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IL BRIGANTAGGIO

 

Su quest’argomento si è molto parlato e scritto in ogni tempo e, credo, quasi sempre con esagerazione, quasi per affascinare la fantasia popolare, mediante il racconto di fatti eroici o spaventosi e straordinari insieme. Fatti, molto spesso, appresi per sentito dire, raccontati e tramandati da generazioni a generazioni, e man mano ingigantiti dalla fantasia dei cantori popolari. Perciò è bene parlarne il più serenamente ed obbiettivamente possibile, attingendo soprattutto dalle testimonianze del MONNIER (1), che fu spettatore disinteressato del tempo, in modo che anche il brigantaggio della Basilicata venga conosciuto nelle sue giuste dimensioni storiche, e si sappia, una volta per tutte, che quei briganti non furono molto peggiori di quelli che oggi scorrazzano in pieno giorno per le vie delle grandi città, rapinando ed uccidendo a scopo di lucro, e per sfogare la loro furia omicida.

Effettivamente il brigantaggio della Basilicata ha fatto molto parlare di sé verso la fine del 1500, del 1800 e dal 1860 al 1864, ma, prima di parlare di esso, è bene illustrare le cause che lo hanno originato.

Il  brigantaggio, in ogni tempo e luogo, è sempre stato prima di tutto un fatto politico e punitivo, rinfocolato dal partito vinto per servirsene a tener viva la difesa della propria causa. Così è stato quello di questa regione, che nacque e crebbe presto a dismisura, in tempi tristi, accogliendo la feccia delle popolazioni, gli avanzi delle galere, molti vagabondi e malfattori di ogni genere. Inoltre, il brigantaggio prendeva facilmente forma e consistenza per la spontanea reazione di coloro che, per caso, sfuggivano alle severe punizioni dei governi, dei signori e della Chiesa di allora, i quali, per tenere in ginocchio questa povera gente, furono capaci di "giustiziare" (si direbbe meglio assassinare), migliaia di persone al solo scopo di intimorire il resto del popolo, costituito da gente semplice ed ignorante. Con questo Sistema terroristico si riuscì a far vivere questi cittadini sotto l’incubo di un perenne sentimento comune: la paura! Si può dire che la gente professò la religione, non tanto per amore di Dio, quanto per paura del diavolo; che osservò le leggi non per dovere di cittadini esemplari, ma per paura del Re o dei suoi rappresentanti. Ad un certo punto questa eterna paura veniva abilmente sfruttata dai violenti, che imponevano la legge del più forte, quindi nasceva il brigantaggio, che il Governo, impotente a combatterlo, cercava di strumentalizzare per potersene servire come mezzo di repressione al momento giusto.

Altro fattore che favorì il brigantaggio della Basilicata fu la configurazione orografica di queste terre montagnose e coperte da fitti boschi. Il Governo di Napoli si curava solo di riscuotere le tasse per mezzo di suoi funzionari poco scrupolosi, e le strade non erano che sentieri accidentati, su cui spesso neanche i muli si arrischiavano di camminare. Nelle zone, in questo stato di abbandono ed isolamento selvaggio, i briganti non avevano nulla da temere, e non poche volte le popolazioni locali si assoggettavano ad alcuni di essi per avere protezione contro altre bande di malfattori o contro gli stessi funzionari del governo.

Il brigante Ninco-Nanco (Giuseppe Nicola Summa) dopo l'uccisione avvenuta a Frusci di Avigliano il 13 marzo 1864.

Possiamo così incominciare col ricordare che, a causa dell’estrema miseria e la civiltà ancora semibarbara del luogo e con l’insediarsi del nuovo Governo Spagnolo, rapace e vergognosamente sottomesso alla Curia Romana, verso il 1500 sorse in questa regione la prima manifestazione di brigantaggio, i cui capi furono un certo Malatesta e poi un certo "Scarola", che ebbe il suo rifugio principale sul monte Marmo presso Vietri. Le file delle bande si ingrossarono man mano ad opera di molti cittadini, vittime innocenti di abusi inauditi. Il Governo spagnolo non si preoccupò quasi mai di eliminarli e quei briganti indisturbati seminarono terrore e morte in tutta la regione per più di un secolo e mezzo. Infatti fu solo nella seconda metà del 17° secolo che il Governo si decise a combattere ed a controllare il brigantaggio di questa regione. Da una statistica ricavata dai risultati conseguiti nella lotta contro i briganti del Regno di Napoli durante gli anni 1675-1679 si ebbero i seguenti dati: capi briganti "accordati" n. 103; briganti  "accordati" n. 1438; teste di capi uccisi n. 57; capi briganti giustiziati n. 17; teste di briganti uccisi n. 311; briganti giustiziati n. 131; briganti condannati alla galera n. 913; briganti condannati alla guerra n. 167; totale n. 3137 (2).

