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DONNA ISABELLA GLINNI

- Romanzo -

Rachele Zaza Padula
 

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PARTE I

Nel salotto di casa Glinni Don Nicola era a colloquio con la nipote Isabella.
Era piovuto tutto il giorno e soltanto da un po’ le nuvole si erano diradate, facendo filtrare la luce rosseggiante del tramonto, che penetrava discreta e velata attraverso un’ampia finestra.
-Isabella, ti ho fatta venire per chiederti se mai conosci don Antonio Pipoli. Ieri, recatosi col padre nella nostra casa, ha rivelato di essersi invaghito di te e ha mostrato l’intenzione di frequentare la nostra famiglia in modo che tu possa apprezzarne le doti, se ne ha. Oppure rifiutare il suo disegno di innamorato, perché indegno. Voglio che tutto avvenga nel massimo rispetto reciproco perché, come tu sai, i Pipoli sono nostri amici. Ci uniscono forti e comuni legami di lingua, origini, religione, usi e costumi in onore ai nostri antenati che patirono le stesse privazioni dopo che furono costretti a lasciare l’Irlanda, il paese amato.
-A proposito, nonno, tante volte avete promesso che mi avreste narrato le vicende dei nostri avi e il loro arrivo ad Acerenza, ma sempre qualcosa ve lo ha impedito. Avete negato il racconto non solo a me, ma anche ai miei cugini. Forse solo zio Giuseppe, che gode della vostra considerazione per essere letterato e uomo di genio, ha il privilegio di conoscere la storia della nostra famiglia.
-Chi va in esilio sente di perdere l’ardire, l’orgoglio di razza e di casato, la propria identità, i ricordi, la rete degli affetti tessuti nel corso degli anni e indissolubili dai luoghi dove hanno avuto vita. Ahimè! Quale doloroso distacco! Quante sofferenze sopportarono i miei progenitori e, più di ogni altra, l’umiliazione del pellegrinaggio alla ricerca di un asilo!
Ma, non è questa l’ora e il luogo per questi discorsi. Non tergiversare, rispondi a ciò che ti ho chiesto e che mi sta molto a cuore.
-Segno di grande magnanimità da parte vostra è il chiedermi se mai gradisca ricevere le attenzioni del giovane Pipoli. Altri capifamiglia meno sensibili e più retrivi, in verità sono i più numerosi, non avrebbero chiesto il consenso in simile occasione. Vi sarò sempre grata per questo segno di stima e per l’apprezzabile disponibilità che vi rende ancor più degno di affetto. L’aspetto fiero di don Antonio Pipoli, i suoi occhi profondi, il suo profilo così ben disegnato mi hanno colpito; ma, benché io abbia l’età per passare a nozze, non penso ancora ad un futuro sposo. Temo, poi, che i miei progetti difficilmente potrebbero avere eco nei suoi e che difficilmente approverebbe il grande amore che nutro per la libertà contro i limiti, che qui in paese vengono imposti in nome di costumanze antiche, come scelte virtuose, e non sono che vincoli ipocriti e dannosi. Sono solo una ragazza; ma, devo confessarvelo, non sempre condivido l’esclusione di noi donne dall’impegno di pensiero.
-Che dici mai, Isabella! L’esempio di nonna Anna, di tua madre e di zia Caterina ti guidi a perseguire la strada che è segnata per le giovani donne.
-No, nonno. Voglio dirvi le idee che spesso agitano la mia mente e di riflesso il cuore. E’ bene che una sposa provveda alla casa, ai figli, si sacrifichi per accrescere il patrimonio familiare…ma non è persona senza emozioni e ardimenti propri.
-Certo ho sbagliato a concederti di rimanere a lungo nella biblioteca e di assistere alle lezioni che lo zio Filippo, il mio caro fratello arcidiacono, impartiva a Giuseppe. Oltre a questo, il tuo desiderio di scelte autonome, la tua forte aspirazione alla indipendenza ti derivano dalla discendenza celtica, visibile anche nella tua fulva capigliatura.
In quel momento, dopo aver bussato, entrò Carmelina, una giovane domestica che, ossequiosa, si rivolse a don Nicola.
