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IL CUORE NUOVO DI DARIO CORSINI

- Romanzo -

Rachele Zaza Padula
 

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PARTE I

Dalla finestra della clinica Dario era solito guardare in lontananza il Duomo che nelle giornate di sole sembrava uno spettacolare castello abitato da un mago. Una costruzione così imponente e straordinaria faceva davvero pensare ad un artefice che avesse poteri sovrumani.
Quel mattino la vista del Duomo gli era negata; una nebbia fitta avvolgeva le case e le strade. Tutto aveva perduto colori, toni, sfumature e appariva uniformemente grigio, spento. Senz’anima.
Era nella clinica da tre mesi e niente di nuovo si annunziava nei giorni futuri; anzi, per quanto i medici lo smentissero, dicendogli che la situazione poteva cambiare a suo favore da un momento all’altro, in lui s’era insinuato prepotentemente il pensiero che non potesse nutrire alcuna speranza e che era destinato a finire nell’attesa di un trapianto.
Questa soluzione, poi, lo sconvolgeva e lo addolorava più della sua precarietà, perché la sua salvezza dipendeva dalla morte di un’altra persona. A volte si soffermava ad indagare tra le sue emozioni per scoprire se il suo dispiacere fosse vero o ipocrita: cioè se egli nel suo intimo preferisse che quell’altro o quell’altra morisse per dare a lui la possibilità di continuare a vivere.
In altri momenti di forte depressione, quando la sua esistenza gli appariva più che mai incerta, si diceva che era giusto, invece, quasi doveroso che a morire fosse lui, ponendo fine così ad un’attesa che era diventata disumana e insostenibile.
Aveva sempre sofferto; aveva molto sofferto, e forse la morte era ormai l’unica conclusione auspicabile. Una sorta di estrema liberazione.
Rimpiangeva e ricordava con nostalgia gli anni di quando bambino era adorato dai genitori, Alberto e Matilde, orgogliosi di lui che era nato dopo una sorellina. Specialmente Alberto aveva desiderato un figlio maschio: per prima cosa avrebbe portato il nome del padre Dario, cui era legatissimo, perché - diceva- aveva saputo inculcare in lui le virtù che distinguono un vero uomo; avrebbe, inoltre, continuato il cognome di famiglia; infine, avrebbe potuto condividere con lui le sue passioni: il calcio, la pesca, le canzoni dei Beatles e la terra.
Alberto si era laureato in agronomia presso l’Università di Portici e, oltre al suo lavoro nell’Ente Irrigazione, si era dedicato alla sperimentazione di nuove colture e di incroci tra piante e fiori, di cui era un esperto conoscitore.
Da lui Dario aveva appreso che la digitale purpurea è tragica e misteriosa, la peonia è lussuriosa; che le mimose sono pudiche e le rose sconvolgenti per il loro profumo e la loro bellezza ineguagliabile, che le fa ritenere le regine dei giardini. Pompose sono le azalee e le ortensie, presuntuose le orchidee che si schiudono al piacere e somigliano ad eleganti dame ammaliatrici. Infausto l’asfodelo e tenere le primule e le mammole che annunziano primavera. La terra è generosa a giugno, il mese che prepara a festa i campi di grano col rosso dei papaveri, il viola tenue dei gladioli spontanei e col giallo dei tulipani selvatici tra le spighe. Un discorso a parte per le clematidi dai diversi colori e dalle foglie opposte di varia forma e tendenza. Tra di esse attirava Dario la clematis florida con fiori solitari. Da sempre, dovunque e comunque si accennasse alla solitudine, egli si commuoveva. Forse un segno?
Quando Alberto parlava delle sue piante e dei suoi fiori, perdeva quella scorza un po’ rude di” uomo di campagna”, come si definiva, e incantava chi lo ascoltava descrivere le sue scoperte e i risultati delle sue ricerche, talvolta anomali e sorprendenti, talaltra attesi e incoraggianti.
Tutto questo, però, non lo distoglieva dai suoi impegni familiari che gli erano cari e che svolgeva con serietà e un sano rigore, poiché era convinto che l’autorità paterna fosse fondamentale per una famiglia solida e socialmente stimata. Retaggio, questo, della educazione ricevuta e del ricordo rassicurante del padre.
Alberto aveva conosciuto la giovane che sarebbe diventata sua moglie in casa di amici; l’aveva notata subito per il suo fascino autentico e il suo dolcissimo sorriso che lo aveva conquistato e aveva fatto cadere una certa razionale difesa che si era costruita contro la seduzione femminile.
Nei giorni appresso, quando cominciò a farle una strenua corte, si meravigliava di se stesso. Mai avrebbe sospettato di lasciarsi irretire fatalmente e irrimediabilmente. Capì che non avrebbe potuto più vivere senza la luce di quel sorriso.
Matilde si innamorò di lui con uno slancio che era insieme attrazione, ansia di protezione e desiderio di emancipazione da vincoli e ossequi che le imponeva la sua condizione di donna. Aveva un incarnato bianchissimo, che la distingueva tra molte, in contrasto con i capelli molto scuri dello stesso colore degli occhi. La sua persona emanava un senso di caldo, quasi offerta di consolazione.
