PARTE II
Faceva caldo. Giugno
era esploso e tutta la campagna era pregna, lussuriosa, coperta d’erba e
di fiori; il grano era quasi maturo e le spighe fluttuavano al vento.
I ragazzi e la ragazze delle terze liceo avevano deciso di fare una
scampagnata per salutarsi e per salutare la scuola. Almeno così
speravano. L’esame di maturità, la cui data si avvicinava
inesorabilmente, era diventato l’incubo delle loro notti e delle loro
giornate.
Dario era stato ammesso alla festa perché anch’egli avrebbe dovuto
sostenere la prova temuta ed anche perché, avendo fama di essere tanto
bravo, molti speravano in un suo aiuto alle prove scritte. Arrivò
insieme a Donatella, cui fu concesso in via eccezionale di partecipare.
C’erano anche altri “infiltrati”: i fidanzatini e le fidanzatine dei
maturandi. Questi ultimi erano felici, come si può essere alla loro età,
e per un po’ dimenticarono il teatro greco, Cicerone e il Paradiso di
Dante.
Un’allegria contagiosa aveva preso tutti; lo stesso Dario si era unito ad
un gruppo di “libertini” che raccontavano delle barzellette osè tra le
risate degli altri, e ne raccontò anch’egli una che aveva sentita dallo
zio Umberto, fratello del padre, che ebbe un discreto successo.
L’ora della merenda fu assai divertente: ognuno offrì quanto aveva portato
con sé e tutto fu unito e condiviso con pieno spirito “cristiano”. Non
mancò chi volle fare il furbo appropriandosi di nascosto di qualche
ghiottoneria, ma fu scoperto e punito con la decisione( finta!) di
privarlo del dolce.
Gli animi erano aperti alla gioia e alle attese di un futuro che ognuno si
fingeva radioso. Dario provava una spensieratezza dimenticata e provò
attimi di vera e intensa felicità. Purtroppo il suo stato di grazia durò
poco. In lontananza vide Ferruccio(aveva appreso il nome dai suoi
amici), il ragazzo incontrato nel bagno della scuola il fatidico giorno
della verità. Molti gli andarono incontro perché volevano sapere il
motivo del suo ritardo: egli spiegò che aveva dovuto giustificare al
preside uno scatto di intolleranza nei riguardi del professore di
filosofia. Aveva chiesto scusa e tutto si era risolto per il meglio.
Come quando in una giornata chiara di sole, con un cielo di una limpidezza
diffusa e incredibile, una nuvola copre il disco solare e per un po’
tutto si oscura e si avverte una brutta sensazione di smarrimento, così
per Dario la visione di Ferruccio fu come un’ombra che gli tolse la luce
e il respiro. Si ricordò l’episodio del loro incontro e fu colpito da un
improvviso malore che lo fece sbiancare.
“Cos’ hai, Dario?” gli chiese la sorella visibilmente preoccupata.
“Nulla. Forse il caldo: lo stare così a lungo all’aria mi ha procurato un
momento di assenza, come se stessi per venir meno e perdere i sensi..
Ora sto meglio, ma è prudente non trattenerci molto a lungo. Anzi,
poiché non voglio privarti di altro divertimento, a ben pensare, torno
io solo a casa; tu, poi, ti farai accompagnare. Ci sono tanti amici
fidati. E’ deciso; faremo così. Ora saluto e mi avvio.”
Così fece. La sorella si oppose debolmente alla decisione di Dario perché
stava trascorrendo delle ore deliziose, anche per la presenza di
Riccardo, un giovane che la corteggiava da qualche tempo. Lei si era
accorta e si compiaceva, anche se la loro timidezza aveva fatto sì che
il loro rapporto si limitasse al saluto e a sguardi furtivi. Ella,
perciò, sperò che, senza la presenza del fratello, la inconsueta libertà
di quella giornata avrebbe annullato la distanza tra loro.
Dario s’incamminò per un sentiero in salita e stava attento a non cadere
poiché il terreno era sdrucciolevole.Giunto finalmente in alto dove si
snodava la strada del ritorno, alzò gli occhi e vide che Ferruccio era
piantato di fronte a lui e lo guardava fisso.
“Corri, corri! Puoi liberarti di me; ma non riuscirai a sfuggire a te
stesso.”
Dario ebbe la forza di non rispondergli, lo scansò e proseguì il cammino
non senza il timore che l’altro potesse rincorrerlo e afferrarlo per le
spalle. Ferruccio per un po’ lo seguì con lo sguardo, quindi,
rinunziando a qualsiasi iniziativa, tornò ridendo dai compagni che non
s’erano accorti di nulla. Era un superficiale, uno sconsiderato che
prendeva la vita come un gioco; era solito dire che c’era tanto tempo
per essere seri e conformarsi alle regole.
Per Dario questo nuovo incontro fu deleterio; gli rovinò una gioia che non
provava ormai da mesi e che quel giorno lo aveva consolato. Ebbe un moto
di ribellione e si mise a correre all’impazzata. Fortunatamente un
pensiero, tra gli altri tanto dolorosi, lo rasserenò. Presto sarebbe
andato via dalla sua città. Avrebbe avuto la possibilità di capire gli
angoli oscuri del suo animo senza la presenza costante dei genitori che,
spinti dall’affetto, indagavano e vigilavano sui suoi comportamenti.
Questi, infatti, al suo ritorno, vedendolo stremato, visibilmente
preoccupati, lo sottoposero ad una serie di domande sul perché era
tornato e perché la sorella non era con lui. Alla sua risposta di non
essersi sentito bene, cominciarono ad opprimerlo con la loro ansia.
“Non c’è tempo da perdere” disse il padre. “ Chiamiamo il dottor Franchi;
non vorrei che un colpo di sole gli avesse bloccato la digestione con
spiacevoli conseguenze.” Poi, interpellandolo direttamente, aggiunse:
”Può essere stata anche una causa diversa. Hai per caso bevuto
dell’acqua gelata?”
Dario, di fronte alla agitazione del padre e della madre, si sentì in
colpa; avrebbe voluto gridare tutta la sua sofferenza e la sua
confusione.
Si limitò, invece, a tranquillizzarli dicendo che era stato un malessere
passeggero: l’aria aperta, la confusione…dopo giorni di studio. Sarebbe
andato nella sua camera e si sarebbe sdraiato sul letto. Essi non si
convinsero facilmente; alla fine cedettero quando egli promise che li
avrebbe chiamati immediatamente qualora si fosse sentito di nuovo male.