-La cena è pronta, don Nicola. Donna Anna vi invita ad essere puntuali perché il parroco, vostro fratello don Canio, ha lasciato da poco la cattedrale e sta per arrivare. Lo ha riferito Carlino, il ragazzo che ci porta i funghi e le castagne.
Quindi, uscì soddisfatta per aver riportato l’invito della padrona senza essersi confusa e senza aver dimenticato qualcosa, come le capitava i primi giorni in cui era a servizio.
-Isabella, è necessario interrompere la nostra conversazione. Devo, però, prima dirti che oggi ho scoperto in te una donna sicura di sé, che, se da un lato mi rende orgoglioso, dall’altro mi preoccupa perché mi pare che né i tempi nè i luoghi ti possano assicurare la felicità cui aspiri. Sarà questo causa di contrasti e di dolore? Ma ora andiamo. Riprenderemo il nostro colloquio.
-Vi seguirò immediatamente, nonno. Vorrei riordinare un po’ la mia persona e il mio abito. Vi prego, però, aspettate a parlarne con i miei genitori. Potrebbero non comprendere le mie ragioni, in special modo mia madre, così diversa da me. Voglio prima confidarmi con lo zio Filippo e con la nonna.
Rimasta sola, pensò contrariata ”Forse ho tradito me stessa. D’altronde è da tempo che mi sento prigioniera del mio silenzio. Avverto profonda emozione solo quando sento parlare di cause giuste, di vittorie contro ingiustizie e soprusi, di eroi e nobili sacrifici. Godo nello stare sola a fantasticare. Immagino di essere una paladina, vestita di corazza ed elmo, come Clorinda, la giovane guerriera de La Gerusalemme liberata, il libro che lo zio Giuseppe da poco ha portato nella nostra biblioteca. Forse questo mio paese, così alto che sembra toccare il cielo, così verde e ricco di boschi, così simile al paesaggio irlandese che i miei avi ebbero caro e che furono costretti ad abbandonare…”
Bussarono alla porta. Era di nuovo Carmelina.
-Donna Isabella, vi attendono in sala. Don Nicola è arrivato.
- Carmelina, entra. Aiutami a riannodare la treccia sulla nuca.
-Oh!, siete così bella!
Isabella, rossa e trafelata, giunta nella sala da pranzo, si sedette al suo posto, alla sinistra dell’arcidiacono Filippo.
-Come mai la mia dolce Isabella ha tardato a raggiungerci? Di una cosa sono sicuro: non è stata né pigrizia né mancanza di riguardo per gli ospiti e la famiglia. Conosco molto bene la buona educazione e la gentilezza che ti distinguono. La foga insolita, gli occhi particolarmente luminosi mi fanno pensare che il tuo cuore è in tumulto per qualcosa che non riesco ad immaginare.
-Quanto vorrei confidarmi subito con voi! Non è, però, argomento da affrontare tra tanti commensali che spiano i nostri atteggiamenti e sono curiosi di sapere cosa diciamo. Domani ne parleremo in privato.
Donna Anna, rivolta a don Canio con grande deferenza gli disse:
-Vi ringraziamo per essere sempre con noi per la cena, è apprezzabile che riusciate a conciliare i vostri impegni pastorali con quelli della famiglia. La vostra presenza e i vostri discorsi sono un bene per tutti noi. E, poi, la benedizione che fate della nostra tavola, diversa e ogni volta più suggestiva, ci commuove.
Ella che era la padrona di casa seguiva attentamente lo svolgersi della cena. Voleva che tutto procedesse secondo l’ordine predisposto già dal mattino quando in cucina, circondata dalla servitù, era solita stabilire le pietanze per la sera cercando di accontentare i gusti di tutti, dal più anziano al più piccolo della sua numerosa famiglia. In casa Glinni si era soliti riunirsi la sera; a mezzogiorno si consumava una semplice colazione, d’estate al fresco nel giardino, d’inverno intorno al fuoco del camino: pane con formaggio morbido o stagionato, con salsiccia o uova lesse e insalata di patate o di pomodori col basilico profumato; anche i peperoni erano graditi, quelli seccati al sole, messi in filari sui balconi e sulle verande o anche freschi di orto. Questa usanza permetteva a tutti di non interrompere per lungo tempo la propria occupazione e, poi, si era imposta di necessità perché don Nicola quasi mai rincasava prima del pomeriggio inoltrato.

