Storie di Donne Lucane
"racconti di figlie, madri, nonne."
Maria Schirone

 

 

Sant'Arcangelo - Germania...
e ritorno
Terra straniera Emma

Emma

di Romina Di Vincenzo
(Policoro, Matera)

 

Camminavo per quella strada e ne conoscevo ogni vicolo, ogni angolo. Conoscevo i nomi di quei volti scavati dal tempo, che con sguardo curioso mi interrogavano muti. L’assordante silenzio del corteo funebre, interrotto da un misero pianto, e il rumore dei passi ne scandivano il tempo. Quel tempo che lei non aveva vissuto, quei lunghi anni, e oggi era tornata nella sua terra, arsa dal sole, refrigerata dalla brezza del mare, e oggi bagnata dal pianto. Procedeva lento, quel rito funesto, ed io guardavo come pietrificata, mentre le ferite ancora sanguinavano.

Lo guardavo il dolore tinto di rosso. C’era calore come un velo protettivo sulle ferite; continuavo a guardare da molto lontano, distaccata.

Lo vedevo, lo toccavo quel dolore, ma non un lamento, non una parola, spettatrice indifferente. Guardavo attratta il vuoto che si spalancava al di sotto del mio sguardo, uno spazio infinito, infinito come il mio dolore, infinito come il rimpianto, infinito come il senso di colpa che mi divorava.

Avevo letto che la paura del vuoto è solo forte attrazione per esso, un brivido di terrore ora mi attraversava il corpo, riportandomi indietro nel tempo, nei ricordi. Un terribile viaggio nel vuoto, sospesa tra il passato e il presente in una dimensione priva di spazio e di tempo. Uno spazio virtuale all’interno del mio io, un labirinto sconosciuto. Contemplavo come affreschi di autore ad una parete le immagini che la mia coscienza mi rimandava.

Nessuna sensazione, sconosciuta a me stessa, impigliata in una miriade di colori sconosciuti all’arcobaleno. Proiettavano riflessi e fasci di luce, evanescenti ombre fantastiche. Mi giungevano confuse, man mano si materializzavano reali, presenti.

Alla stazione non c’era nessuno, nessuno ad accompagnarla, nessuno ad augurarle buon viaggio, lei sola, forte come una roccia, altera. Stringeva la pesante valigia con una mano, e con l’altra stringeva la mia piccola mano, talmente forte da farmi male. Non piangevo ma lei si fermò, mi strinse a sé e le mie gote si bagnarono delle sue lacrime. Ricordo, mi domandai se piangesse per se stessa o per me, mi risposi che non era forte abbastanza.

Una buona madre non deve tenere lontani un padre da una figlia, ripeteva a se stessa, agli altri. Ma cosa volesse veramente dire io non credo di averlo mai saputo. Aveva continuato a rinviare la partenza, adducendo mille motivi, ma quando il postino le aveva consegnato quella lettera lei era sbiancata. All’interno vi erano due prepaids. È giunto il momento, comunicò con voce grave. Quella notte la sentii piangere. Aveva uno strano rapporto con la sua Lucania, una diade di odio e di amore. Non vi era per Emma posto più affascinante sulla terra, lambita da due mari, lo Jonio e il Tirreno. Dal valico della sella di Conza al passo dello scalone, l’appennino lucano, intervallato da altopiani, valli e piccoli bacini lacustri, e le dolomiti calcaree, argillose.

A mano a mano si scendeva per la collina, coperta di boschi, di laghi. La sorprendevo spesso, persa in una marea di sensazioni che la trascinavano lontano, obliata, annullata nella percezione di quell’attimo forte, intenso e pur non vissuto. Si annullava nello spazio, nel tempo e la tristezza, latente, permeava di sé tutto il suo essere, fino a divenire visibile ai miei occhi.

C’era fra loro come un sottile gioco di parole non dette, una tentazione che respingeva, sebbene la travolgesse, ma non riusciva ad accettare quella sfida già persa. Parlava sovente della sua casa a meno di un chilometro dal mare, dal quale era separata solo da una fitta pineta.

Una corsa con Bach, il suo amatissimo cane, tra cespugli di rovi e il profumo del rosmarino, ed era lì sulla spiaggia, una infinita distesa di azzurro, uno stupendo deserto cobalto.

