fascino e la durezza debba vita di strada.

Vende i suoi quadri ai passanti e ai turisti, vive di espedienti, occupa una casa diroccata di proprietà del comune e solo alla fine di un lungo periodo riesce ad aprire una piccola bottega d’arte che ben presto andrà distrutta in seguito ad un incendio provocato da una stufa dimenticata accesa.

Sarà di nuovo la strada ed il precipitare in una situazione difficile.

Colto da broncopolmonite dovrà essere il padre ad andare a riprenderlo per riportarlo a casa.

Ma ben presto, nonostante le insistenze delle persone care, lo ritroviamo di nuovo in movimento; ancora a Roma e poi a Parigi con in tasca un unico biglietto su cui era appuntato l’indirizzo lasciatogli da un’amica che, tra l’altro, smarrisce nel corso del viaggio e mai più ritroverà.

Ancora una volta sarà la strada ad accoglierlo, ancora una volta saranno i passanti ed i turisti ad acquistare i suoi lavori ed a permettergli di vivere.

 

Ed è sulla strada che conoscerà un ricco signore che gli commissionerà una serie di disegni, realizzati per economia sui cartoni ricavati dalle scatole delle scarpe, e che presumibilmente verranno destinati ad una catena di Grandi Magazzini.

Con quell’ordine arriverà anche un invito a trasferirsi in America che egli, rispondendo al richiamo della sua natura nomade, accetterà di buon grado e che in breve lo porterà sulla nave diretta a New York.

Questa volta l’indirizzo non andò disperso ma le condizioni che lo aspettavano non erano certo le migliori. Una stanza di tre metri per tre nella quale doveva vivere e realizzare i suoi lavori mediante l’utilizzo di una vernice acrilica a spruzzo che in quella situazione non poco minava la sua salute.

Per non più di dieci giorni resistette in quella nuova condizione da catena di montaggio per poi darsi, ancora una

volta, alba “macchia”, per ancona una volta tornare alla vita ed alla strada che sentiva essere la sua casa. In breve tramutò, così come aveva fatto con il francese, il suo dialetto in inglese e fu di nuovo tra i bassifondi, tra i dimenticati, tra gli sconfitti, i piccoli delinquenti e le donne da marciapiede.

E come per i contadini debba sua infanzia anche quello spaccato di società divenne il soggetto ossessivo dei suoi quadri e di quel suo particolarissimo linguaggio fatto non di parole ma di colori, di segni e di materia trasformata in forma.

Ma mangiare e fare arte non ha mai rappresentato un connubio facilmente realizzabile e quando tutto ciò diventa insostenibile bisogna aguzzarsi e spremersi per attivarsi in una soluzione che diventi giusto compromesso tra le due cose.

E questo compromesso Domenico Molinari lo ha cercato e trovato in un’idea che, semplice e scontata, è risultata, come sempre avviene, innovativa e geniale.

Egli ha pensato a dei quadri che fossero delle sculture, dei bassorilievi facilmente riproducibili. L’innovazione ed il gesto artistico stava nella tecnica e nella creazione del calco e la praticità nella possibilità delle infinite riproduzioni che questo permetteva.

 

Dunque, con questa nuova idea che gli frullava per la testa, dopo circa due anni dal suo arrivo lasciò New York e fu di nuovo alba volta di Parigi e della collina di Montmartre, dove quella nuova tecnica, individuata sotto il nome di “sculpturalisme”, venne messa in pratica e non tardò a dare i suoi frutti.

Un capitolo a parte potrebbe essere dedicato a questa sua produzione artistica ma qui preferiamo soffermarci e sottolinearne un unico aspetto che a noi pare il più esplicativo ed importante.

Con questa idea Domenico Molinari non ha fatto altro che rimarcare le orme di tanta arte del Novecento che per sopravvivere a se stessa e ad un mercato “impazzito” e di élite ha dovuto reinventarsi un ruolo ben presto sfociato nelle litografie, nelle stampe e nelle riproduzioni di serie.

Alle macchine egli ha sostituito la sua manualità ed anche nella ripetitività i suoi lavori non hanno mai perso quel valore intrinseco determinato dal gesto creativo che sta loro alla base.

Si guardi alba “Notte della Crocifissione”, al “Messaggio Eterno”, alle sue “Vele Solitarie” albe sue “Regate” ed ai suoi “Cavalli” e pur nelle centinaia di riproduzioni si vedrà la grandezza di quel tratto iniziale, la potenza di quel linguaggio che solo l’arte sa trasmettere, la bellezza del segno e dei colori che delicatamente spruzzati sembrano cadere dall’alto e posarsi con dolcezza sulla materia appena plasmata.

Sotto l’aspetto pratico l'inventarsi questa nuova tecnica fu per Molinari come l’aver scoperto l’uovo di Colombo.

Quei suoi lavori colpivano l’osservatore e si vendevano con tale facilità che ben presto quel travagliato periodo fatto di costrizioni e ristrettezze svanì per lasciare il posto a ben altre possibilità economiche.

 

Ma anche quella stabilità sembrò non intaccare il suo carattere e la sua natura assolutamente libera ed al di fuori di ogni schema.

Sempre di più, a quello che era un aspetto puramente commerciale egli ha contrapposto la realizzazione di opere (uniche e dipinte ad olio come quelle giovanili) che nascono da un bisogno interiore e che mai cedute affollano la sua casa, come brandelli di anima tirati fuori da un nero cilindro e riposti con cura in un angolo buio non a tutti accessibile.

 

Armand Felsen, Presidente dell’Associazione “Talenti di Francia e del Mondo”, in una sua nota così descrive il nostro artista:

"...egli è tutto intero nel suo autoritratto che esprime la sua natura inquieta, la volontà feroce ed indomabile; il suo sguardo chiaro, intenso e dubitativo, scruta ed interroga l’universo che per lui sembra non avere più misteri....".

 

Ed anche per noi questo è il Molinari più vero: mescolato al paesaggio di Montmartre o tra le montagne della natia Laurenzana egli non cambia.

Trasandato, per niente avvezzo alle regole ed ai protocolli comportamentali non è difficile immaginarlo nel disordine del suo atelier Parigino, tra i colori ed i bidoni d’olio e d’essenza, con l’immancabile sigaro stretto tra i denti e quel suo sguardo lucido e tagliente.

Egli è un solitario, uno straordinario “animale” solitario che muove i suoi passi su un sentire anarchico, teso non già a capovolgere i sistemi politici ed organizzativi ma a ridare vigore a quell’immagine della natura perfetta e consequenziale che non di rado, mal interpretata dall’uomo, viene trasformata in gratuita crudeltà ed ingiustizia.

 

Questo e solo questo è il Molinari che noi conosciamo ed amiamo e che in ogni suo quadro ci rimanda ad un mondo migliore, ad un diverso orizzonte.

 

 

Laurenzana, 30 Giugno 2002

 

                                                    Roberto Zito

       
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