Nella famiglia Alberto trovò il pieno appagamento delle sue aspirazioni e non viveva che per la moglie e i figli, Dario e Donatella. Tra le pareti domestiche, una pace completa gli riempiva l’animo.
Quando gli fu proposto di recarsi per un certo periodo di tempo insieme ad altri tecnici in Tunisia, dove era in atto un progetto per un vasto canale di irrigazione, egli accettò. Disse che lo faceva per assicurare un maggiore benessere alla famiglia e per il progetto che era davvero assai interessante; inoltre, la partecipazione ad esso avrebbe agevolato la sua carriera. Ma soffrì molto per la lontananza da casa perché poté tornare una sola volta in due anni e per una breve settimana.
Dario ricordava di aver vissuto quella settimana con grande pena. Si era abituato alla sua assenza e gli sembrò un intruso; come se il suo ritorno avesse rotto l’incanto dell’intesa prodigiosa che si era venuta a creare tra lui, la madre e la sorella.
Aveva scoperto di sentirsi profondamente attratto da ciò che esse rappresentavano. Gli abiti della madre, semplici ma di buon gusto, la sue scarpe con un tacchetto medio che ne slanciava la figura, i bottoni colorati, le collane, gli orecchini luccicanti lo stupivano e lo affascinavano. Adorava stare con loro e lasciarsi coinvolgere dalle loro moine e leziosità. Nello stesso modo osservava compiacendosi le compagne di scuola.
Fu, perciò, taciturno durante la permanenza del padre e fu un sollievo il vederlo partire.
“Dario, raccomando a te le mie donne; tu sei ormai un ometto assennato e sei in grado di proteggerle quando non ci sarò”, disse il padre nel salutarlo.
“ Non temere, papà; sappi che anche a me sta a cuore che esse stiano bene.”
Alberto baciò lui e Donatella, quindi, Matilde che tenne legata a sé a lungo prima di salire sul treno e affacciarsi al finestrino.
Dario sentiva un acuto dolore in petto. Avrebbe voluto dividerli: la madre non apparteneva solo a lui e, perciò, gli era sembrato irritante l’atteggiamento di possesso che il padre aveva tenuto durante la sua permanenza a Sulmona. Provò fastidio perché, nell’abbraccio, le aveva scompigliati i capelli neri come l’ebano che ella portava fluenti sulle spalle, appuntati ai lati da due piccole forcine. Fu preso da un malumore scontroso che lo faceva star male.
Donatella, intanto, saltava sul marciapiedi che divideva i binari indifferente alla scena. Dario pensò
” Perché mia sorella non prova quello che provo io? Perché?” E si rabbuiò ancora di più.
Il fischio del treno lo distolse da questi pensieri, ma lo scontento gli durò per tutto il percorso del ritorno. Svanì, una volta entrati in casa, alla constatazione che tutto sarebbe tornato meravigliosamente come prima. Sarebbe tornata la splendida intimità che lo legava alla madre e alla sorella.
Aveva tredici anni e il mondo non gli appariva ben definito, specie per quanto riguardava la differenza tra i due sessi. Rimaneva sconcertato dai discorsi dei suoi amici, che manifestavano una morbosa curiosità per tutto quanto riguardava le loro compagne; ne spiavano i comportamenti, arrossivano nel parlare con loro; le lusingavano e ne immaginavano le rotondità sotto l’impietoso grembiule nero. Le avevano divise in due gruppi, quelle cui valeva la pena rivolgere le attenzioni, poiché era carine e ben fatte, e quelle che, purtroppo per loro, erano prive di grazia e, quindi, non venivano considerate. “Sono racchie”, dicevano e le escludevano dal loro raggio di azione.
Dario, al contrario, non ammirava le compagne per le loro fattezze, per i primi segni della femminilità che cominciavano a farsi visibili; ma per le loro movenze, per le malizie cui ricorrevano per farsi corteggiare, per le ingenue furbizie e i sorrisi invitanti. Era, cioè, il mondo femminile, quello stesso della madre e della sorella, ad interessarlo. Gli amici cominciarono a sorprendersi dei suoi silenzi, della sua ritrosia a unirsi a loro nei commenti, talvolta anche poco rispettosi, nei riguardi dell’altro sesso.
“Che vi pare di Dario che è tutto casa e scuola e non pare molto attratto dalle tette?”, chiese Alfonso agli altri.
“Dai, Alfonso, non azzardare giudizi. Io penso che Dario soffra per la lontananza del padre e la responsabilità di essere l’unico maschio in casa lo opprima…”, rispose Tommaso, l’amico con cui Dario aveva più confidenza. E concluse:“ Vedrete che, appena tornerà il babbo, cambierà.”
Quel giorno le parole di Tommaso fecero tacere i compagni; ma col passare del tempo in ognuno di essi si insinuò il dubbio che quel loro amico avesse qualcosa di strano.
E Dario stesso cominciò a pensare di non essere come gli altri.
Quello che invidiava loro era la spensieratezza che manifestavano in varie occasioni; sapevano ridere per un nonnulla ed erano sempre disposti al gioco; a tendere qualche tiro mancino o a farsi beffe dell’uno o dell’altro.
Spesso si chiedeva come sarebbe stato il suo futuro.

