Storie di Donne Lucane
"racconti di figlie, madri, nonne."

Maria Schirone

 

 

Sant'Arcangelo - Germania...
e ritorno
Terra straniera Emma

Sant’Arcangelo – Germania… e ritorno.

(Premio per la sezione Basilicata)

di Rosa Lamberta (Sant’Arcangelo, Potenza)

 

 

Motivazione del premio

<<  Una donna si racconta. La memoria restituisce emozioni, ricordi, difficoltà, conquiste ma, nello stesso tempo, riflette un bisogno di chiarificazione e un autentico desiderio di trasparenza esistenziale. Sospesa tra il razionale e l’intimo, la volontà di riscatto non è solo soggettiva, ma inclusiva del ‘noi donne’ >>

 

L’arrivo.

L’erba umida tagliata di fresco: è questo il più remoto ricordo del mio arrivo in Germania; quell’intenso profumo è con me dai primi anni Sessanta, è ancora nelle mie narici ed anche oggi, quando in primavera le pioggerelle di marzo accarezzano i prati verdi del mio paese, un immediato flash-back mi riporta al primo contatto col ‘nuovo mondo’. Subito, però, un pensiero cupo mi assale: i verdi prati scompaiono per far luogo a posti sconosciuti, visi estranei, idiomi incomprensibili e tanta solitudine.

Infatti, i primi tempi furono particolarmente duri: i miei genitori dovevano cercare casa e lavoro ed io ero loro d’impaccio; venivo affidata a persone conosciute da un giorno e che l’indomani non erano più le stesse. La mia vita era diventata una girandola di volti, luoghi, dialetti, imprecazioni; i giorni duravano il doppio ed erano tristi e vuoti ed ogni qualvolta cercavo un viso amico, un luogo noto, un profumo familiare, una parola ‘mia’, trovavo il nulla di una estraneità senza fine.

Finalmente i miei trovano lavoro e con loro mi trasferisco presso una famiglia tedesca (abitavamo nello stesso edificio fatto di due appartamenti). Avevo circa sei anni ed è in questo momento che ho il primo e forte impatto con la cultura, la lingua e la mentalità tedesche.

A differenza dei primi tempi, il periodo trascorso presso la famiglia Schmidt fu il più bello della mia infanzia, anche se durò appena due anni. Non ricordo di aver ricevuto mai tanto affetto come in quei giorni: ero per la prima volta al centro delle attenzioni di un’intera famiglia e tutti, indistintamente, mi facevano sentire importante. I miei genitori, presi dai loro problemi lavorativi e di inserimento, avevano delegato ad altri la mia crescita, ma io ero felice. Era bello alzarsi al mattino sapendo che tante Paula (zia Paola) aveva preparato la mia colazione e che, prima che io mi avviassi per la scuola, avrebbe dedicato cinque minuti ad insegnarmi a leggere l’orologio da una vecchia sveglia a corda. A pranzo il posto a capotavola era il mio (anche quando si sposò Gisela, la loro figlia) ed ogni giorno mille affettuose domande indagavano bonariamente sulla mia vita scolastica, sugli amichetti di classe, sui compiti, su qualsiasi cosa potessi avere o desiderare.

I miei amici erano tutti tedeschi - in quel paese eravamo gli unici stranieri -, ma io imparai la lingua in un batter d’occhio ed ero diventata come loro, una di loro, e non ricordavo più le mie origini italiane né chi mi circondava dava modo di ricordarmene, dimostrando un’accettazione totale di me e della mia famiglia.

Di quei due anni tutti i giorni furono speciali, ma il ricordo a me più caro fu la festa preparata a sorpresa per il mio compleanno. Tante Paula, a mia insaputa, aveva invitato tutti i miei amici; aveva preparato una enorme torta con tante margheritine appena raccolte e che faceva bella mostra di sé su una tavola solennemente imbandita. Fu per me una gioia grandissima ed ancora oggi non riesco ad esprimere i sentimenti e le sensazioni che si affollarono nel mio cuore e lo travolsero in un turbinio di felicità.

 

Si cambia paese.

La favola finì.

Mio padre ebbe un incidente per cui dovemmo lasciare quel luogo e stabilirci in un altro paese: volti e luoghi nuovi, una nuova scuola, una nuova casa, ma nessuna tante Paula. Avevo otto anni e conoscevo il tedesco alla perfezione, ma avevo perso il faro che illuminava le mie giornate, coloro che avevano trasformato in sogno quello che doveva essere un incubo.