Si riprese a parlare di briganti nel 1782, quando Angelo De Luca, detto "Angiolillo" da San Gregorio Magno presso Buccino, per vendicarsi di un sopruso si diede al brigantaggio, divenendo in poco tempo il terrore dell’altavalle dell’Ofanto. Angiolillo, che prima era stato un onesto cittadino ed un fervente cattolico, distribuendo ciò che aveva rapinato, fece del bene ai poveri. Il sabato santo del 1784 fu sorpreso a tradimento nel monastero dei Cappuccini di Muro, fu arrestato, ed il giorno dopo fu impiccato a Salerno. L’avventura di Angiolillo si può dire il preludio di un nuovo lungo periodo di brigantaggio, che va dal 1799 al 1822. Infatti, quando nel 1799 giunse in queste terre l’eco della Rivoluzione Francese, le popolazioni oppresse credettero che fosse giunto il momento della riscossa e così, quasi in ogni centro, innalzarono l’albero della Libertà, durante violente manifestazioni. Per qualcuno questa fu l’occasione e il pretesto per vendicarsi dei torti ricevuti durante le lotte municipali. Ma i Francesi non arrivarono così presto come si sperava; ed i partigiani borbonici ripresero coraggio ed iniziarono una campagna contro i rivoluzionari, abbattendo ad uno ad uno gli alberi della Libertà, e non senza spargimento di sangue degli illusi patrioti.

A capo della controrivoluzione si pose il Cardinale Ruffo, il quale, sbarcato il 3 febbraio 1799 in Calabria, raccolse gli sbandati del regio esercito, i gendarmi delle sciolte regie Udienze, quelli dei vari baroni locali, gli ergastolani liberati dal carcere per ordine del Re, ed altra gente della stessa risma, formando un’ibrida armata, che si disse "Cristiana e Reale", per la storia "Armata della Santa Fede". Con quella accozzaglia di gente il Ruffo assalì e saccheggiò Catanzaro, Cosenza, Crotone, Rocca Imperiale, Bernalda, Montescaglioso e soprattutto Altamura. Da qui si portò a Matera, Gravina, Spinazzola, Venosa e Melfi. Stava per dirigersi a Potenza, ma, appreso che la zona era già battuta dai soldati di don Gerardo Curcio da Polla, detto "Sciarpa" e di un certo Rocco Studati, appoggiati dal Vescovo di Capaccio e da quello di Policastro, si portò sul versante Adriatico ed infine giunse a Napoli, dove iniziò una dura repressione. Altre bande di briganti, che batterono la regione, per la stessa causa e fino al 1822, furono quella di TACCONE da Laurenzana, che il 23 luglio 1799 massacrò l’intera famiglia del barone Federici nel castello di Abriola; quella di Vuozzo da Sant’Andrea di Conza e quella di OUAGLIARIELLO da Muro, il quale il 9 ottobre 1810 uccise il Generale francese De Gambs sul monte Marmo. Questi briganti, che a modo loro, appoggiarono allora la reazione del Re Borbonico, furono repressi dallo stesso re nel 1822, cioè quando la loro funzione repressiva non gli serviva più.

Dopo meno di 40 anni il brigantaggio si risvegliò di nuovo in tutta l’Italia meridionale, e nella Basilicata in particolare. Esso fu costituito dai soliti sbandati dell’esercito borbonico sconfitto da Garibaldi, da galeotti liberati dal carcere ed anche da contadini incoraggiati dal Clero contrario al nuovo governo italiano. Altro gran numero di briganti venne fornito da quei circa cinquemila soldati borbonici, fatti prigionieri a Napoli, che Re Vittorio Emanuele II fece male a considerare  "napoletani" (cioè suonatori di mandolino) ed a congedare, perché incapaci di combattere nel suo esercito.

Questi soldati, naturalmente, non furono neanche bene accolti dalla popolazione delle province e, quando ebbero speso l’indennità ricevuta all’atto del congedo, non avendo altro da fare per vivere, si fecero briganti.

Nel frattempo, l’ex Re borbonico Francesco II da Gaeta, ove si era rifugiato, si era portato a Roma, dove insieme a Papa Pio IX prese ad organizzare ed a dirigere le operazioni dei loro "partigiani" (briganti). Questi ultimi per mezzo dello strano giuramento (3) ed il soldo che ricevevano, legittimavano l’assassinio e la rapina.