Dario, appena fu solo, pensò che non avrebbe mai avuto il coraggio di
deluderli; di spezzare i loro sogni e le loro aspettative. La tremenda
verità li avrebbe offesi, feriti; quella verità che egli stesso non
avrebbe mai voluto scoprire e che gli stava nel cuore come un grumo di
sangue infetto.
*
Superò gli esami brillantemente Tutte le prove risultarono eccellenti. Il
padre non riusciva a contenere la sua soddisfazione: parlava con tutti
della bravura del figlio; con orgoglio malcelato ne esaltava la costanza
nell’impegno e la viva intelligenza.
Fu un’estate spensierata. Genitori e figli andarono in vacanza in un
paesino della costa ligure. La casa in affitto era a pochi metri di
distanza dal mare, sì che rimanevano sulla spiaggia giornate intere,
godendo in piena libertà del sole e dell’aria salmastra.
Dario trascorse ore serene in compagnia di alcuni amici che aveva
conosciuto sul posto, di cui due o tre almeno interessati alle grazie
della sorella. Il brutto fantasma della sua diversità sembrava
scomparso.
La sua mente, infatti, era presa da vibranti propositi per il futuro; si
apriva una parentesi nuova nella sua vita. L’Università! Finalmente
solo! Finalmente lontano! Avrebbe potuto capire ciò che veramente
voleva; qual era la sua condizione spirituale; chi era davvero; quali le
sue inclinazioni, i suoi desideri, le sue aspirazioni. Aveva scelto il
corso di laurea di giurisprudenza; lo affascinavano il mondo del diritto
e l’acutezza delle analisi giuridiche. Avrebbe alloggiato nella Casa
dello Studente, versando una minima retta per via della borsa di studio
che aveva ottenuto per meriti scolastici.
Negli ultimi giorni che lo separavano dalla partenza fu preso da una
frenesia incontrollabile. Non vedeva l’ora di allontanarsi dai luoghi
consueti, dalle persone conosciute. Gli pareva strano che egli non
provasse dispiacere nel dover lasciare la sua famiglia; in special modo
la madre, sempre così cara e affettuosa. Nella realtà, si era andato via
via convincendo che le cose, intanto, dovessero andare così.
Era come se d’un tratto fosse diventato adulto; consapevole, più forte e
sicuro di sé. Il peggio era passato. Da un bel po’, infatti, i suoi
timori si erano sopiti. Quando il pensiero che essi implacabilmente
avrebbero potuto riafferrarlo affiorava nella sua mente, egli non si
lasciava irretire da esso; ne eludeva i lacci e si gettava a capofitto
in qualche urgenza.
L’ultima visita fu per la nonna.
“Nonna vengo a salutarti. Come sai andrò a Roma a frequentare
l’Università”, disse Dario con vera commozione poiché amava molto la
nonna. Era una dolce signora che nello sguardo conservava un che di
giovanile; una ironia naturale che, spesso, diventava furbizia quando si
trovava in compagnia dei nipoti. Aveva una sorridente saggezza che
conquistava gli interlocutori.
“Dario, che piacere! Tu sei il nostro orgoglio. Tuo padre non fa che
parlare di te e della splendida prova che hai dato agli esami di
maturità. Sei felice?”
“Sono felice, è vero, perché siete felici voi. Per quanto mi riguarda,
provo un piacere relativo. A te posso dirlo, nonna, ho paura del domani.
Il mio successo scolastico mi consola; ma non riesco a fugare un’ombra
che lo oscura .”
“Le tue sono assurdità. Tu, che sei invidiato da tutti i giovani di
Sulmona per la bravura, la preparazione ed anche per la bellezza, ti
lasci sopraffare da preoccupazioni inconsistenti. Non devi dubitare.
Come hai superato la difficile prova degli esami, così saprai affrontare
i percorsi che la vita ha in serbo per te.
Nei tuoi occhi, negli ultimi mesi, mi è parso di scorgere una tristezza
insolita, un affanno nascosto, ma ho attribuito la tua malinconia allo
sforzo cui ti sottoponevi che fiaccava le tue energie.”
“Nonna, come vorrei che fosse così! In realtà ho un rodimento nell’anima
che mi toglie spensieratezza e mi estenua, anche perché devo essere
sempre guardingo e in difesa contro un malessere indecifrabile,
oscuro.E’ uno stato d’animo che appanna qualsiasi gioia e mi toglie i
doni della giovinezza. Sono contento di allontanarmi e, anche se sentirò
la nostalgia della mia casa e di tutti voi, mi farà bene rimanere solo
con me stesso. Ho bisogno di capire…di sapere.”
“Ciò che dici mi addolora. Che cosa ti tormenta? Forse un amore non
corrisposto? Alla tua età è facile far dipendere la felicità da un
sorriso femminile o viceversa. Anch’io prima di incontrare tuo nonno
spasimai per un giovane più grande di me che non sentiva per me quello
che io provavo per lui. Poi arrivò il mio Dario, di cui porti il nome, e
capii la differenza tra infatuazione e amore.”
“Non è questo. E’ ben altro; non posso dirti oltre. Mi pento già di averti
turbata. Hai ragione tu: è colpa dell’intenso studio che ha
caratterizzato le mie giornate in questo ultimo anno. Non pensare alle
mie parole.”
“No, Dario, non accetto che non mi dica di più, se non tutto. Rivelami il
tuo segreto; forse potrò esserti di aiuto.”
“Non avrei dovuto…non avrei dovuto; sono stato superficiale ed ho peccato
di egoismo. Scusami, nonna, ma avevo bisogno di aprire il mio animo a
qualcuno ed ho scelto te, senza tener conto della tua fragilità e della
tua età. Ti prego, però, di non far parola con i miei di quanto ti ho
detto. Tu sei l’unica della famiglia a conoscere la mia inquietudine.
Perdonami per averti coinvolto nella mia storia, anche se l’averlo fatto
mi fa sentire meglio e nello stesso tempo mi rende più forte per poterti
tranquillizzare e perché tu possa ancora apprezzarmi e stimarmi. Tu sei
una persona speciale e la tua approvazione per me è fondamentale.”