*

Donna Anna conservava il fascino discreto di chi non si concede mai completamente agli altri, ma custodisce inviolata una parte di sé. Gli occhi di un blu intenso e la bocca, sempre atteggiata ad un sorriso indulgente e sereno, trasmettevano un senso di pace e di benessere. Il fisico, pur provato dalle tante gravidanze e dai parti, aveva dato alla luce ben sedici figli!, conservava ancora una eleganza sua propria, sia nell’andatura che nei gesti controllati e pacati. Aveva diciassette anni quando il padre le presentò il suo futuro sposo, don Nicola Glinni, benestante, di famiglia nobile, più grande di lei di dodici anni, che- a suo dire- era rimasto folgorato dalla bellezza della fanciulla in chiesa, nel giorno del Corpus Domini. Erano seguiti i capitoli matrimoniali, veri e propri contratti, in cui i rispettivi genitori rendevano nota la dote di cui ciascuno dei promessi disponeva.
A Nicola erano state date cospicue sostanze affinché” in ogni tempo potesse vivere comodamente e con suo decoro con la sua famiglia ed un quarto del palazzo paterno, e propriamente le quattro stanze lamiate coi relativi sottani dove alloggiare”.
Alla sposa, oltre ai beni che le spettavano legittimamente da parte di padre e di madre, toccava
“ la somma di 600 ducati, da pagare in contanti 200 ducati in atto dell’affido, cioè otto giorni prima di sposare, e gli altri 400 promette il padre dotante pagarli in quattro anni cominciando il primo pagamento di 100 ducati il mese di agosto dell’anno successivo al matrimonio.
In più il dotante promette un letto consistente con quattro materassi nuovi, due pieni di lana e due di stoppiglio, sei lenzuola, quattro di tela bombace e due di orletto, due coverte, una nuova e l’altra novigna, quattro cuscini pieni di lana con sopraveste di orletto con pizzili, una tovaglia come s’usa in tempo di battesimo, un vestito con sottanino e un bustino guarnito, venti camicie, sei paia di calzette di tela nuova e in quanto all’oro promette un paio di orecchini di oro con pietre di rubino e un anello colle medesime pietre e diamantini, un paio di fioccaglie, un filo di oro ed un paio di fibbie d’argento per uso di scarpe e la sposa come si troverà vestita”.
Si erano sposati a un anno dalla richiesta ed Anna aveva affrontato il matrimonio senza conoscenza d’uomo. La madre le aveva insegnato che agli uomini non bisognava concedere nulla se non dopo il matrimonio, neppure un pensiero, tanto meno un desiderio. L’amore era fantasia di poeti e di gente sfrenata, senza morale né cervello. D’altro canto, quando si trovava con le amiche nel convento, all’ora del ricamo, le sentiva confabulare in altri termini dell’incontro amoroso e dell’attrazione antica dell’uomo per la donna e viceversa. Da questi contrastanti giudizi era sorta in lei una grande curiosità, che non aveva mai cercato di appagare con domande all’una o all’altra parte ”Tanto- pensava- prima o poi scoprirò da sola come stanno le cose, quando prenderò marito”.
La prima notte s’era sentita violata nella sua intimità e si era sorpresa di come Nicola fosse cambiato nell’arco di poche ore: così quieto e rispettoso fino all’arrivo nella loro casa di campagna dove avevano preparato il letto agli sposi; poi, eccitato, scatenato nella fatica del primo rapporto. Da allora mai più aveva dormito sola e senza l’assalto del marito, amante insaziabile. Qualche volta aveva pianto al ricordo dell’innocenza perduta e delle ore tranquille trascorse nella sua casa paterna. Però, dopo il primo figlio, fu grata al marito per il dono della maternità. Desiderò, così, anch’ella l’amore coniugale, non per il piacere personale, ma per i frutti che esso dava. Per questo la sera aspettava con ansia di ritirarsi nella camera da letto dove Nicola l’avrebbe presa ancora una volta con il solito ardore. L’indomani, poi, una strana luce brillava nei suoi occhi, come d’attesa. Il suo orgoglio materno era trasparente e costituiva la sua attrazione.
Era una creatura d’amabile naturalezza in tutto ciò che faceva. Era andata a vivere in casa Glinni con il suocero, la cui moglie era morta anni prima, e i suoi cognati: il canonico don Canio e l’arcidiacono Filippo. Quest’ultimo risultò prezioso perché si dedicò con zelo e affetto indescrivibili all’educazione dei suoi figli ed in seguito a quella dei figli dei suoi primi due figli Canio e Filippo, chiamati così proprio in onore dei fratelli del padre. Il primo si era accasato con donna Caterina Panaro; il secondo con donna Lucia Salicone. I suoi pupilli, però, erano Giuseppe, figlio di Nicola, e Isabella, figlia di Filippo. Isabella e la sorella Marianna, fin da piccole, erano vissute con i nonni per il fatto che il padre e la madre, impegnati a curare gli affari di famiglia a Napoli, non potevano prendersi cura di loro. Quando, trascorsi alcuni anni, vollero che li raggiungessero, Isabella, al contrario di Marianna, decise di rimanere ad Acerenza; aveva la sensazione che altrove non avrebbe saputo vivere, ormai si sentiva parte integrante della grande casa di nonno Nicola. Le sarebbero mancati gli odori, i sapori, le abitudini e gli zii, i cugini così numerosi e chiassosi, i nonni, che l’avevano vista crescere e l’avevano guidata ad essere quella che era, la cattedrale così vicina al loro palazzo che sembrava trasmettesse ad esso la sua sacralità.
La sua scelta le parve inevitabile, dal momento che tra lei e la madre era subentrato un senso di estraneità che la addolorava; dovuto, oltre che alla lontananza, al carattere di donna Lucia, poco espansivo e molto pratico, che portava Isabella a credere che ella non si chiedeva se la figlia soffrisse. Forse, le sembrava naturale che le cose andassero così. La casa di Napoli e gli interessi comuni che il marito curava dovevano apparirle tutt’uno con la grande famiglia di Acerenza, dalla quale si sentiva lontana solo fisicamente e per necessità.
Donna Anna, talvolta, pensava che l’arcidiacono avesse rinunziato ad una famiglia propria per aiutare Nicola a crescere la sua; a suo parere, il fratello era stato troppo leggero, quasi irresponsabile nel mettere al mondo tante creature. Pensava, anche, che forse per questo la guardava con tenerezza, quasi a proteggerla. Era sempre disposto ad alleviarla di qualche fatica o preoccupazione e, certamente, compensava l’assenza di Nicola, che, così preso dalla conduzione dei terreni, affidava a lei l’andamento della casa per tutto quanto necessitava. Negli anni il consiglio e l’appoggio spirituale, morale e materiale dell’arcidiacono le erano diventati indispensabili.