Inoltre, vennero muniti di rosari ed amuleti, nonché di un distintivo con incisi una corona, una mano che impugnava uno stele, ed il motto: "Fac et spera". Gli ordini erano precisi: assalire e distruggere dovunque capitava le proprietà dei liberali, le guarnigioni dell’esercito nazionale e, al grido di "Viva Francesco II", porre i Gigli dove vi era la Croce dei Savoia.

In Basilicata, oltre alle piccole bande dei briganti Caschetta, Vendepane, Angerame, Franco, Cavalcante, Castronuovo, Masino, Canosa e D’ambrosio, si ebbe quella più famosa di Carmine Donatelli da Rionero, detto CROCCO, che con Giuseppe Caruso da Lagopesole, e Giuseppe Nicola Summa da Avigliano, detto NINCO NANCO, formarono la così detta NERA TRIADE. Assieme ad essi vi furono anche Vincenzo Nardi da Ferrandina, detto D’AMATI, e Michele La Rotonda da Ripacandida.

A costoro furono conferiti gradi militari nel modo seguente:

— Carmine Donatelli (CROCCO) nominato Generale per i  seguenti "meriti": era un forzato evaso, già colpevole di 15 furti qualificati consumati e tre tentati, 4 carceri private, 3 omicidi volontari, 2 mancati, resistenza alla forza pubblica ed altro;

— Giuseppe Caruso: non riportato dal Monnìer;

— Vincenzo Nardi (D’AMATI): 15 furti qualificati consumati, 4 assassinii ed altri misfatti. Gli fu conferito il grado di Colonnello;

— Michele La Rotonda: 4 furti, due omicidi premeditati e mancati, due carceri private ed altro. Fu nominato Luogotenente-Colonnello;

— Giuseppe Nicola Summa (NINCO NANCO): tre furti qualificati e due omicidi mancati. Dovette accontentarsi del grado di Maggiore.

 

Questi briganti, spesso, d’accordo col sindaco, o con il barone dei centri locali, sobillavano la ribellione popolare coinvolgendovi qualcuno degli ingenui liberali, poi intervenivano essi stessi per domarla e finivano con l’uccidere, incendiare e rubare; e così quasi nessun centro della Basilicata rimase fuori da questo crudele e sanguinano comportamento dei briganti.

A costoro si aggiunsero poi i briganti stranieri, inviati dai Comitati Borbonici di Marsiglia e di Trieste. Accenniamo qui a quel generale catalano don José Borjés che, avendo acquistata fama di gran condottiero militare durante le guerre civili del suo paese, venne inviato in questa nostra regione dal Comitato di Marsiglia, per combattere pure lui per la "giusta causa".

Il Generale Borjés partì da Malta, con pochi uomini, l’11 settembre 1861 ed il 13 successivo sbarcò su una spiaggia deserta della Calabria. Si mise in marcia verso l’interno e presto notò una certa indifferenza da parte della popolazione, anzi si vide spiato e denunziato alle truppe nazionali, ragione per cui fu costretto ad unirsi alla banda del brigante MITTICA, che incontrò in località Scardarìlla, e restò con questo in grado di sottoposto. Dopo alcuni saccheggi, compiuti insieme, ebbero uno scontro con i soldati dell’esercito italiano, durante il quale il Borjés si allontanò per conto suo, quindi pensò di proseguire per giungere in Basilicata, ove era certo di poter trovare un grosso esercito di "partigiani", pronti ad obbedire ai suoi ordini. La marcia di Borjés e dei suoi pochi uomini fu lunga ed estenuante e, sempre braccati dalle truppe nazionali e dalle spie del popolo, percorsero il seguente itinerario: da Serrastretta alle montagne di Nocella, di Laurostretto, di Mino, di Garropoli, di Espinarvo e di Garillone. Poi attraverso i monti di Gallopane, Castagne e Macchia, giunsero al bosco di Ceprano. Da questo ai boschi di Pietra Favalla, di Fiomello e di Petina, quindi nei pressi di Cosenza. Da qui, l'8 ottobre, i briganti si portarono verso i fiumi Morone e Crati e giunsero a tre miglia da Rossano. Proseguirono per le montagne di Serra Estanea e di Alberato dei Pini, giungendo nei pressi di Torre Nova. Andarono avanti ancora, passando per le vicinanze di San Costantino, Casale Nuovo, Noja, San Giorgio e giunsero al bosco di Colobraro e poi a quello di Salandra. Dopo aver valicato il piano della Corte, lasciando sulla sinistra Tricarico, giunsero nel bosco di Barile. Da questo si portarono a quello di Montemarconi, lasciando pure sulla loro sinistra Barile, Genzano e Forenza ed infine, il 18 ottobre 1861, giunsero nel bosco di Lagopesole, ove il 22 successivo si incontrarono con il Generale Crocco e la sua banda.