*

“Oggi è nebbioso, signor Dario, e non può ammirare il Duomo con le sue merlature. Può darsi, però, che più tardi schiarisca, la nebbia s’alzi e appaia l’azzurro del cielo. Devo farle un prelievo di sangue, poi, potrà fare colazione.”
“Grazie, Gabriella, delle premure che mi usa. Come finirà la mia storia? La mia vita è appesa ad un filo sottilissimo che può spezzarsi da un momento all’altro.”
“Per carità! Sono certa che il suo caso si risolverà presto e bene. Non vorrà lasciarsi andare; tenga duro, non la dia vinta alla sfortuna. Sarebbe un vero peccato, data la sua giovane età. Intanto, non si muova; non voglio farle male.”
Gabriella uscì dalla camera per continuare il giro tra i ricoverati. Somigliava a Claudia Koll e colpiva, oltre che per questo, per la dolcezza che non le veniva dal lavoro di infermiera, ma era connaturata in lei. Quando andava via, era come quando si spegne il sorriso in un bel viso.
A Dario era negato girarsi nel letto per via dei tubicini introdotti nelle narici e degli aghi infilati nelle vene delle braccia. La sua era una quasi completa immobilità. Solo la sua mente era in continuo fermento. Tornava spesso al passato e al doloroso episodio che gli cambiò la vita. Da quel giorno, infatti, nulla fu come prima e le ore furono private del sole, dei sogni, della speranza di gioie future.
Passarono altri tre anni, prima che il padre facesse definitivo ritorno a casa.
Per Dario furono anni pieni di incertezze, ipocrisie, dubbi, conflitti. Provava soddisfazione nel trascorrere con la madre e la sorella le sue giornate: il vederle così complici e intriganti lo ammaliava e si sentiva avvolto nelle spire di un sentimento di appartenenza al loro mondo.
Non desiderava incontrarsi con gli amici né praticare sport. Rimaneva chiuso in casa a studiare accanitamente, convinto che l’ottima riuscita negli studi avrebbe reso orgogliosi i suoi e, alla fine, avrebbe suscitato l’ammirazione dei compagni, che lo evitavano sempre più spesso perché egli non condivideva le loro passioni.
E fu davvero così. Visti i suoi successi scolastici, essi cominciarono a circuirlo con la sola idea di trarne vantaggi negli studi; di farsi aiutare nei compiti, specie quelli da svolgere in classe. Egli si illudeva che le intenzioni degli amici fossero sincere e non immaginava che lo cercavano per fini ”utilitaristici”.
La madre, dal canto suo, pur apprezzando la sua volontà e il suo ottimo profitto scolastico, era sempre più preoccupata di fronte alle scelte del figlio: quello stare volentieri con lei e la sorella, quel rifuggire dalle competizioni tipicamente maschili, quella sensibilità esasperata, che gli faceva evitare ogni prova di forza.
“Che mai sarà?”si domandava. Ma, subito, si rifugiava in una sorta di ottimismo, fortemente cercato, che la confortava. Certamente il comportamento del figlio era dovuto all’età adolescenziale così difficile; alla lontananza del padre e al fatto che viveva a contatto con sole donne. Avrebbe cercato di stargli più vicino per capire.
Non riusciva, però, ad essere serena. Di notte lo sentiva parlare e agitarsi nel sonno e s’accorgeva che la mattina appresso era pallido e appariva stanco e oppresso da una tristezza indefinibile. Perché quel figlio, così bello e delicato, non era spensierato come i suoi coetanei? Cosa lo affliggeva? A volte, lo sorprendeva con lo sguardo assente e, alle sue sollecitazioni, si sentiva rispondere che non era nulla di grave: la colpa era della sua fantasia un po’ sfrenata che, talvolta, lo portava in un mondo lontano.
Nella realtà, i giorni passavano e in Dario cresceva la pena. Era assalito da incubi notturni e ossessionato da un sogno.
Si trovava in uno stanzone diviso in due zone da un largo e alto paravento, dietro al quale c’erano abiti da donna e una piccola toilette con sopra ogni genere di cosmetici: rossetti di varie tinte, ciprie rosa e marrone, smalti, matite colorate… Dopo aver indossato un abito rosso cominciava a truccarsi pesantemente. Uscito da dietro il paravento veniva sorpreso da risate sonore che provenivano dai due angoli della sala; da un lato c’erano la madre e Donatella, dall’altro il padre e il suo amico Tommaso. Il padre accigliato lo guardava pieno di disgusto; Tommaso, invece, piangeva sommessamente compenetrandosi nel suo disagio.