“Per amor di Dio, non arrenderti. La vita va conquistata ogni ora. Voi
nipoti siete la mia vera ricchezza e il mio domani. In certi casi la
salvezza è nella fede. Non stare lontano dal Vangelo.”
“Mi auguro di cuore che al mio ritorno possa liberarti dalla pena che ti
ho procurato. Intanto, prega per me. Tu conosci le vie del Signore.”
Dario l’abbracciò fortemente e le asciugò le lacrime che le bagnavano il
viso. La nonna si liberò dalla stretta e gli offrì una banconota che
prese da un piccolo cassetto della cristalliera.
“Con questi soldi soddisfa un tuo capriccio. Ti benedico con tutto
l’affetto che provo per te che sei il mio primo nipote. La tua
lontananza mi peserà di più dopo le tue indecifrabili parole. Abbi cura
di te.”
La nonna rientrò in casa pensosa, mentre il nipote si allontanava nel
viale con un nodo in gola.
Lo accompagnò il padre a Roma.Voleva essere certo della sua sistemazione.
Nei pochi giorni in cui egli si trattenne Dario fu preso da una grande
tenerezza per lui e si augurava di riuscire a non deluderlo.
Quando il padre ripartì, Dario lo accompagnò al treno e, con il cuore in
tumulto, ascoltò le sue ultime raccomandazioni” Attento alle cattive
compagnie e riguarda la salute che è un bene assai prezioso.”
Nel vederlo partire, mentre lo salutava dal treno in corsa, provò un senso
improvviso di vuoto.
Era solo ed ebbe paura di non farcela. Non conosceva nessuno a Roma; e la
città era così grande! Tornò nella casa-albergo degli studenti e si
chiuse nella sua camera. Alle venti e trenta scese per la prima volta
nella sala adibita ai pasti, dove lo accolse un intenso chiacchiericcio:
tante voci alte e basse si intrecciavano. Ai tavoli i ragazzi erano
allegri.
Dario si sedette ad un tavolo dove erano sedute due matricole di medicina
ed un giovane di origine spagnola, Consalvo, che lo salutò
calorosamente. Era nato a Siviglia da madre italiana e padre catalano ed
aveva deciso di studiare a Roma “ quasi una fuga dalla mia terra” disse
scherzando. Si scambiarono vicendevolmente informazioni, intervallate da
piacevoli battute. Poi, ciascuno si ritirò nella propria camera.
Dario era esausto; si buttò sul letto con la speranza di addormentarsi
presto, ma non fu così. La mente lo coinvolgeva in un gioco perverso con
una serie di riflessioni ”Pensi di averla fatta franca. Non è così. Il
fuoco continua ad alimentarsi anche sotto la cenere; credi che la tua
natura si sia normalizzata solo perché da qualche mese sei stato
distratto da nuovi impegni che si imponevano con urgenza. La verità è
quella di sempre. Ti eri illuso che…”
Tentò di distrarsi pensando alla casa, al padre, alla madre, ai suoi
studi. A proposito, l’indomani la prima lezione. Questa attesa lo
distolse dalla sua vecchia esperienza di dolore e si addormentò.
Trascorsero i giorni in un fermento nuovo. Aveva tante cose da fare:
prenotare e acquistare le dispense, presenziare alle lezioni tenute dai
vari professori; tutti così bravi e avvincenti nelle loro discussioni.
Gli piaceva ascoltarli e si lasciava trascinare dalla sottigliezza delle
tesi e delle risoluzioni.
Quando rientrava dall’Università, se ne stava sempre solo, ad eccezione
degli abituali incontri a pranzo e a cena. Preferiva così. Molte
colleghe avevano tentato di richiamare la sua attenzione, ma egli aveva
rifiutato l’invito ad uscire con loro, anche se la loro grazia e tutto
quanto riguardava il loro modo di essere lo intrigavano. Per deviare,
poi, i compagni di corso da facili congetture, fingeva di condividere
con loro desiderio e interesse per le ragazze. Ma la sua ambiguità non
era sfuggita a Consalvo. Una sera bussò alla porta della sua camera e
chiese di entrare.
“ Dario, puoi ingannare gli altri; ma non riesci a farlo con me,” gli
disse e lo coinvolse in un abbraccio poderoso, in un’avventura di forza
e di dolcezza che vinse la sua resistenza, mentre diceva tra sé ”Devo
sapere, voglio conoscere…”
Il giorno dopo ricordava solo la pelle ambrata di Consalvo.
*
Era stato Consalvo a dirgli che non era prudente che si vedessero in
camera. Qualcuno alla lunga avrebbe potuto insospettirsi. Gli rivelò che
aveva degli amici fidati che avrebbero potuto aiutarli. Così Dario finì
sulla strada. Una sera, infatti, seguì Consalvo in Via Laurentina dove
si raccoglieva il popolo della notte.
C’erano persone di ogni specie: quelle costrette a prostituirsi, altre che
lo facevano per vizio, altre solo per guadagno; ragazze giovanissime
senza scrupoli, disposte a tutto; donne mature, che per mascherare i
segni di una vecchiaia incipiente, appesantivano i tratti del loro viso
con un trucco acceso. Erano maschere tragiche e beffarde. Tra queste una
certa Rosy che, vedendo il suo imbarazzo, gli disse:
“Sei arrivato con Consalvo: lo conosco. Stai attento, ne ha avviati molti
come te alla perdizione. Non è cattivo, ma è soggetto ad un boss che lo
tiene in pugno per via della droga.”
Proprio in quel momento arrivò Consalvo con un giovane alto e biondo;
veniva dall’Europa dell’est. Li fece salire in macchina e li condusse in
una stanza di un vecchio palazzo dove cominciarono i giochi perversi.
Da quella sera sempre più in basso. Aveva perduto la stima in se stesso;
la fiducia nella sua forza morale; la memoria delle regole della sua
famiglia e della Chiesa. Ed aveva, invece, imparato a convivere con il
suo rimorso. Di giorno irreprensibile studente di legge, innamorato
della puntualità giuridica di alcune norme; di notte trasgressivo e
contrario ad ogni etica; convinto anzi che lui e quelli come lui
dovevano essere invidiati poiché avevano il coraggio, che agli altri
mancava, di accettare la loro diversità e fare certe esperienze. In
momenti di esaltazione si sentiva addirittura un eroe e ripensava al
superuomo di Nietzsche. Trascorsero così due anni.