*

-Ho sentito- disse don Nicola- che il nostro diletto arcivescovo non sta bene ed è costretto a letto da un male che i medici non riescono a diagnosticare.
-E’ da quindici giorni- rispose don Canio- che una febbre di ignota natura affligge il nostro Monsignore. A nulla sono valsi suffumigi, cataplasmi, l’applicazione delle sanguisughe per arrecargli sollievo. Oggi sono giunti due medici da Potenza per un consulto; speriamo che il Signore illumini le loro menti, sì che possano individuare il male e trovare il rimedio.
-Io credo – intervenne don Filippo- che i rigori di questo inverno così lungo lo abbiano debilitato. Ed ancora siamo a mezza Quaresima e marzo nulla promette di buono. Ieri una tormenta di acqua, grandine e vento ha riversato la sua furia in paese e nella vallata.
Don Canio, caro fratello, cosa sapete di alcuni focolai di ribellione contro lo Stato e la Chiesa?
- E’ una follia pensare di sovvertire il potere precostituito. Non vedo come manipoli di sbandati e briganti possano ardire di opporsi ad eserciti organizzati e numerosi.
-Voi non credete, allora, nella forza delle idee e non credete che ci debba essere più giustizia per tutti? Voi chiamate sbandati e briganti uomini, lasciati nell’ignoranza, ma che sentono il bisogno di una vita più dignitosa ed accolgono l’appello di pochi intellettuali che predicano l’uguaglianza e la fraternità tra i popoli.
-Caro Filippo, io non sono che un parroco di un paese sperduto in cima ad un monte, noto solo per la bella cattedrale fatta costruire come rifugio per monaci e preti perseguitati, e non mi sento di entrare nel gioco degli eventi che oggi si stanno snodando pericolosamente. Sono una pedina troppo debole e inconsapevole. Mi basta pensare al gregge di anime che mi è stato affidato. E’ gente semplice che ha fiducia che io possa risolvere i loro dubbi di coscienza, che solo io possa tranquillizzare il loro spirito. Già questo per me è un impegno gravoso; il mio ministero che sembra così facile, invece, spesso mi sconvolge e rapina la mia quiete. Non mi resta molto tempo per pensare ad altro.
Don Nicola, che aveva taciuto, interferì quasi per porre fine ad una pericolosa discussione.
-Io sono per una vita laboriosa e tranquilla. Ho dedicato le mie giornate agli impegni che mi vengono dal patrimonio e dalla famiglia e non mi sono lasciato prendere da infondate o impossibili aspirazioni e ideali in contrasto con la realtà. Voi, invece, Filippo, avete amato più i libri che la terra, più i sogni che la vita quotidiana, più lo spirito della materia, più un mondo di perfezione sociale e politica che gli attuali governi, tanto che avete rinunziato a formarvi una famiglia vostra.
-Questa non mi è mancata perché la vostra, caro Nicola, è la mia e i vostri figli, così numerosi, mi sono cari come fossero miei. Essi hanno riempito la mia vita e nulla mi è costato dedicarmi alla loro educazione e alla loro istruzione. Mi hanno abbondantemente compensato con il loro affetto e con le soddisfazioni che ne ho ricavato.
Don Nicola assentiva con il capo, poi, disse:
-Lo so. Ve ne rendo merito e ho in grande considerazione il bene che provate per tutti noi.
S’era fatto tardi e, dopo essersi augurato a vicenda un tranquillo riposo, ognuno raggiunse la propria camera. Solo don Nicola e l’arcidiacono si attardarono lungo le scale che portavano alla zona notte, perché don Nicola aveva fatto cenno a don Filippo di fermarsi.
-Voglio confidarvi la mia preoccupazione per Isabella. E’ diversa dalle altre donne di casa, che accettano di buon grado consigli e avvertimenti. Non si ribella, ma rifugge dagli obblighi sociali, che ritiene inutili e sostanzialmente ipocriti…
-Isabella è creatura speciale. - disse don Filippo- E’ dotata di una forte energia morale che la anima e la rende così sollecita al bene degli altri, inteso non solo come sostegno materiale, ma come guida e assistenza spirituale. E’ convinta, e per questo ha tutta la mia considerazione, che la vita vada vissuta per nobili cause; altrimenti è una vita perduta, senza significato. Bisogna farle comprendere che il suo progetto non è contrario alla vita matrimoniale, esso può realizzarsi senza che rinunzi a divenire sposa e madre, che sono le vocazioni naturali per ogni fanciulla.
- E’ così simile a Giuseppe. Stento a capire anche lui; è vanto per la nostra casa e mi rende oltremodo orgoglioso, ma mi è sempre mancato perché, così assorto nei suoi studi, si è dimostrato estraneo alle mie inclinazioni. Un po’ come voi, Filippo; io vi ho sempre ammirato, ma non ho compreso i vostri interessi quasi esclusivamente culturali… Mi aiuterete con Isabella? Vi vuole molto bene e forse è più legata a voi che a me. Oggi le ho parlato dei sentimenti che il giovane Pipoli nutre per lei e, invece di riscontrare in lei entusiasmo e piacere, fosse anche dissimulato per timidezza alla mia presenza, sono rimasto sconcertato da alcune sue affermazioni. Mi sento responsabile poiché i suoi genitori, ai quali, come sapete, abbiamo affidato l’amministrazione di alcuni beni di famiglia, sono lontani da Acerenza. Domani discuterò ancora con lei .
“Ecco il segreto di Isabella!”-pensò don Filippo-. Ebbe un attimo di perplessità, poi, con immediatezza, decise il da farsi e assicurò al fratello tutto il suo appoggio, anzi, gli consigliò di non riprendere quell’argomento con la nipote prima che le avesse parlato lui. Quindi, anch’essi si ritirarono.