Si svegliava allora di soprassalto sudato e scosso da una inquietudine che nasceva da una specie di brutto presagio legato a quel sogno ricorrente. Egli si trovava in una dimensione illusoria dove le immagini non erano rispondenti ai personaggi reali, ma erano piuttosto delle caricature; egli stesso non si riconosceva; né la madre e la sorella conservavano la loro dolcezza naturale, ma erano deformate da un riso sguaiato che le rendeva perverse.Anche il padre, che lo guardava senza amore, con ripugnanza, non rispondeva all’immagine nobile e austera che egli custodiva.
Aveva una cognizione confusa di ciò che gli stava accadendo e il suo smarrimento si ripercuoteva sul rapporto con gli altri.
Crescevano in lui due sentimenti opposti, uno di piacevole complicità con le sue compagne, e l’altro di una indistinta attrazione per i suoi amici, in particolare verso Tommaso, che egli vedeva come un punto fermo nel turbinio delle sensazioni che lo dominavano.
Lo studio, al momento, era l’unica via di scampo, poiché lo impegnava facendogli con suo grande sollievo dimenticare il suo assillo. Ed era anche l’unica fonte di soddisfazione, poiché era davvero bravo in tutte le materie e ciò lo ripagava del suo tormento segreto.
Nella solitudine della sua camera, quando distoglieva l’attenzione dalle equazioni di matematica o da un brano di letteratura, scoppiava in un pianto disperato. Dubitava che sarebbe finita la sua trepidazione e sarebbe giunta l’ora della verità. Egli la temeva, ma la desiderava, poiché era consapevole che la sua condizione sospesa era insopportabile.
Per quanto fosse preoccupato, aspettava ardentemente il ritorno del padre, la cui assenza fino ad alcuni mesi prima gli procurava piacere. Si andava convincendo che le cose sarebbero andate a posto, appena lui avesse varcato la soglia di casa. Leggeva ansiosamente le sue lettere per seguire l’andamento del suo lavoro e intuire quando sarebbe stato ultimato.
“ Dario, figlio mio, sei smagrito, non ti riconosco più; sei così silenzioso e non parli con me come facevi una volta. Non vuoi proprio confidarmi la causa del tuo cruccio; fa’ in modo che io possa aiutarti.” Così gli disse un giorno la madre attirandolo a sé.
Dario provò una gioia dimenticata nel sentire il caldo della sua persona. Gli sembrò di tornare bambino, quando l’amore della madre era l’universo. Allora pensava che mai avrebbe avuto bisogno di nulla, finché la sua dolcezza gli avrebbe riscaldato il cuore.
“ Mamma, non preoccuparti, sto bene. E’ che la lontananza di papà comincia a pesarmi, e, poi, sono scontenti passeggeri che ogni tanto turbano le mie giornate. Cosa che capita, credo, a tutti i ragazzi della mia età. Non più di tanto.”
“Mi conforta quello che mi hai detto. Sappi, però, che io sono sempre pronta ad affrontare con te le difficoltà che ti capiterà di incontrare; le perplessità che potrai avere; e ad alleviare le piccole pene amorose, che alla tua età sono frequenti.”
Nel dire queste parole, la madre gli fece l’occhiolino.
Un mattino, finalmente!, la sorpresa.
Era piovuto tutta la notte e l’aria era pregna di umidità; le foglie oro e marrone, cadute dagli alberi, formavano un morbido tappeto che profumava di terra. Tutti segni che la natura s’apprestava a riposarsi. Anche i contadini avevano terminato i loro lavori. Non restava che la fatica della vendemmia: le viti erano cariche di grappoli gialli e rossi, pronti per essere raccolti. Presto si sarebbe sentito il profumo del mosto nelle campagne, nei paesi e nei vicoli suburbani della città.
Nel rincasare dopo la scuola, vide da lontano la sagoma del padre .
Era tornato. Forse nel suo ritorno la salvezza. Dovette fermarsi e respirare profondamente. Il suo cuore era talmente gonfio di commozione che, all’incontro, rimase senza parole. Aveva atteso troppo a lungo quel momento.
Si inorgoglì nel vederlo sempre così perentorio nello sguardo e nei gesti. Pensò che doveva affidarsi a lui, alla sua protezione, ma, nello stesso tempo, fu preso dal timore che non avrebbe avuto il coraggio di confessargli il suo smarrimento.
“ Dario, quanto sei cresciuto! Sei ormai un uomo!”
Così esclamò il padre, stringendolo forte a sé.
Ed egli, rispondendo con calore al suo abbraccio, riuscì solo a dire con le lagrime agli occhi:
“Papà, papà, finalmente!”