“Dario Corsini al telefono”, urlò una voce giovanile nel corridoio.
Dario uscì di corsa dalla sua camera.
“Grazie, Andreina”, disse all’amica che lo aveva chiamato.
“Pronto, sono Dario, chi mi cerca?”
“Dario, sono Donatella: devo darti una brutta notizia. La nonna sta
morendo.”
“Prenderò il primo treno che parte da Roma per Sulmona. Sarò da voi nel
pomeriggio. Che dispiacere, Donatella! A più tardi. Ciao.”
Posò il ricevitore e tornò in camera; non aveva tempo da perdere. Radunò
le cose personali necessarie per il suo soggiorno a Sulmona e chiamò un
taxi. Aveva gli occhi pieni di lagrime.
In breve fu alla stazione; guardò l’orario dei treni in partenza e fu
contento di vedere che ce n’era uno che sarebbe partito entro una
ventina di minuti. Fece subito il biglietto; sarebbe arrivato prima del
previsto. Forse la nonna era ancora viva.
Si sedette su una panchina e aspettò il rapido.
Per fortuna nello scompartimento era solo e poté finalmente dare sfogo al
suo dolore. Aveva molto amato la nonna: una dolce signora che curava la
sua persona con stile e intelligenza.
”E’ necessario farlo- era solita dire- altrimenti i vecchi sono rifiutati
dai giovani.”
Ella godeva nello stare con i suoi nipoti dai quali sembrava trarre linfa
vitale ed era aperta alle loro idee. I nipoti a loro volta
contraccambiavano il suo affetto ed erano soliti dire che era al passo
con i tempi, forse più dei loro genitori. Quando qualcuno di loro aveva
un cruccio o un problema ricorreva a lei che li sapeva ascoltare e, poi,
con la sua esperienza e il suo buonsenso, dava un consiglio che
risultava sempre assai utile e adeguato.
Si ricordò di averla rivista pochi mesi prima, in occasione del suo
ritorno a casa per le feste natalizie.
Era andato subito a trovarla ed ella lo aveva accolto con la solita gioia.
“Dario, come va? Non ti chiedo dei tuoi successi scolastici, perché so che
ti fai onore come sempre. Ma voglio sapere di te, del tuo umore, della
tua serenità spirituale.”
Dario, la prima volta in cui era tornato a casa dopo la sua partenza per
l’Università, era andato di proposito da lei per rasserenarla.. Non
aveva, infatti, dimenticato il suo sconcerto quando s’erano salutati.
Non gli sembrava giusto che la nonna conservasse la preoccupazione che
si era insinuata nel suo cuore dopo quanto le aveva rivelato.
“Nonna, voglio subito dirti che la sofferenza che ti ho palesato il giorno
in cui mi allontanai da Sulmona è del tutto svanita; era frutto
dell’attesa del nuovo: impegni diversi e diversi ambienti e amicizie.
Posso dirti che i miei timori erano infondati; mi trovo bene e riesco a
dedicarmi allo studio in tutta tranquillità.”
Così le aveva mentito. Non avrebbe potuto, mai e poi mai, rivelare alla
nonna che il suo era un male oscuro di perversione e condanna;
confessarle che aveva fatto cadere il muro eretto a difesa della sua
onestà e si era lasciato andare al suo istinto senza freni morali e
sociali.
L’aveva rassicurata ipocritamente. Ed ella gli aveva risposto che si era
tolta un peso dal cuore.
A Natale gli era parsa sciupata, come se le sue forze le venissero a
mancare senza un perché, senza una causa apparente. Pure il suo sguardo,
così intelligente, era appannato da un velo di malinconia.
“E’ tempo che raduni i miei ricordi per portarli con me; tra poco
raggiungerò tuo nonno e, anche se soffro al pensiero di lasciare tutti
voi, sono estremamente felice di ricongiungermi a lui.”
“Sciocchezze, tu vivrai ancora a lungo per la nostra gioia e la nostra
consolazione”, aveva replicato Dario. In cuor suo, però, era preoccupato
che la vita della nonna fosse giunta al termine.
Vide che aveva preparato i gustosi dolcetti tipici del periodo natalizio
ed aveva allestito il presepe sempre uguale negli anni. Sempre uguale
perché la struttura su cui poggiavano la cartapesta e i pastori era la
stessa che aveva costruita il nonno e che ella custodiva con molta cura.
Consisteva in una piccola impalcatura di legno da cui si levavano le
montagne per le quali aveva adoperato i resti della bruciatura del
carbon-coke che davano l’ idea delle rocce porose e delle sfumature del
loro colore. Ai figli e ai nipoti era assegnato il compito di procurare
il muschio che si trovava nei boschi vicini. Quel tempo beato era
passato e così la sua fanciullezza ingenua e magica. Quanto era diverso
il presente e come lo angosciava il confronto! Era finito addirittura
sulla strada.
Non era raro che, trovandosi in via Laurentina con i suoi compagni strani
e balordi, venisse assalito dalla nostalgia; allora diventava più
sfrontato e cattivante, spinto dalla volontà di scacciare i pensieri che
lo riconducevano ad un passato che egli voleva piuttosto cancellare. Non
potevano trovare posto nelle sue ore traviate i volti onesti della
mamma, della nonna, della sorella, del padre e così via…
La nonna lo aveva salutato con queste parole:
“Tu sei un giovane bravo e assennato e non può accaderti nulla di
sconveniente o pericoloso. Ma sappi che l’attenzione non basta mai e
Roma è così grande e tante sono le tentazioni.”
Quindi, lo abbracciò forte, quasi volesse proteggerlo. Egli allora si era
sentito un ignobile bastardo.
I ricordi svanirono appena scese alla stazione di Sulmona.
Giunse a casa trafelato, ma la nonna era già morta. L’avevano sistemata in
una bara rivestita di drappi, grigi come i suoi capelli. Era diventata
piccola piccola e sembrava una bambina in una nuvola.
Dario pianse inconsolabile alla sua vista; poi, si accostò al padre e lo
baciò per mostrargli quanto gli fosse vicino. Donatella gli sussurrò che
la nonna lo aveva chiamato più volte prima di morire e questa
rivelazione lo rattristò profondamente. Si sedette insieme ai suoi per
ricevere le condoglianze. Fu allora che gli parve che alcuni compaesani
lo guardassero sospettosi e che dalle loro domande trapelasse una vaga
curiosità. Qualcuno sapeva e aveva riferito agli altri?