*

Don Nicola, dopo un sonno agitato e interrotto da visioni strane e poco rassicuranti, si svegliò nel cuore della notte e decise di alzarsi e spostarsi nell’anticamera per evitare che Anna sentisse i suoi passi e il suo respiro affannoso. Provava un profondo senso di colpa: gli sembrava di aver troppo amato la moglie e di aver trascurato la famiglia che tutt’a un tratto gli pareva di non conoscere veramente. Isabella, la nipote che era cresciuta in casa al pari di una figlia, era ormai una giovane risoluta e audace, non più una bambina; questa scoperta lo aveva scosso e lo spinse a fare, certamente per la prima volta, un’analisi della sua vita, così abitudinaria, con le ore e i giorni scanditi dalle stesse occupazioni, dagli stessi appuntamenti. Di buon mattino usciva; incontrava i massari e con loro visitava i campi, ora l’uno ora l’altro, soffermandosi a vigilare che i vari lavori stagionali fossero eseguiti con criterio e puntualmente. La sera, stanco, dopo aver cenato, trovava riposo e appagamento tra le braccia della sua Anna. La sua era una passione che durava tale e quale dalla prima notte trascorsa in una grande camera con due balconi che davano su di un giardino profumatissimo, che prima non gli era familiare, poi, gli era diventata cara di ricordi. Anna, allora, aveva un fascino sottile, ingenuo e nello stesso tempo inquietante. Durante tutto il viaggio in carrozza da Acerenza fino a Tolve, attraverso stradine tortuose e polverose, l’aveva guardata di fronte a sé, così sicura e soddisfatta di essere la signora Glinni e di essere entrata a far parte di una famiglia di nobiltà terriera, rispettata e temuta dalla numerosa servitù. Non avrebbe potuto desiderare di più: vittoria della sua bellezza, ma anche della sua volontà; lo aveva irretito, domato, innamorato con una tenacia che non traspariva dai suoi occhi azzurri, dalle sue labbra increspate in un sorriso indecifrabile e dalle sue mani delicate, affusolate, sempre bianchissime.
Don Nicola sorrise al pensiero della moglie. Poi, si chiese se gli altri erano felici sotto il suo tetto, se lo era la stessa Anna, se ai suoi figli mancava qualcosa. Non lo aveva mai fatto perché aveva sempre pensato che l’assicurare alla sua famiglia il benessere economico bastasse. Fin da piccolo, aveva odiato le complicazioni ed era solito sorvolare sulle questioni che avrebbero potuto recargli fastidio o preoccupazione. Forse anche la presenza di Filippo, così bravo, così disponibile e solerte gli aveva consentito di sottrarsi alle sue responsabilità. O, forse, Filippo, conoscendolo a fondo, si era sacrificato per sopperire alle sue mancanze, specie nei confronti dei figli?
L’alba che stava spuntando lo trovò seduto sulla poltrona ad interrogarsi: provava vergogna della sua debolezza, della sua incapacità di andare alla radice dei problemi, da cui derivava anche il suo facile ottimismo. Scese nell’ampia cucina dove la fedele Nunzia stava preparando il caffè d’orzo; ne sorseggiò una tazza e, poi, risalì per prepararsi ed uscire. Certamente l’aria frizzante del mattino gli avrebbe suggerito una risoluzione; tutto sommato era un gran lavoratore, tutto casa e famiglia, senza vizi e idee strane per la testa. Prese il bastone e s’avviò alla carrozza.
-Buon giorno a Vossia -disse Tommaso, che lo stava aspettando già da un po’- c’è vento, ma il cielo si sta aprendo e forse oggi non ci sarà pioggia.
-Tommasino, andiamo a Tolve, nella casa di campagna. Bisogna vedere che danni ha prodotto l’inverno per porvi riparo. La Pasqua è vicina e come sempre tutta la famiglia si sposterà là per trascorrere le feste della Settimana Santa. Oggi, non voglio andare per campi; la potatura è quasi finita e per gli innesti ai peri e ai peschi ci penseremo domani con Giovanni.
Il movimento della carrozza, che di tanto in tanto sussultava per i dossi e le buche della strada, gli impedì di assopirsi e continuò ad essere preda dei suoi pensieri. Era di malumore; anche Tommaso se ne era accorto e si guardò bene dal parlargli. A mezza mattinata, però, come per incanto affiorò nella mente di don Nicola il pensiero risolutore ”Ma che sciocco! Mi sono fatto prendere dallo sconforto. Grazie a Dio c’è Filippo, il caro insostituibile Filippo. C’è lui per mia fortuna e per quella dei miei figli. Certamente è già all’opera. Come mi ha promesso iersera, parlerà prima lui ad Isabella, poi, sulla base di quanto mi dirà, mi confiderò con Anna e tutto si risolverà per il meglio”.
Una lena insolita lo prese, entrò nel casale, osservò i muri macchiati di umido, la cucina scura di fumo, i vetri e i pavimenti sporchi e stabilì che molte opere sarebbero occorse per rimettere in sesto la casa: prima di tutto una bella pulita e poi una imbiancatura generale, anche all’esterno. Quindi, seduto nell’androne, accettò di buon grado metà della colazione di Tommaso; quella mattina, infatti, era uscito soprappensiero e non s’era provveduto di nulla.