*

Trascorsero giorni pieni di entusiasmo. In casa c’era un’allegria diffusa dovuta alla rinnovata vita familiare. Il padre si dilungava a parlare dell’opera straordinaria che l’équipe di tecnici, di cui aveva fatto parte, aveva realizzato e di quanto essa avrebbe giovato all’economia e alla crescita sociale e culturale di quelle terre lontane. Ne parlava con passione. Allora appariva un uomo diverso da quello che Dario ricordava; o, forse, era lui che lo guardava con occhi diversi. Certamente ora gli piaceva di più.
Era rincuorato e sentiva che avrebbe superato le involuzioni dannose del suo pensiero. Il padre lo aveva lodato per i suoi successi scolastici ed egli aveva provato una sensazione piacevolissima; era soddisfatto di sé e promise a se stesso che avrebbe continuato a dedicarsi allo studio con maggiore impegno. Quella era la strada per essere stimato e per la risoluzione dei suoi problemi.
Ma quando il ritorno del padre non rappresentò più una novità e tutto riprese il corso normale, fu di nuovo invaso dalle sue ansie che si erano solo sopite. Si accorse che niente era cambiato; che le sue inclinazioni erano vaghe; che egli non aveva chiarezza del suo essere. Giunse dolorosamente alla conclusione che nessuno, nessuna circostanza avrebbe potuto aiutarlo. Si era illuso che la presenza del padre avrebbe, come per incanto, sfidato e sconfitto i nemici del suo animo e della sua mente, riparando un guasto forse della natura, ed egli sarebbe stato liberato dalla sofferenza che aveva spento l’incanto della sua età. Il dolore, invece, si ingrandiva e lo portava alla amara deduzione che non gli rimaneva che rassegnarsi al suo destino.
Un acuto senso di vergogna, misto alla paura di non riuscire a spiegare il suo dramma, gli impediva di parlare al padre proprio mentre i richiami anomali della sua natura si facevano sempre più insistenti ed inequivocabili. Aveva letto alcuni anni prima, quando il suo sospetto non era alle porte, di alcune perversioni. Allora, era stato preso da semplice curiosità, senza alcuna morbosità, poiché l’argomento non lo toccava; ora, invece, il ricordo di ciò che aveva letto lo terrorizzava.
Come dire al padre che la sua pena maggiore nasceva dalla considerazione che a causa sua egli si sarebbe sentito uno sconfitto?
Sarebbe stato oltraggioso dire al padre che a lui, così sicuro di sé e del suo operato; a lui che lavorava perché i frutti fossero saporosi e senza difetti, ne era capitato uno imperfetto. Sarebbe stato doloroso rivelargli che egli sapeva con certezza che i suoi istinti erano snaturati; fargli comprendere che aveva lottato con tutte le sue forze, che aveva pianto per reprimere qualsiasi voglia o desiderio scomposto, scorretto; ma che non era riuscito a vincere il senso di non appartenenza alla virtuosa normalità.
Si rendeva distintamente conto, ormai, che non era come i suoi compagni da cui lo dividevano aspirazioni, modi di essere, comportamenti. Tutto. Si chiedeva come avrebbe reagito il padre qualora gli avesse confidato il suo segreto.
Era sicuro che alla sorpresa sarebbe seguito uno sdegno irrefrenabile e un rifiuto senza appello.
Questo turbinio di congetture gli procurava uno stato d’animo disperato.
Un giorno, in cui si sentiva preso da un più profondo sgomento, entrò nella chiesa, che aveva frequentato da bambino e che ora gli sembrava un luogo negato ai suoi indegni pensieri. Si inginocchiò e strinse la testa tra le mani.
Don Carlo gli si accostò e gli mise una mano sulla spalla. Dario sussultò e si girò mostrando i suoi occhi lucidi di pianto.
“Cos’è che ti affligge?”
“Non qui, padre, nel confessionale.”
E attraverso la grata Dario si lasciò andare ad uno sfogo inarrestabile, senza soste; quasi volesse liberarsi completamente del grumo di dolore che aveva preso dimora nel suo cuore e gli bloccava il respiro.
“Non ho mai peccato, anzi non ho ancora peccato. Ho represso il mio istinto, mi sono isolato, mi sono sottratto alla compagnia, ai giochi, all’allegria. Non avrei voluto; non è un vizio, ma una condanna, una disgrazia. Aiutatemi, don Carlo, ho paura del domani; non ho sogni né so in che modo costruirli e inseguirli. Tutto mi è negato. Il mio futuro sarà incerto e indecoroso ed ho pietà dei miei genitori che sono ignari della tremenda rivelazione che li aspetta. Consigliatemi, per carità. Ditemi, per amor di Dio, che per me c’è una via di scampo. Una via di salvezza. Perché a me è toccato questo tormento?”
“ Calmati, Dario. La tua confessione mi sorprende e mi addolora.
Ora, però, pensiamo ad un intervento che apra la porta alla speranza e non permetta che tu ti perda. La tua è una natura deviata, ma puoi sconfiggerla, puoi piegarla, sanarla. E’ apprezzabile quanto hai fatto finora per non cedere; devi continuare così e puoi farlo con la forza del tuo intelletto.
Forse, il Signore mette alla prova la tua volontà. So che sei molto bravo; dedica maggior tempo all’impegno scolastico in modo da tenere occupata la mente e non lasciarla libera di perdersi nei suoi meandri pericolosi e imprevedibili. Io pregherò per te. Nei momenti di sconforto, quando ti sembrerà di non poter vincere la tentazione, vieni pure da me. Ora va’ e non perdere la fiducia in te stesso.”
Dario tornò a casa sollevato; era come se la sua pena fosse più sopportabile perché condivisa. Non lo convinceva, però, il fatto che il Signore avesse scelto un’esperienza tanto amara per provare quanto fosse grande la sua forza spirituale. Gli sembrò una baggianata e sorrise…Per il resto accettò il consiglio di don Carlo: avrebbe rafforzato le sue difese.
Per alcuni giorni le cose procedettero per il meglio, poi, tutto precipitò senza rimedio.