Giunsero numerosi compagni di scuola, tra i quali Riccardo che si era
fidanzato con Donatella, e Tommaso. Quest’ultimo gli si sedette accanto
e insieme ricordarono il giorno in cui erano andati dalla nonna che
offrì loro dei biscotti preparati da lei con la marmellata di fragole,
che era una delle tante sue specialità.
Il ricordo del colore rosso intenso della marmellata allontanò la sua
mente dal lutto e lo portò, in una sorta di gioco di abilità, ad
elencare le cose dello stesso colore. Tanti fiori: le fucsie, i gerani,
i gladioli, gli anemoni, le rose, le orchidee, i rododendri…I paramenti
sacri dei cardinali, i sipari dei teatri, le gualdrappe dei cavalli nei
tornei medioevali, le scarpe della pin up girl di una reclame di
coca-cola e poi…poi…
Inconsciamente era ricorso a quella strategia per estraniarsi
dall’atmosfera pesante che gravava nella stanza. Si sentiva soffocare.
Il rito funebre fu composto; i parenti erano addolorati, ma in essi non
era visibile lo strazio per una morte immatura o angosciosa: la nonna si
era spenta serenamente in tarda età e serenamente aveva vissuto gli
ultimi anni della sua vita. Alla comunione molti si misero in fila per
ricevere l’ostia benedetta, ma non Dario che rimase al suo posto. Non
poteva, era indegno. Pur consapevole delle sue colpe, si sentì
defraudato della consolazione e dell’intima gioia di poter ricevere la
comunione in suffragio dell’anima della nonna.
Don Carlo lo guardò intensamente. Perciò, alla fine della funzione,
s’allontanò immediatamente per paura che il parroco volesse parlargli.
La sua fu una vera e propria fuga, anche perché gli sembrò che molti si
interessassero con morbosità alla sua persona.
Il lutto durò tre giorni, durante i quali egli rimase quasi sempre nella
sua camera per sottrarsi ad ogni forma di indagine. A tutti disse che
stava preparando un esame della massima difficoltà: diritto
amministrativo.
Fu un sollievo salutare tutti e rimettersi in viaggio. Non volle che lo
accompagnasse il padre, ancora tanto provato per la morte della madre.
“Non è necessario. Hai bisogno di riposo e tranquillità. Ti prego di
riguardarti.”
Come risultarono false e spudorate queste parole ai suoi orecchi! Si era
abituato a far tacere la coscienza. Afferrò la valigia e si avviò di
corsa alla stazione.Una volta in treno tolse la maschera della sua
ipocrisia e cominciò a pensare alle sue bugie e alla sua perfetta
interpretazione di giovane impegnato e dabbene. Era ormai diventato
insensibile alla verità e alla rettitudine.
Ebbe ribrezzo di se stesso e cominciò ad elaborare un piano per rimuovere
da sé quel bubbone, quella cancrena che gli impediva di vivere una vita
degna. Che se anche la sua inclinazione era innaturale non era
giustificabile che egli si fosse lasciato andare alla perversione più
brutale. Al ritorno avrebbe evitato in tutti i modi le sue cattive
compagnie; si sarebbe dedicato solo allo studio senza concedersi alcuna
distrazione. Mai più…mai più…promise a se stesso; e in uno slancio di
ottimismo gli sembrò che sarebbe stato davvero facile liberarsi dai
legacci del male.
Ma, appena mise piede alla stazione di Roma, fu preso da una eccitazione
incontenibile.
Entrò in una cabina e telefonò alla Casa dello Studente, chiedendo di
Consalvo.
“Consalvo, sei tu? Sono tornato.”
“Bene. Ti aspetto.” E tutto ricominciò come prima.
Il primo duro colpo alla sua doppia vita lo ebbe quando, tornato a casa
per la S. Pasqua, fu assalito dal padre.
In paese conoscevano la bruttura della sua esistenza.
Si sentì per giorni un reietto, capace di orribili sconcezze, privato del
suo passato; con un futuro molto incerto. Non avrebbe visto più le
persone care; i luoghi della fanciullezza, dove aveva alimentato i suoi
sogni; i colori dell’alba e del tramonto del suo paese. Non avrebbe più
vissuto le atmosfere inconfondibili che precedevano le festività.
Ricordò il giorno in cui, era ancora molto piccolo, si spaventò alla vista
di una lucertola, lucida e verde come l’erba del prato a maggio, saltata
all’improvviso da un fosso. Era corso dalla madre in preda all’affanno
ed ella lo aveva stretto a sè. Rimpianse la dolce e avvolgente
sensazione di quell’abbraccio e fu preso dal desiderio di risentire il
calore del corpo della madre.
Aveva perduto la sua identità. Tutto. Non gli rimaneva che vivere come uno
smemorato che per un trauma subito ha dimenticato nome, legami, luoghi.
Era completamente e dolorosamente solo; non aveva nessuno a cui
confidare la sua pena.
Prigioniero del suo inconfessabile segreto, viveva nel timore che qualcuno
nell’ambito dell’Università o della Casa dello Studente, potesse
scoprirlo, e cercava di escogitare ogni mezzo per allontanare dubbi e
sospetti. Era rimasto chiuso in camera per alcuni giorni quando, una
sera, sentì bussare alla porta. Era Consalvo.
“Come mai non ti si è visto questa settimana?”
Gli spiegò il perché. Anzi, illudendosi che Consalvo comprendesse il suo
profondo dispiacere, gli aprì il cuore; gli confessò quanto fosse forte
il legame con i suoi, specie con la madre e la sorella.
Il fatto che il padre lo avesse cacciato di casa lo tormentava e lo faceva
soffrire. Consalvo ascoltò, ma non si lasciò minimamente coinvolgere
dalle sue parole. Rimase impassibile per un po’; poi, senza un briciolo
di sensibilità, gli disse:
“Non puoi lasciarti andare a comportamenti di infantile debolezza. La vita
ha ben altre leggi; per alcuni esse sono davvero crudeli e impietose.
T’accorgerai tu stesso, ora che è chiusa la borsa di papà, come sia
difficile arrangiarsi da solo. Mirko era preoccupato di non vederti. A
proposito ti deve dei soldi. Anzi, è bene che te li anticipi io; questo
ti darà tranquillità.”