*

Intanto don Filippo, in piedi, vicino alla finestra della biblioteca per sfruttare meglio la luce, stava leggendo la prima lettera di San Paolo ai Corinzi, fermo alle parole ”…perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini”. Le parole del Santo lo avevano sempre aiutato a superare i momenti difficili della sua vita; da esse aveva tratto ispirazione e forza, da esse si era lasciato illuminare quando sembrava che non ci fosse alcuna via di uscita e da esse sempre la luce era esplosa.
La biblioteca di casa Glinni era ricchissima di volumi raccolti con amore e dedizione dallo stesso arcidiacono, noto per la sua vasta ed eclettica cultura, da don Giuseppe, esperto umanista e come tale attento al mondo classico, e da don Antonio, un altro dei tanti figli di don Nicola, appassionato delle scienze esatte, in special modo studioso di fisica.
Don Filippo era preoccupato e portava sul viso i segni di una notte insonne e piena di ansie. Tra poco avrebbe incontrato Isabella e questo gli faceva provare apprensione e un sottile senso di pena. La sua alta ed elegante figura era caratterizzata dalla magrezza, segno di una forte tensione intellettuale. Morigerato, attento, affettuoso, aveva un carisma suo proprio; non solo in famiglia si affidavano al suo consiglio, ma chiunque aveva la fortuna di conoscerlo teneva in gran conto il suo parere. Difficilmente aveva manifestato sentimenti ed affanni personali e la sua saggezza e la sua moderazione facevano pensare ai più che egli avesse raggiunto un invidiabile equilibrio e che, quindi, fosse una persona serena, in pace con se stessa. Ma se avessero spiato più attentamente il suo volto, avrebbero potuto cogliere nel suo sguardo un che di misterioso; momenti di esitazione, talvolta di dubbio, e le tracce di lotte non facili. Molte donne erano rimaste affascinate da lui e avrebbero voluto farlo capitolare, vederlo ai loro piedi, vinto e innamorato; tra esse la bella Agnese, una amabile fanciulla, una lontana cugina, che, poi, superata la delusione, si era sposata ed ora viveva a Napoli da dove di tanto in tanto mandava notizie di sé e della sua famiglia. Aveva aspettato degli anni, convinta che lui l’amasse e che era solo questione di tempo, alla fine, però, aveva rinunziato non senza rimpianto, portandosi nel cuore il dolore del distacco e la certezza che il suo impareggiabile cugino nascondeva un segreto.
Don Filippo sentì dei passi che si avvicinavano e, davvero immagine di mirabile leggiadria, comparve sulla porta Isabella in un delizioso abito di flanellina a disegno provenzale, con un’ampia gonna e col corpetto completato da un colletto bianco chiuso da un fiocco di raso blu, che richiamava il colore dei suoi occhi rendendoli, ancora più affascinanti.
-Zio Filippo, buongiorno. Ieri sera vi ho visto a colloquio con vostro fratello, mio nonno; vi ha parlato di me? Della richiesta di don Antonio Pipoli? Certamente lo conoscete. Egli vorrebbe diventare il mio promesso con l’intenzione di legare la sua vita alla mia, sempre che io e la famiglia accettiamo.
-So tutto. A mio parere, è un giovane serio e di bell’aspetto e appartiene ad una famiglia di comuni origini con la nostra e questo non è cosa da poco, perché significa uguali intenti, uguali usanze, che spesso sono alla base di un’unione bene assortita.
-Vi prego, credetemi sincera quando vi dico che mai disobbedirei al nonno. Troppo gli voglio bene. A differenza di mia sorella Marianna e delle mie coetanee che non desiderano altro che uno sposo che le ami e dia loro una casa, in cui esse si sentano signore e padrone, io mi auguro di incontrare un uomo che certamente mi ami, ma mi rispetti anche per quello che penso. Un uomo che si intrattenga a discorrere con me…L’uguaglianza, la fratellanza…
-Basta così, Isabella. Causa per me di grande turbamento non è la proposta di un innamorato rivolta ad una fanciulla che ha raggiunto l’età per maritarsi, quanto la passione che spesso leggo nei tuoi occhi e nelle tue parole per i sentimenti di riscatto che si insinuano nelle coscienze di chi odia i tiranni, che negano ai popoli i propri diritti naturali. Questi sentimenti, che certamente nobilitano chi li prova, sono più adatti ad essere coltivati dagli uomini e non da una giovane donna che dovrebbe sentirsi pronta a formarsi una famiglia, senza riserve, senza concessioni a metà. Devi leggere nel tuo animo per sapere cosa desideri veramente: il matrimonio, l’amore coniugale comportano sacrificio, dedizione, rinunce. Per la donna ancor più.