*

L’infermiera entrò nella stanza 27 per aggiornare la cartella clinica sulla base dei risultati delle ultime analisi; ma, vedendo Dario con gli occhi chiusi, pensò di andarsene. Sarebbe tornata più tardi. In realtà Dario non dormiva: era solo assorto nei suoi ricordi.
“Venga pure. Sono sveglio. Come va la ricognizione quotidiana delle funzionalità del mio corpo? Per quanto tempo resterò vivo?”
“Le analisi vanno benissimo, e lei è ancora così giovane e non le mancano le energie necessarie. E’ il suo cuore che fa capricci. E’ un cuore logorato, stanco, sconquassato. E’ come un vecchio motore che deve essere sostituito. Ne è necessario uno nuovo che con il suo ritmo trasmetta il moto alla macchina. Per il resto, però, va tutto bene.”
“Lei mi fa ridere. Per continuare la sua metafora, il pericolo è che non sia possibile trovare un motore compatibile.
Sono immobile ormai da mesi e questa condizione mi porta a rivivere il passato giacché il presente è così precario.Tornano alla mia mente episodi lontani che ricostruisco con puntigliosa minuziosità, quasi con accanimento. A volte mi capita di fissarmi su qualche particolare per ricostruirlo in ogni dettaglio; d’altronde, avendo tanto tempo a disposizione, posso lentamente rivisitare la storia della mia vita. Mi rivedo ora in un luogo, ora in un altro; spesso nel corridoio della mia casa paterna sul quale si affacciano le porte delle camere da letto e, in fondo, quella della stanza da pranzo, sempre piena di sole poiché è esposta a mezzogiorno.
Ma, mi dica la verità, la annoio?”
“Tutt’altro.”
“Mi distraggo dal mio dolore immaginando le persone a me care dietro quelle porte: mia sorella Donatella che ascolta la musica dei Beatles stando sdraiata sul divano, mentre mia madre è intenta a disporre sul letto la camicia, la cravatta e i calzini per il marito in procinto di uscire.
Ella ha avuto sempre questo riguardo per mio padre, che ha accettato mostrandosi grato, anche se una volta mi confidò che quasi mai aveva gradito le sue scelte. Fu una delle poche volte in cui l’ho visto ridere di gusto.
Donatella si è sposata e non vive più con i miei genitori. Ha due splendidi bambini: una femminuccia ed un maschietto.
Credo che capiti anche a lei, cara Gabriella, di ripercorrere a ritroso gli anni. Le pare che questo giovi per mettere ordine nella propria vita o...”
“Proprio così, mio caro signore. Sono certa che se si ha la forza, beninteso anche il tempo, di ricordare, rivivendoli, alcuni episodi della propria esistenza, anche quelli che ci siamo sforzati di dimenticare perché ci avevano arrecato pena, si è più in pace con se stessi e più propensi a riprendere le fila dei giorni futuri con la speranza di riannodarli al passato. Si ha quasi voglia di ricominciare. Non mi pesa parlare con lei, anzi; tanti altri malati sono affidati alla mia assistenza, ma le assicuro che ben pochi sono pazienti e cortesi come lei. E’ che la sofferenza rende irascibili e bisognosi di cure. Talvolta, un piccolo ritardo li fa sentire abbandonati, addirittura dimenticati.”
Quindi, uscì con lo stesso garbo con cui era entrata. A Dario venne spontaneo considerare che era la infermiera più sensibile e più dotata del reparto.