Gli mise sulla scrivania una certa somma e, senza aggiungere altro, andò
via.
Fu colpito dalla durezza di Consalvo. Pensò che non doveva essere stato
sempre così. Il riferimento alle dure leggi della vita lo portava a
credere che avesse assai sofferto. Egli, in realtà, sapeva di lui molto
poco. Provò per lui la stessa pietà che provava per se stesso: li univa
un destino avverso, che li escludeva dal naturale percorso
dell’esistenza.
A novembre, quando il vento soffia forte, forma dei mulinelli con un
vortice al centro, intorno al quale, disposte in circolo, ruotano le
foglie cadute dagli alberi. Si dice siano le anime dei morti ai quali
mancano le preghiere dei vivi. Quando qualcuna tenta di uscire, viene
ostacolata dalla violenza del vortice. Lui e Consalvo era prigionieri
della stessa rapina.
Insieme alla pietà provò per lui uno sdegno rancoroso; non gli perdonava
di trattarlo con protervia; con la certezza che egli non si sarebbe
ribellato alle sue decisioni o che non avrebbe avuto il coraggio di
farlo. D’altronde aveva ragione; egli, ormai, sentiva di essere nelle
sue mani. Non si era mai opposto alla sua volontà, né si era rifiutato
di seguirlo. Anche ora quel denaro sulla scrivania era un’offesa, oltre
che una tentazione. Era il prezzo della sua debolezza; della sua viltà;
del suo male oscuro. Si sentiva in balia del caso e di Consalvo.
Era in preda ad una forte agitazione, e si sforzò di calmarsi. Restituire
i soldi con quel poco di dignità che gli era rimasta e dire a Mirko e a
Consalvo che mai li avrebbe accettati; o, piuttosto, guidato da un
opportuno realismo, prenderli pensando che gli sarebbe venuto a mancare
l’aiuto economico del padre? Alla fine pensò che era conveniente
aspettare prima di decidere. Nelle condizioni in cui si trovava non
poteva permettersi il lusso di dare alcuna scadenza ai suoi progetti.
Il futuro per lui era senza certezze. Non gli rimaneva che vivere l’ora
presente.
Conservò il denaro e riprese a studiare con accanimento insolito. Forse la
laurea era la sua unica ancora di salvezza; l’unico appiglio per non
cadere in una vita persa; per riconquistare la fiducia nella sua
volontà; per non morire di crepacuore.
*
Un mattino in cui in corsia regnava un silenzio insolito, andò a trovarlo
la madre accompagnata dalla sorella. La vide curva e smagrita. Non
s’aspettava la sua visita e provò una fitta al cuore malato.
“Dario, la tua pena ed ora la tua infermità mi hanno tolto il sole. Vivo
in balia delle ore da quando non sei più in casa con noi. Esco soltanto
per andare a messa: a quella del mattino, dove incontro poche vecchiette
e il parroco. Le altre sono frequentate da numerose mie amiche ed io
voglio evitare la loro malsana curiosità.
Sei così giovane, eppure sembri un uomo che ha vissuto a lungo; e non
tanto nell’aspetto fisico, quanto nello sguardo così lontano; senza
speranza. Il tuo animo, che prima era teso all’ardimento; alle vittorie
che avrebbero segnato la tua vita, ora è come oscurato. Io…”
“Mamma, ti prego, non così. Ho bisogno che tu mi rincuori parlandomi della
musica che amavamo ascoltare; delle ricette che trasformavi nella
tecnica della preparazione aggiungendo nuovi ingredienti; della tua
passione per il punto gobelin per cui avevi riempito di centri e
quadretti tutte le stanze. Ho bisogno che tu mi faccia risentire gli
odori della nostra casa; di rivederne i colori; riascoltare le parole
amate prima della mia disavventura.”
Donatella era uscita dalla camera per sfuggire al commovente colloquio tra
la madre e il fratello. Aveva un grande desiderio di piangere. Spesso si
era chiesta quando sarebbe finita quella storia così angosciosa. Ella
aveva cercato in tutti i modi di parlare al padre della infelicità di
Dario, così solo, lontano dagli affetti; ma il padre era rimasto sordo
ai suoi appelli; né pensava di riannodare i rapporti col figlio.
Non aveva accettato la sua diversità; più di tutto, non gli aveva
perdonato la colpa di aver ceduto al male. Non aveva voluto considerarlo
vittima incolpevole di un destino amaro che gli negava le gioie più
semplici. Chiedeva di lui, del suo lavoro, della sua salute, ma nulla
più. Forse, in fondo al cuore egli custodiva il segreto desiderio di
rivederlo; di parlargli, ma non lo aveva mai rivelato, perché gli
sarebbe parso di tradire i suoi principi e la sua dignità.
Donatella fu assalita dal pensiero dell’evenienza dolorosa che il fratello
fosse morto durante il trapianto o, addirittura, non si fosse svegliato
dalla anestesia senza avere la coscienza del distacco. Ella avrebbe
sofferto moltissimo. No, non poteva e non voleva perderlo.
Aveva sempre amato e stimato il fratello. Gli era molto affezionata e gli
era rimasta vicina, anche se talvolta in lei si insinuava un certo
disagio nel pensare alle sue oscure tendenze. Lo amava perché era stato
ed era sempre pronto a soccorrerla col suo consiglio; a proteggerla; ad
aiutarla comunque e dovunque. Era solito dirle:
“ Tu e la mamma siete i doni più belli che la vita mi ha dato. Il ricordo
della vostra dolcezza e della vostra ingenuità mi aiuta a superare tanti
momenti difficili.”
Il giorno del suo matrimonio con Riccardo, l’assenza di Dario velò di
tristezza tutta la cerimonia, che i suoi genitori avevano voluto molto
semplice. Solo i parenti e pochissimi amici fidati.
Gli aveva, in seguito, portato le fotografie.
Vide l’infermiera che cominciava il giro col carrello dei medicinali e si
affrettò a rientrare nella stanza poiché era l’ora di andare via.
“ Dobbiamo lasciarti. Ritorneremo.”
“Vi sono grato della visita. Mamma, riguardati. Porta i miei saluti a
papà. Non so se li accetterà.”