-Zio Filippo, voi stesso e lo zio Giuseppe avete inculcato in me l’idea che non è lodevole vivere senza partecipare alle ansie del proprio tempo. Io non voglio snaturarmi né voglio annullarmi per percorrere le strade della tradizione, del costume diffuso che assegna a noi ragazze percorsi già accettati dalle nostre ave, talvolta dolorosamente.
-Ma, Isabella!
-Io mi sento portata per qualcosa, che non so ben definire. So, però, con certezza che non posso ignorare questa mia condizione. Per don Antonio Pipoli nutro stima e affetto: è pieno di virtù e buone maniere; ma la sua presenza non mi innamora. Solo a voi, zio Filippo, mi riesce di aprire il cuore; dagli altri sarei certamente giudicata una giovane poco rispettosa e ribelle. Per me siete padre e consigliere, per carità, aiutatemi a capire e a placare questa mia passione.
-Che non è certo rivolta a don Antonio. Sei, quindi, orientata per un rifiuto?
-Sono molto combattuta. Il senso del dovere mi porta a controllare le mie emozioni più segrete, a pensare alla delusione e al rammarico dei nonni e dei miei genitori; nel resto della famiglia, poi, desterei meraviglia, sorpresa e apprensione.
-Ti invito ad essere serena nel prendere la tua decisione. Pensa alla tua felicità, pensa alla tua tranquillità interiore. Non farti guidare da false congetture e da suggestioni.
-Non riesco. Devo anche tenere in conto l’atteggiamento curioso degli amici, dei compaesani disposti più alla critica che alla comprensione di fronte a qualcosa di insolito, contrario alle usanze antiche. D’altro canto, proprio in considerazione di quanto avete detto poco fa, “ che il vincolo del matrimonio è sacro, che è giusto legarsi all’altro con il cuore sgombro da qualsivoglia ombra ” sono sicura che io mai ricorrerei all’inganno.
Alle ultime parole gli occhi della giovane si velarono di lacrime: era dolorosamente consapevole che la scelta che si apprestava a fare avrebbe fatto soffrire gli altri e se stessa. Entrò, intanto, Don Canio che, rivolgendosi a don Filippo, gli ricordò che i membri del Capitolo li aspettavano in cattedrale per la relazione sul bilancio dell’anno in corso. Poi, accortosi di aver interrotto un dialogo importante tra zio e nipote, aggiunse:
-Filippo, io mi avvio, voi raggiungetemi appena potete. Ti saluto, Isabella.
Isabella, che era rimasta di spalle alla finestra per nascondere la sua commozione allo zio canonico, si girò e con voce accorata disse all’arcidiacono:
-Vi affido la mia pena. Sono confusa e affaticata.
-Figliola mia, vedendoti in questo stato, comincio a dar corpo ai miei sospetti. Forse qualche altro nutre i tuoi pensieri e li infiamma, forse qualche altro occupa già il tuo cuore che, perciò, non è libero. E dal lampo che passa nei tuoi occhi ai nomi di libertà e di giustizia credo di aver riconosciuto chi ti ha conquistato con la forza delle idee e con l’audacia delle azioni. Come ho potuto trascurare tanti indizi, come ho potuto sottovalutare rossori ed emozioni evidenti?
-Ma zio, io…
-No, Isabella, ho bisogno di riflettere molto su quanto è emerso stamattina; voglio venire a capo della questione, intervenendo nel modo più opportuno. Non voglio che il mio consiglio sia frutto di un giudizio affrettato, di una scelta presa senza il dovuto accorgimento. Ora, io vado. Appena mi sarà possibile, tornerò. Gli eventi incalzano e tuo nonno, il mio diletto fratello Nicola, esigerà che tu al più presto gli dia una risposta riguardo alla richiesta del tuo pretendente. Che il Signore ci illumini su quanto sia conveniente fare.
Don Filippo uscì dalla biblioteca e lasciò Isabella assorta e perplessa. Come era possibile che lo zio avesse scoperto il suo segreto? In quale occasione ella aveva dato adito ai sospetti? Forse, non era riuscita a contenere la gioia quando era insieme a Mario, a controllare la sua ammirazione e la strana sensazione di smarrimento che la coglieva quando egli parlava con la sua voce calda e suadente? Era stato lo zio Giuseppe a condurlo ad Acerenza. Quella mattina, lo ricordò con emozione, ella sostava dietro ai vetri della porta finestra, a pianoterra, in uno dei suoi giorni di noia interrotti dai gridi dei bambini che giocavano, dalle chiacchiere della servitù e dal suono delle campane.