Questa nuova situazione si ritorse contro di me che per la prima volta vivevo tutto il contrasto che essa rappresentava. A scuola, i più piccoli ci indicavano da lontano, segno che nelle loro famiglie i discorsi sugli stranieri cominciavano ad avere toni poco piacevoli; noi italiani venivamo etichettati come spaghetti-fresser, mangia-spaghetti, solo che il termine fresser, mangiare, era usato nell’accezione riservata agli animali…; la parola auslander, straniero, cominciò ad essere sempre più presente nella mia vita e tutta la precarietà della mia presenza in Germania era racchiusa in un’altra definizione di cui dovevo sperimentare quasi quotidianamente la portata: gastarbeiter, cioè lavoratore ospite. Dunque ero un’ospite, una persona di passaggio, qualcuno che prima o poi dovrà andarsene e che comunque non è parte integrante di quella società alla quale credeva di partecipare a pieno titolo e diritto.

Ecco, ora prendo veramente coscienza del mio essere straniera in un paese straniero, e comincio a sentirmi davvero ospite di una nazione che non mi appartiene e nella quale mio trovo a vivere mio malgrado. Contemporaneamente trascorro le ferie estive con i miei genitori in Italia e, alla luce dei nuovi e contrastanti sentimenti che mi agitano, idealizzo il paese, la regione, la nazione dalla quale provengo e vivo il momento delle ferie come un’esperienza cruciale, come un avvenimento irrinunciabile dalla valenza vitale, l’unica ragione che giustificava la vita dei restanti undici mesi in Germania.

 

Le vacanze.

Di solito si ritornava a casa in agosto oppure in luglio; nel secondo caso ero più felice perché si anticipava la partenza per l’Italia.

La sensazione che provavo quando finalmente arrivavo nel mio paese d’origine era quasi irreale. Da un lato ciò che il mio sguardo abbracciava mi era completamente nuovo e lo vivevo come estraneo; nello stesso tempo, però, sentivo di essere una ‘tessera’ che coincideva perfettamente col puzzle che avevo dinanzi agli occhi.

I miei sensi sembravano risvegliarsi improvvisamente da un lungo ed ovattato torpore come di letargo e, come sofisticati strumenti di registrazione capaci di cogliere anche il più lieve alito di vento, iniziavano la loro attività ma in modo amplificatissimo. Udivo, così, suoni e rumori altrimenti impercettibili ed i miei occhi coglievano immagini agli altri precluse: sì, l’azzurro del cielo, la trasparenza dell’aria tersa, il giallo denso dei calanchi. Era una danza di colori che io, con grande diligenza e gelosia, facevo mia; mi riappropriavo di quanto mi era stato tolto e lo immagazzinavo nei cassetti della memoria per poi richiamarlo alla luce nei momenti tristi e lenire le sofferenze della lontananza.

I miei occhi interagivano col mio naso e le mie orecchie e questo faceva sì che io riuscissi a vedere l’aria che mi avvolgeva e mi fasciava come sottilissime dita di seta, a sentirne la presenza fino a gustarne il mellifluo sapore, riuscivo perfino a cogliere l’armonia che la accompagnava e quella musica mi riempiva il cuore di una gioia per troppo tempo negatami.

Quante volte mi sono scoperta a respirare lentamente ma così profondamente da farmi scoppiare i polmoni, mentre tra me pensavo “questa è la mia terra, la mia terra, il luogo dove i miei nonni, bisnonni e trisavoli hanno vissuto e dove io ho ben radicato le mie origini”.

Purtroppo nel mio paese avevo poche amiche ma non ero l’amica preferita di nessuna: troppo pochi erano i giorni che vi soggiornavo. Ricordo che una volta, a causa di una frase sentita per istrada, rimasi molto turbata: “Ecco, è arrivata la tedesca”. Ma come – pensai – io sono dei vostri; nelle mie vene scorre lo stesso vostro sangue, la mia carnagione è dorata come la vostra e le mie origini sono le stesse che avete voi! Allora perché? chi sono io? non sono né carne né pesce? vengo dunque etichettata e bollata dalla mia stessa gente?

Col passare degli anni l’attesa delle vacanze diventava sempre più spasmodica e, anche se qualcuno mi definiva la tedesca o altri mi facevano notare che il mio accento era un po’ strano, nessuno sarebbe riuscito a sminuire la dolce poesia che permeava le mie vacanze.

 

 

La scuola.

Quando, nei primi anni Settanta, ho iniziato a frequentare la scuola media, i contrasti interiori nati dal dover obbligatoriamente vivere in un paese straniero si acuirono.  Questo accadeva in special modo se confrontavo la vita che io, adolescente italiana tra adolescenti tedeschi, dovevo condurre in quanto straniera di sesso femminile.