“Dario, ascolta…”
“No, mamma. Io lo capisco. L’ ho deluso, ho distrutto i sogni che nutriva
per il figlio che portava il nome di suo padre… che avrebbe dovuto
continuare il buon nome della famiglia. Il figlio che era il suo
orgoglio.”
Entrò Gabriella.
Uscirono, dopo averlo baciato.
Dario aveva il cuore gonfio di pianto e tirò un lungo sospiro. Si sentì
quasi sollevato perché non avrebbe sopportato più a lungo lo strazio
della visione della madre così afflitta.
“Sua madre ha il volto della bontà e della gentilezza delle persone di una
volta. Prima si coltivavano l’amore e l’altruismo; oggi è diverso, si è
sopraffatti dall’egoismo e dalla smania del successo.
Le ho sostituito la flebo e preparato le medicine che dovrà assumere prima
di pranzo. Si ricordi. A proposito, a che ora vuole pranzare?”
“Gabriella, la prego, non prima delle tredici.”
“Sarà fatto. Si riposi un po’; ne ha bisogno.”
Tornata a casa, la madre trovò che il marito stava leggendo il racconto”Le
lenti d’oro” dalle” Storie ferraresi”di Giorgio Bassani.
Negli ultimi tempi meticolosamente sceglieva letture che trattassero casi
ambigui, risvolti morbosi per capire, per spiegare a se stesso perché il
figlio era così; se era nato o era diventato. A volte incolpava il suo
sperma difettoso; perciò, sua era la responsabilità di ciò che era
accaduto. E si impose di non toccare più la sua Matilde, la sposa
adorata, verso la quale nutriva ancora un forte attaccamento. Avrebbe
così espiato la sua colpa: quella, cioè, di aver trasmesso un seme
marcio.
Poggiando il cappellino sul mobile dell’entrata, Matilde gli disse:
“Dario cerca di farsi forza. Ti manda i suoi saluti. Speriamo che l’attesa
del trapianto finisca presto; altrimenti, temo che si logorino le ultime
risorse che ha.”
Alberto le rispose che la vedeva stanca. Non poteva permettersi certe
fatiche; avrebbe dovuto pensare un po’ più a sé.
Matilde aggiunse con una certa veemenza:
“E’ mio figlio, non dimenticarlo; darei la vita per vederlo sano e felice.
Io non so come tu possa non desiderare di riabbracciarlo. Fa una gran
pena! Non sei generoso; sei troppo inflessibile e pieno di te.”
“Taci, come puoi attribuirmi simili sentimenti? In questo stesso istante
vorrei averlo vicino e confortarlo e dargli coraggio e stringerlo a me.
Sono anni, ormai, che non so più cosa significhi essere spensierato.
Durante le mie notti insonni sensazioni di varia natura mi tormentano.
Non è vero che tengo conto solo della mia immagine, della nostra
immagine e non penso alla dolorosa esperienza di Dario. Domande
ricorrenti mi assillano: è nato così o è un vizio, una perversione? E se
fosse stata una sua scelta e non una maledizione subita? Poi, mi ricordo
il suo inganno pietoso, e allora mi convinco che è vera la seconda
ipotesi. Comunque, hai ragione tu: forse sono un imperdonabile egoista.
Ho rifiutato nostro figlio perché non ho accettato la mia e la sua
sconfitta. Dimmi cosa ti ha detto.”
“Ti ha mandato i suoi saluti. E’ sconsolato all’idea della delusione che
ti ha dato. Perdonalo. La tua visita farà bene ad entrambi: a te
scioglierà il groppo che hai in gola e nel cuore; a lui infonderà la
forza di cui ha bisogno per superare le tremende ore che lo aspettano.
Ti prego, va’ a trovarlo.”
Il marito non le rispose. Pur colpito dalla accorata invocazione della
moglie, non si sentiva in grado di decidere. Era confuso, in preda ai
sentimenti più disparati: sconforto, indignazione per l’accanirsi di un
destino di sofferenza contro la sua famiglia; pena per la sua inutilità.
Si sentiva, infatti, impotente: non era riuscito ad affrontare una
situazione che ora si avviava fatalmente alla conclusione imprevedibile.
Dario sarebbe morto e avrebbe finito di patire; o sarebbe sopravvissuto
al trapianto e avrebbe continuato una esistenza faticosa, ai margini
della società?
Si chiese cosa desiderasse davvero per lui.
Si ritirò soprappensiero nel suo studio. Un’onda di commozione lo prese.
Avrebbe voluto averlo accanto per confidargli ciò che lo assillava e
manifestargli tutto lo strazio che provava.
Passarono giorni di attesa: sembrava che le ore si fossero fermate tanto
scorrevano lentamente. In casa regnava un silenzio pesante, gravoso,
senza un suono o una voce che lo interrompesse.
A renderlo ancora più triste era la pioggia che cadeva incessantemente,
con brevi pause. Si sentiva solo il bisbiglio di Matilde che recitava
sommessamente il rosario facendo scorrere tra le dita i grani della
corona. A volte anche Alberto, stanco della sua solitudine, si univa a
lei e rispondeva meccanicamente alle Ave Marie. Nutriva una profonda
pietà per quella donna che non si arrendeva e pregava…pregava per ore
perché il figlio sfortunato fosse restituito al sole e alla luce dopo
tante tenebre.
*
Dario riprese con la memoria a ricostruire il suo passato dal giorno in
cui Consalvo gli lasciò il danaro sulla scrivania ingombra di libri e
fogli.
Di tanto in tanto lo guardava. Non lo aveva rifiutato, ma in cuor suo non
si sentiva di accettarlo; ne aveva vergogna, ma pensava che gli avrebbe
potuto far comodo. Tutta la notte si rigirò nel letto senza dormire. Non
trovava conforto o risoluzione che lo aiutasse a superare la sua
condizione disperata.
Si alzò cupo e con l’animo devastato da sensi di colpa e dal rimorso.
D’improvviso si ricordò di avere l’appuntamento con il relatore della
tesi. Doveva fare in fretta. Si vestì velocemente e uscì.
“Ottimo lavoro, Corsini; procede, però, molto a rilento. Se continua con
questo ritmo non potrà laurearsi a giugno.”
“Professore, la ringrazio per il giudizio e per la sollecitazione. E’ che
le ricerche in biblioteca mi portano via molto tempo Ma ho tutto
l’interesse a proseguire con maggiore alacrità. Il fatto che ella mi
dica che la prima parte della tesi va bene mi conforta a continuare
speditamente. Mi fissi il giorno del prossimo appuntamento e non la
deluderò.”