Le parole di Gabriella gli fecero comprendere che la sua amarezza derivava dal fatto che era giunto ad un punto cruciale dei suoi ricordi, all’episodio che aveva influito su tante sue scelte e che egli si rifiutava di rievocare. Era rimasto sospeso come una domanda che esige una risposta che non si riesce a trovare.Aveva sempre cercato di disintegrare nella sua memoria quella visione; e, quando essa si imponeva, egli ne interrompeva il maleficio entrando o uscendo da qualche negozio o soffermandosi a parlare con amici e conoscenti del più e del meno.
Gabriella aveva ragione. Se avesse ricostruito nei minimi particolari il puzzle della propria vita, sarebbe stato facile, poi, sempre che avesse superato il trapianto e tutte le difficoltà dell’iter postoperatorio, affrontare il futuro e ricominciare tutto con l’abbandono di chi è sfuggito ad un pericolo grave.
E sia! Sia rivisitata la sua angoscia; sia spiato nel suo cuore e nella sua mente perché nulla venga omesso o trascurato.
Dopo l’incontro in chiesa con don Carlo, pochi giorni durò l’illusione che le sue impressioni e suggestioni non erano, poi, tanto inconsuete alla sua età e che egli avrebbe potuto vincerle con la forza della sua volontà. Lo stesso don Carlo ne era sicuro e lo aveva incitato e confortato.
Quanto avvenne, perciò, lo colse di sorpresa, indifeso.
Era l’ora di storia dell’arte ed egli chiese all’insegnante il permesso di uscire. Nel bagno fu raggiunto da un ragazzo più grande di lui. Frequentava la terza liceo. Lo aveva visto talvolta all’entrata o all’uscita da scuola, ma non sapeva chi fosse.
Lui, invece, conosceva il suo nome. Gli mise una mano sulla spalla e disse:
”Dario, da tempo ti osservo e molti indizi mi hanno reso certo che anche tu…” e accompagnò le sue parole piegando la testa verso l’omero destro in segno d’intesa.
“Quelli come noi non hanno vie di fuga. La nostra natura è diversa per nostra dannazione. La luce e il sole non sono fatti per noi, ma il buio e le ombre della notte per nascondere una anormalità, che per noi è una disgrazia, per gli altri un vizio che merita esecrazione e disprezzo. Sempre di notte asciugheremo le nostre lacrime, mentre, di giorno ostenteremo sicurezza ed una baldanza scriteriata.”
Nel dirgli questo lo baciò forte sulla bocca e scappò via facendo un gesto osceno.
Dario, attonito, sconvolto pianse convulsamente. Quella era la verità, anche se quel compagno di sventura era stato brutale.
Quando rientrò in classe aveva gli occhi rossi e un pallore insolito, tanto che il professore gli chiese se stesse male. Egli lo ringraziò e gli rispose che era solo un leggero mal di stomaco.
Il professore riprese la lezione. Stava illustrando il feroce scorcio del Cristo morto del Mantegna su una riproduzione a colori del libro di testo. Si soffermava sui toni chiari e aciduli della tela e sulle ombre cineree che trascolorano in violaceo.
La sofferenza del Cristo, le sue ferite lenirono la pena di Dario e lo aiutarono a calmare il battito del suo cuore, che, forse, proprio quel giorno, cominciò ad ammalarsi.