Le mie coetanee tedesche godevano di qualsiasi tipo di libertà: uscivano per poi ritirarsi tardi, avevano un boy-friend che tranquillamente portavano a casa, che ci fossero o no i genitori, mi parlavano spesso delle feste a cui partecipavano. Io invece, figlia di emigranti meridionali portatori di una cultura e di una mentalità radicalmente opposta a quella nordeuropea, alle 16,30 (quando i miei staccavano dal lavoro) dovevo essere a casa; non potevo andare al cinema con le amiche, mi era vietato uscire dopo cena o comunque fare tardi la sera. Tutto questo, per me che ormai ero impregnata dei modelli di vita tedeschi, rappresentava una limitazione ai miei spazi di vita, un grave handicap, vista l’impossibilità di avere un rapporto paritetico con i miei compagni. Era quindi una vita a metà quella che condividevo con altre ragazze italiane e che vivevano nelle mie stesse condizioni. Quanto l’essere donna ci danneggiasse lo avevamo quotidianamente sotto gli occhi: i ragazzi italiani, in quanto maschi, godevano di una libertà pressoché totale, al pari dei ragazzi tedeschi. Dopo il lavoro o la scuola facevano ciò che desideravano; gestivano e pianificavano la loro vita in grande libertà e autonomia, e nessuno si sognava di controllare o limitare le loro azioni.

Tale dicotomia acuiva le mie difficoltà; non mi restava che accettare quella situazione con una passiva rassegnazione.

 

 

Il lavoro.

Terminati gli studi obbligatori decido di non proseguirli, anche contro il volere dei miei insegnanti che vedevano in me ‘un buon elemento’. Ma un’altra e più forte ragione mi suggeriva questa scelta: frequentando le scuole successive avrei corso il rischio di legarmi troppo ad una terra che non mi apparteneva e che assolutamente non rientrava nei miei progetti per il futuro.

Così, cerco un lavoro e lo trovo presso una sartoria a venti chilometri dalla località in cui risiedevo; tale occupazione divenne per me subito routine per tanti motivi: non era per niente creativa e non mi dava nessuno stimolo, neppure quello economico, visto che l’intero stipendio lo consegnavo a casa.

Quel lavoro per me non rappresentava niente; lo svolgevo senza interesse anche se con tutti, operai e dirigenti, avevo un buon rapporto.

In quegli anni, siamo nel 1978, durante il periodo di ferie in Italia, incontro colui che dopo sarebbe diventato mio marito e tra noi si instaura subito un forte legame che mi permette di vivere in Germania l’ultimo anno, quello che mi divide dal matrimonio, con una maggiore accettazione visto che ormai l’esperienza migratoria era giunta, finalmente per me, al capolinea.

 

 

Il reinserimento in Italia

Con il ritorno in Italia, una famiglia ed una casa tutta mia, il sogno del ricongiungimento alla terra che avevo lasciato quindici anni prima si era realizzato.

Ma già dopo i primi mesi di ‘vita italiana’ facevo i conti con una realtà diversa da quella che mi ero prefigurata. Le difficoltà vissute i primi anni in Germania si erano come rovesciate; avevo perso ogni dimestichezza con la madrelingua, della quale conoscevo pochi semplici termini, molti dei quali in dialetto. Ciò mi ostacolava enormemente, mi bloccava, impedendomi di sentirmi alla pari degli altri; per questo tuttora avvio rapporti interpersonali con grande difficoltà.

I problemi aumentano quando devo confrontarmi con la mentalità del posto, completamente diversa da quella che avevo maturato all’estero: l’invadenza, la curiosità, l’elusione delle più elementari norme della vita civile da parte di alcuni miei concittadini, mi lasciano senza parole e incapace di fronteggiare adeguatamente una realtà nuova, difficile da accettare ma alla quale ci si deve adeguare.

Tuttavia, ciò che strideva maggiormente con le mie idee, con il modello di vita che avevo maturato, era il tipo di esistenza che la maggior parte delle donne intorno a me conducevano: la loro massima aspirazione sembrava essere quella di costruirsi una famiglia, curare la crescita dei propri bambini e trascorrere una vita senza sussulti tra le mura domestiche.

Inizialmente credevo che questo fosse frutto di indolenza e svogliatezza insite nella loro personalità, ma col passare degli anni ho compreso, anche a mie spese, che quell’atteggiamento era dovuto alla depressione culturale ed economica in cui versano ancora oggi i piccoli centri del Sud. Che abisso tra l’autonomia, l’indipendenza e la sicurezza anche economica delle donne nordiche e le mie concittadine indifferenti, rassegnate, costrette a reprimere ogni slancio vitale da un ambiente ostile in generale, ma che lo è ancora di più con noi donne.

Da parte mia avvertii subito la necessità di migliorare me stessa e, pur dovendo badare a mia figlia di appena un anno, ho voluto conseguire con tutte le forze un diploma, nonostante le enormi difficoltà linguistiche e pratiche che pur bisognava superare. Ho, infine, dato libero sfogo alla mia più grande passione, la pittura, aprendo un laboratorio artistico tutto mio; oggi che i figli sono cresciuti, essa mi fa sentire realizzata, utile alla società dove ho scelto io di vivere e di cui mi sento orgogliosamente parte integrante, e mi aiuta a colmare, almeno in parte, anche quel vuoto lavorativo che ostacola ed offende prepotentemente la maggioranza delle donne del sud, sminuendone agli occhi di tutti il valore profondamente umano di cui esse sono portatrici.

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