Dal disordine che il Generale Borjés rilevò fra quegli uomini, comprese che non erano "partigiani", bensì volgari briganti. Crocco gli fece subito comprendere che il comandante di quella banda era solo lui e che tale sarebbe rimasto. Il giorno dopo giunse anche un certo Generale De Loanglois, pure lui brigante, e sottomesso al Crocco.

Il 25 ottobre si ebbe uno scontro con le truppe nazionali; Crocco ed i suoi scapparono, e Borjés pagò il conto con gravi perdite. Il 10 novembre il Crocco, col pretesto di doversi incontrare con un tale Generale La Chiesa, diede ordine di spostarsi nel bosco di Potenza, in località Serra del Ponte, ma non avvenne alcun incontro.

Da qui il giorno 3 si recarono a Trivigno, ove entrarono dopo due ore di sparatoria (4). Vi rimasero anche la notte, durante la quale gli uomini di Crocco si diedero al saccheggio. La mattina dopo il Borjés ebbe l’ordine di recarsi a Castelmezzano, mentre Crocco rimaneva a Tnivigno per riscuotere dal Sindaco 280 ducati. Il Borjés giunse a Castelmezzano e, dopo poche ore, ripartì per il bosco di Cognato.

Nel frattempo ricevette ordine dal Crocco di portarsi, invece a Calciano. Qui altri briganti avevano già fatto un massacro degli abitanti; quindi proseguirono per Garaguso e poi per Salandra, nel cui territorio, il 7 novembre, morì di ferite il brigante Paolo SERRAVALLE, colpito il giorno prima dai soldati italiani. Proseguirono poi per Craco e dopo, ad Aliano, dove, in contrada Acinella, si scontrarono nuovamente con le truppe regolari e riportarono una piccola effimera vittoria. Passarono ad Astagnano (Stigliano?) e qui le file si ingrossarono con la presenza di altri trecento briganti.

Con questi ultimi arrivi la banda raggiunse il numero di circa settecento uomini. Stavano dirigendosi a Cirigliano, ma avuto sentore della presenza di ingenti forze militari regolari, ripiegarono nel bosco di Pietrapertosa.

Attaccarono poi Grassano ma, respinti dai "piemontesi" (5). si ritirarono verso Chirico Nuovo. Il 16 novembre assalirono Vaglio (6), da dove si portarono a Pietragalla, ma quindi ripiegarono nel bosco di Lagopesole, pure in quest’ultimo centro trovarono una forte resistenza, quindi ripiegarono nel bosco di Lagopesole, ove il 20 novembre Crocco, il Generale De Loanglois, Ninco Nanco ed altri destituirono di ogni grado il Borjés, ed in modo assai sgarbato. Il giorno dopo attaccarono Avigliano, poi fu la volta di Bella, Balvano, Ricigliano e Pescopagano, ove Crocco ed i suoi, incuranti degli avvertimenti di Borjés, rubarono a man salva ed infine si ritirarono tutti nel bosco di Monticchio.

A questo punto Borjés si decise di fuggire con i suoi 24 uomini e, dopo avere annotato sul suo giornale: "Scena

disgustosa. Crocco riunisce i suoi antichi capi di ladri e dà loro i suoi antichi accoliti. Gli altri soldati sono disarmati

violentemente; prendono loro in specie i fucili rigati e quelli a percussione. Alcuni soldati fuggono, altri piangono. Chiedono di servire per un pò di pane, non più soldo, dicono essi: ma questi assassini sono inesorabili. Si danno in braccio a capitani della loro tempra, e si congedano dopo un digiuno di due giorni. Tutto ciò era concertato, ma lo si nascondeva con molta astuzia. Alcuni soldati venivano da me piangendo, mi prendevano le mani e me li baciavano dicendo: tornate con una piccola forza e ci troverete sempre pronti a servirvi. Per conto mio pregai Crocco di salvar questa gente, e piangendo con i soldati, per quanto era mio potere, cercai di consolarli", si mise in marcia senza una meta precisa.