“La rivedrò il prossimo quindici maggio. Ella, però, mi faccia pervenire
in tempo i capitoli successivi, in modo che io possa leggerli prima
dell’incontro. Arrivederci.”
Dario provò orgoglio e soddisfazione. Si sentì spronato ad impegnarsi con
tutte le forze per riuscire a laurearsi nella sessione estiva. In fondo
gli mancavano un solo esame e la discussione della tesi.
Tornato a casa, organizzò il lavoro. Liberò la scrivania dai libri e dalle
carte che non servivano più ed elaborò uno schema con orari e scadenze,
quasi un piano logistico. Una benefica lena lo prese e per alcuni giorni
dimenticò la realtà della sua infamia, dedicandosi allo svolgimento
della tesi che affrontava un argomento di grande interesse nel campo
amministrativo.
Una sera, era piuttosto tardi, Consalvo bussò alla porta:
“In che stato sei! Cosa ti è successo?”
“Lasciami in pace. Sono completamente annullato dalle circostanze. Il
professore con cui discuterò la tesi mi ha detto che, se non gli
consegnerò la seconda parte a metà maggio, non darà il consenso per
farmi laureare a luglio.”
“Bell’impiccio. Ci tieni molto a laurearti nella sessione estiva?”
“E’ questione di vita o di morte. Per la mia salute, per la mia
sopravvivenza.”
“Quand’è così dirò agli altri che per un po’ non ti disturbino.”
Per la prima volta Consalvo parlò senza arroganza; col tono pacato di chi
comprende le ragioni dell’altro e le condivide. Era come se si fosse
convinto che non era più necessario tenere un comportamento duro e
inflessibile nei riguardi di Dario.
Aveva imparato ad apprezzare la sua superiorità intellettuale; il suo
valore e la costanza nel perseguire uno scopo. Gli studi universitari lo
avevano aiutato a non cadere nel fondo del baratro senza rimedio. E
c’era anche la possibilità che si salvasse. A lui non era capitato.
Tutt’altro. A settembre avrebbe dovuto lasciare la Casa dello Studente
poiché non aveva dato nessun esame e non era riuscito a trovare altre
scappatoie. Si era iscritto a veterinaria con le migliori intenzioni,
poi, le maledette perfide inclinazioni cui non aveva saputo(o voluto?)
porre riparo…
Dario gli disse:
“Non so dirti quanto ti sia grato. Sai, voglio ottemperare all’impegno che
mi sono prefisso perché non perda completamente il rispetto per me
stesso.”
“Ti invidio. Tu sei fortunato, perché puoi contare su qualcosa che ti
offrirà delle opportunità in futuro. Io, invece, sono soltanto un ramo
marcio che mi auguro si stacchi quanto prima dal tronco e inaridisca
senza più linfa vitale. Salvati, Dario, tu puoi e devi farcela anche per
me. Io non ho scampo, né più risorse spirituali; avverto soltanto una
nausea profonda che talvolta mi toglie il respiro.”
“Ti prego, Consalvo, non angustiarmi oltre. Dammi un po’ di tempo e, poi,
riprenderemo insieme le fila spezzate delle nostre vite. Chissà… Mi
viene un’idea: perché non partecipi con me al frenetico ritmo del lavoro
finale; per esempio, potrai addirittura aiutarmi ad impaginare o a fare
le ultime ricerche; vuoi?”
“Ci penserò, per ora ti ringrazio: sei un amico. Sappi che spesso mi pento
di averti coinvolto nella spirale della mia perfida avventura; talvolta,
invece penso che almeno tra noi è nato un forte senso di protezione
vicendevole. Ti saluto e ti auguro che si realizzino le tue aspettative.
Io vado dove tu sai; le ombre della notte e dell’inganno mi aspettano.”
I giorni si susseguirono intensi ed uguali. Dario si alzava e si sedeva
alla scrivania a scrivere e a leggere testi antichi di diritto. Non si
stancava mai di cercare, di dubitare, di limare. Usciva solo quand’era
necessario o per fare un salto in biblioteca. Era, però, soddisfatto di
come procedeva il lavoro.
Talvolta si chiedeva con apprensione cosa sarebbe successo, una volta
conclusa quella parentesi febbrile. Temeva che tutto sarebbe tornato
come prima e la piovra della dissolutezza lo avrebbe riavvolto nei suoi
tentacoli.
Due circostanze favorevoli lo aiutarono a sperare che i suoi problemi
potessero avere una svolta. positiva.
Un mattino suonò il postino inaspettatamente. Era la raccomandata con il
vaglia che il padre gli inviava ogni mese. Si commosse, anche se era
insolitamente firmato “Alberto Corsini” e non come sempre”Con affetto.
Papà.”
Pur allontanandolo dalla sua vista, il padre non voleva fargli mancare il
suo aiuto economico affinché si laureasse e per evitare che, spinto dal
bisogno, cadesse sempre più in basso verso il degrado totale.
Strinse il vaglia sul petto e provò un senso di protezione. Non era solo:
i suoi genitori avevano ancora a cuore la sua vita.
“Devo salvarmi. Troppo li ho fatti soffrire.”
Immediatamente pensò che tramite Consalvo avrebbe restituito a Mirko il
danaro che gli aveva mandato.
Significava spezzare un legame; cancellare una piccola parte di vergogna e
confidare in un riscatto. Dissolvere l’affanno che lo tormentava. Si
vedeva sul bordo di uno strapiombo, spinto da due forze: una che lo
attirava verso l’interno, verso la salvezza; l’altra che lo spingeva
verso l’orrido, dove, stremato, preso da uno sfinimento incontrollabile,
precipitava e veniva sopraffatto dal buio e dal terrore. Veramente su di
lui incombeva un cielo scuro e minaccioso di tempesta senza spunti
d’azzurro?
Nel pomeriggio di quello stesso giorno una visita gli fece considerare che
una seconda lieta sorpresa attenuava il suo pessimismo e lo disponeva ad
augurarsi che le cose potessero cambiare.
Era venuto a trovarlo Tommaso, il suo compagno di classe che lo aveva
sempre difeso.
Tommaso, il suo vero e unico amico.
Parte III -
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