*

Alberto Corsini era dietro ai vetri della finestra del suo studio. Erano quasi le quattordici e aspettava di essere chiamato per pranzare non appena fossero tornati i ragazzi da scuola. Il sole bagnava le facciate dei palazzi color ocra e i suoi raggi sembravano d’oro antico come all’ora del tramonto. Nel giardino di fronte s’allargavano con i loro rami scomposti due grossi ginepri. Li aveva piantati lui in un giorno di marzo di molti anni fa. Almeno dieci. Erano cresciuti forti e rigogliosi ed egli li ammirava compiaciuto.
Sentì aprire la porta e si girò. Era Dario che gli disse:
“Papà, ho deciso di prepararmi per superare l’esame di licenza liceale con un anno di anticipo. Studierò contemporaneamente i programmi del secondo e del terzo anno.”
“Dario, pensa bene a quello che fai. Non è certo facile realizzare quanto ti proponi; non vorrei che tu provassi una delusione. E poi, che fretta c’è?”
“Voglio provare. E’ chiaro che se mi accorgerò di non farcela, lascerò perdere e mi concentrerò sul programma dell’anno in corso.”
“C’è dell’altro. Non vorrei che tu rinunziassi a quel poco di tempo libero che ti concedi. Non ti dedichi ad uno sport, hai pochi amici, esci raramente. La vita non è solo studio. Mi pare che tu non abbia quella spensieratezza che è propria degli anni tuoi.
A volte me ne faccio una colpa; forse allontanandomi da casa per lungo tempo, ti ho gravato di una responsabilità troppo pesante per la tua età. Forse il mio egoismo ha spento la tua giovinezza.”
Dario abbracciò il padre per fugare le sue perplessità. Insieme, quindi, si avviarono in sala da pranzo.
Non riusciva a dirgli che la sua assenza non aveva assolutamente influito sulla sua dubbia formazione e che la sua decisione di abbreviare il corso di studi gli era dettata dalla necessità di andar via da casa, per affrontare da solo il suo destino. E questo soltanto la frequenza all’Università poteva permetterglielo.
Rinunziò a qualsiasi forma di evasione: usciva di rado e trascorreva la maggior parte del suo tempo chiuso in camera a studiare.
L’incontro con il Leopardi fu esaltante;”le sudate carte” “lo studio matto e disperatissimo”lo riportavano alla sua condizione, e, leggendo le sue liriche, scopriva numerose consonanze spirituali. Preso dal suo furore, che gli veniva dal forte desiderio di superare la sfida, non avvertiva alcun bisogno: neppure quello di mangiare.
“Dario, devi nutrirti se non vuoi ammalarti. Non voglio che affronti sacrifici superiori alle tue forze. Ricordati che è meglio un asino vivo che un dottore morto, come recita un vecchio proverbio.”
Ogni pomeriggio bussava alla porta e gli portava qualche leccornia, di cui era particolarmente ghiotto; o andava a chiedergli se avesse bisogno di qualcosa e, intanto, scrutava il suo viso per scorgervi segni di stanchezza o, addirittura, di esaurimento. Quando lo vedeva sereno, usciva dalla camera sorridendo.
Non poteva sapere che quei giorni così densi di impegno erano per lui un toccasana; lo alleviavano dal tormento che sempre più spesso si illudeva di aver dimenticato.
Ma un giorno di maggiore ottimismo, mentre assaporava la gioia di un cambiamento e la speranza di una svolta, il ricordo del disgustoso incontro con quel compagno lo fece ripiombare nell’abisso delle sue elucubrazioni.
Non lo aveva mai più incontrato a distanza ravvicinata; o forse Dario era in guardia e aveva studiato tutte le strategie per evitare ogni possibilità che ciò avvenisse. Quando lo intravedeva da lontano imboccava un’altra strada; una sola volta i loro sguardi si erano incrociati e l’altro ammiccò con ironia, accompagnata da un sorriso beffardo, quasi a convincerlo che le cose non erano cambiate, né sarebbero potute cambiare. Insomma, non c’era salvezza.
Di nuovo il ricordo doloroso tornò a togliergli la lena; a fiaccare la furia di voler riuscire nel suo intento per il padre e la madre, per tutti gli altri; ma soprattutto per se stesso.
Doveva avere fiducia nelle cose che mutano…nell’aria del mattino, nel sole generatore di vita, nelle notti stellate. Avrebbe dovuto dirsi e persuadersi che, comunque, la vita andava vissuta, che ognuno aveva una strada tracciata e che forse non era possibile cambiarne il percorso. Tante domande si affacciavano alla sua mente. Ad alcune riusciva a dare risposte fondate che lo appagavano; altre, invece, rimanevano irrisolte.
Era nella sua camera più cupo del solito, privo della tensione che lo aveva animato in quegli ultimi mesi, prostrato nell’animo, quando entrò Donatella. Fu un miracolo.
“Dario, devo dirti una cosa che ti farà piacere. Durante la ricreazione hanno fatto capannello intorno a me molti compagni e compagne e mi hanno chiesto come mai eri assente alle lezioni. Ho risposto che non eri stato bene e con mia sorpresa hanno detto di te cose mirabili: che erano orgogliosi di averti nella stessa scuola, che eri un vanto per quanti ti erano vicini, che ti apprezzavano per la forza di volontà…bla, bla ,bla…e, infine, che avrebbero voluto essere come te e ti invidiavano.
Sono soddisfazioni che capitano a pochi; a chi, come te, caro fratellino, antepone lo studio e l’impegno ai dolci piaceri della giovinezza.
Certo non a me che a mala pena ottengo una risicata sufficienza in tutte le materie. Se, poi, penso alla matematica, mi vengono i crampi allo stomaco e mi scopro davvero cattiva poiché auguro al professore Parente un male non grave, ma una indisposizione che esiga che egli sia costretto a casa per l’intero anno scolastico.”
Risero di cuore e si recarono insieme nella sala da pranzo poiché era ora di cena.
La gaia spensieratezza della sorella e i giudizi lusinghieri che ella gli aveva riferito giovarono a Dario che a tavola fu più loquace del solito ed anche spiritoso, sorprendendo piacevolmente il padre e la madre.
Rimasto solo, ripensò alle parole della sorella e scoprì di godere nell’intimo dell’apprezzamento dei compagni. Quindi, la impressione che egli aveva che essi lo snobbassero, lo evitassero, era infondata. Non capivano la sua rinunzia al divertimento, la sua tenacia nel sacrificarsi; però, lo stimavano. Questo gli servì per ritrovare l’entusiasmo e ricomporre il progetto spezzato.

 

Parte II - Segue >>   

 

 

 

 

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