Sul giornale di Borjés seguirono altri appunti disordinati, dai quali non è stato mai possibile ricostruire l’itinerario preciso che egli segui per giungere fino alle campagne di Tagliacozzo, a cinque ore di cammino dal confine degli Stati Romani. Qui, verso le ore 10 dell’8 dicembre 1861, venne attaccato da un reparto di bersaglieri al comando del Maggiore FRANCHINI. Il Borjés oppose coraggiosa resistenza, ma, quando vide morire cinque dei suoi uomini, si arrese dignitosamente, consegnando la sua spada al Maggiore. Mentre li conducevano in paese, Borjés disse solo che, se fosse riuscito a mettersi in salvo, sarebbe tornato nel Sud con un esercito regolare.

Giunti in paese i briganti vollero confessarsi e poi furono condotti sul luogo dell’esecuzione. Qui Borjés abbracciò ad uno ad uno i suoi ex-soldati e dopo aver pregato i bersaglieri di mirar dritto, si inginocchiò fra i suoi uomini ed intonò una litania in spagnolo, alla quale gli altri rispondevano a coro; quel cantico, ad un certo punto, fu interrotto dalle fucilate: erano le ore 16 di quell’8 dicembre 1861.

In seguito anche la banda del Crocco fu dispersa, anche gli altri piccoli gruppi di briganti furono a poco a poco individuati e distrutti. Crocco medesimo ricomparve per un certo tempo sulle alture di San Martino, in provincia di Avellino, poi al di sopra del Volturno ed infine, nel luglio 1864, fu visto sulle alture del Vulture, ma non era più il brigante di una volta, giacché Ninco Nanco era stato ucciso e Caruso aveva deposto le armi. Quest’ultima presenza di Crocco segnò la fine del brigantaggio in Basilicata, anche se la leggenda popolare lo ha fatto sopravvivere per molti anni ancora.
 



(1) MONN1ER M.: N
otizie storiche documentate sul Brigantaggio nelle provincie napoletane dai tempi di Fra Diavolo sino ai giorni nostri (1862), Napoli, Arturo Berisio Editore, 1965.

(2) FORTUNATO G.: Op. cit., vol. I, pag. 180 e seg.

(3) MONNÌER M.: Op. cit., pag. 83: Il giuramento aveva la seguente formula."Noi giuriamo dinanzi a Dio e dinanzi al mondo intero di essere fedeli Si nostro augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco Il (che Dio guardi sempre), e promettiamo di concorrere con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze al suo ritorno nel regno; di obbedire ciecamente a tutti i suoi ordini, a tutti i suoi comandi, che verranno sia direttamente, sia per i suoi delegati del comitato centrale residente a Roma. Noi giuriamo di conservare il segreto, affinché la giusta causa voluta da Dio, che è il regolatore dei sovrani, trionfi col ritorno di Francesco II, re per grazia di Dio, difensore della religione e figlio affezionatissimo del nostro Santo Padre Pio IX che lo custodisce nelle sue braccia per non lasciarlo cadere nelle mani degli increduli, dei perversi e dei pretesi liberali, i quali hanno per principio la distruzione della religione, dopo avere scacciato il nostro amatissimo sovrano dal trono dei suoi antenati. Noi promettiamo anche con l’aiuto di Dio di rivendicare tutti i diritti della Santa Sede ed abbattere il lucifero infernale, Vittorio Emanuele e i suoi complici. Noi promettiamo e lo giuriamo".

(4) BRIENZA R.: I Martiri della Lucania, Potenza, I. Santaniello, 1881, pag. 44 e seg.: Quando la banda di Crocco entrò a Trivigno furono uccisi Giovanni Guarini e sua madre, che avevano difeso il paese con le armi, Inoltre, i coniugi Perrone Michele e De Stefano Teresa furono spenti fra sevizie. Sassano Domenico fu bruciato vivo e Volino Pasquale posto a lenta morte.

(5) n.d.t  L’esercito regolare mandato a combattere il brigantaggio era costituito in gran parte da unità dell’ex-esercito piemontese e per questo le popolazioni meridionali chiamavano genericamente questi soldati "i piemontesi",

(6) BRJENZA R.: Op cit., pag. 46: Allorché la banda di Crocco assaltò Vaglio di Lucania, il 16 novembre 1861, furono uccisi i fratelli De Mattia Francesco e Rocco, nonché Tamburrino Domenico, Iannelli Giuseppe, Saponara Faustino, D’Anzi Rocco e Filomena.
 

 

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