La vita delle buone famiglie nel suo paese era monotona, triste, grigia come il cielo d’inverno; si svolgeva senza slanci ed intemperanze secondo un controllato conformismo. Isabella spesso invidiava la genuinità del mondo contadino, meno chiuso nella scorza dell’ipocrisia, anche se ancora soggetto ai padroni. Un giorno era stata invitata dalla figlia di Maddalena, che, ora, dopo una vita di fedeltà e di devozione, era diventata quasi persona di famiglia.Da quando le era morto il marito si era stabilita in casa Glinni, anche perché la sua unica figlia, essendosi sposata con un contadino, viveva lontano dal paese, in campagna. Isabella le voleva un gran bene, perciò, quando Maddalena le aveva chiesto di andare con lei perché la nipote più grande scambiava la prima parola, cioè, si fidanzava ufficialmente, lei aveva accettato di buon grado, anzi le aveva promesso che sarebbero andate con la carrozza.
Dopo aver bevuto e mangiato abbondantemente, gli anziani, all’ombra delle querce, si lasciarono andare al sonno coprendosi il viso con i cappelli di feltro nero, che portavano indifferentemente d’inverno e d’estate, mentre le donne rigovernavano la cucina e lo spazio dove era stata collocata la tavola. I giovani, invece, senza attendere che il sole calasse o, almeno, che i suoi raggi fossero meno diretti, cominciarono a radunarsi sull’aia e al suono di un organetto si misero a ballare la tarantella, una specie di festoso ballo a tondo. I ragazzi sui pantaloni di velluto a righe indossavano una camicia bianca senza colletto, trattenuta da una specie di gilè, e al collo portavano annodato un fazzoletto colorato che dava loro un tono scanzonato e provocatorio. Le fanciulle su di una gonna ampia, tutta a piccole pieghe, portavano una camiciola bianca con lo scollo quadrato stretta da un corpetto attillato e in vita avevano una fascia rossa avvolta su se stessa. Isabella, essendo la figlia dei padroni, aveva occupato il posto d’onore sotto un pergolato nei pressi della casa, da dove poteva osservare la festa che era nata spontaneamente e si svolgeva tra l’allegria generale. La sua curiosità, però, si accentrava sui due promessi, che con naturalezza si attiravano e si abbracciavano tra i battimani degli amici e dei parenti. Dopo un po’ si era alzata per passeggiare, ma era tornata di corsa sui suoi passi perché aveva visto i due fidanzati, che erano riusciti a sottrarsi alla compagnia, baciarsi sulla bocca, mentre lui teneva stretto con le mani il seno fiorente della fanciulla. Non voleva che la scoprissero, Intanto, un caldo le era salito sulle guance e un senso di eccitazione l’aveva assalita; si sentì sconvolta da una forte emozione. Anch’ella avrebbe voluto essere abbracciata da Mario liberamente, senza paura, senza vergogna o pudore, con lo stesso trasporto, lo stesso ardore. Era tornata tra gli altri, ma da quel momento un pensiero fisso come un tarlo le rodeva la mente.
Così, talvolta, la sera, d’inverno, quando la rigidità del clima la teneva più a lungo oziosa vicino al camino, si lasciava andare al sogno. Le veniva, non evocata, l’immagine del giovane Mario, così armonioso nella figura, così spedito e sicuro nel tratto, così affascinante nel parlare da incantare quanti lo ascoltavano. In quei momenti di abbandono ella era presa dal desiderio di sentire le sue braccia intorno a sé, ma presto la stessa sensazione di gioia che provava la scuoteva dal suo fantasticare ed ella tornava alla sua coscienza, alla sua educazione ed allora un sentimento di colpa la prendeva, tanto che, guardando la nonna arrossiva: le aveva trasgredito. Doveva confessare la sua debolezza allo zio canonico o era una mossa imprudente? Certamente avrebbe riferito a donna Anna che la nipote tralignava ansiosa di piacere. Il mattino dopo queste ”esperienze dolorose”, così le chiamava, era di cattivo umore e rimpiangeva di non avere nessuno cui aprire il suo cuore.

 

Parte II - Segue >>   

 

 

 

 

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