Era quella la libertà, lei la possedeva tutta.

Dopo giorni di estenuante viaggio attraverso l’Italia, la Francia, la Catalogna dove il paesaggio ricordava il nostro di tipo mediterraneo, ma ad ogni chilometro nell’entroterra, ci lasciavamo il mare alle spalle e ciò che si presentava ai miei occhi era quasi un deserto: la vecchia Castiglia. Da Madrid a Ciudad Rodrigo quasi tre ore di viaggio su quella strada accidentata dai tracciati tortuosi che allungavano il nostro cammino.

Sembrava interminabile quella strada nella radura, tra pietre e cactus, un deserto spoglio, accecante. In lontananza, l’altopiano si colorava di verde e di querce e di faggi. Quasi ai bordi della strada pascolavano allo stato brado numerose mandrie di bestiame. Ricordo, mi spaventai per quell’enorme toro in ferro, simbolo della Spagna, terra delle corride.

Piansi a lungo, avevo caldo, un caldo insopportabile che mi impediva di respirare, e avevo paura, paura che quei tori ci saltassero addosso e ci infilzassero con le corna enormi, uncinate. A Salamanca giunsi più tranquilla, la vecchia Castiglia sembrava calarmi in una fiaba, con i suoi fantastici castelli e i nidi di cicogne sui campanili, sulle guglie. Ciudad Rodrigo era un tuffo nel tempo fino al Medioevo, le case, antiche costruzioni in pietra, le vie della città lastricate cui si accedeva attraverso enormi archi che portavano lo stemma del regno di Isabella di Castiglia.

La lunga estate appena trascorsa aveva bruciato la mia pelle, ma aveva fatto di me una vera castigliana. Parlavo bene la lingua e sebbene vivessi il quotidiano distacco dalla zia Emma come qualcosa di definitivo, l’incontro con i miei nuovi insegnanti di scuola e l’inserimento nella classe li avevo vissuti senza traumi.

Emma viveva una realtà invisibile, parallela e all’ombra dell’uomo che aveva lasciato la terra d’origine da troppo tempo per sentirsi ancora un emigrato. Aveva lavorato duramente  e aveva investito tutto in quella fattoria e nei quaranta capi di bestiame. Era un proprietario terriero, lui, lei soltanto una donna emigrata. Aveva convinto se stessa che la sola scelta per una donna fosse raggiungere il compagno e riunire la famiglia.

Lo sradicamento lo aveva vissuto da spettatrice passiva, distaccata. Del suo ruolo di casalinga aveva fatto una corazza, al di là della quale: il buio, l’ignoto, l’estraneo, la solitudine e la sofferenza. E lei si difendeva da tanta ostilità chiudendosi tra quelle mura che giorno dopo giorno si facevano sempre più opprimenti; spegnevano il suo sguardo, la immobilizzavano per mesi a letto febbricitante, e il delirio proiettava la sua mente nella sua terra, lontana da me, irraggiungibile, un’altra creatura.

Correva fra i pini e gli eucaliptus, nascondendosi dietro i tronchi e Bach annusava il terreno tappezzato dagli aghi dei pini, seguiva il suo fiuto fino a lei. Scodinzolava contento, e insieme si tuffavano fra le onde calde del mar Jonio.

Smarrita, turbata ritornava a me dopo la lunga febbre. Non so se ricordasse le parole del suo sofferto delirio, ma riprendeva le sue faccende col solito rituale, metodico, sdrammatizzando.

Vittima silenziosa di se stessa, della sua condizione di disadattata. Le difficoltà di comunicazione le creavano i maggiori problemi psicologici con le stessa e con gli altri. La diversità linguistica la confondeva, la disorientava poiché oltre alla lingua ufficiale, il castigliano, in molti parlavano il basco, il catalano e il gallego, molto simile al portoghese.

Emma, un pesce fuori dall’acqua. Sradicata, strappata, quasi un dolore fisico.

Gli anni che seguirono furono decisivi. La tragedia che ci colpì vide Emma protagonista nel ruolo di sostegno della famiglia. Ormai motivata da questo nuovo, inaspettato compito, consapevole del suo fondamentale apporto, usciva nei campi tutti i giorni e per tutto il giorno, sotto il sole cocente, vampate di fuoco.

A giugno gli operai stagionali giungevano alla fattoria per la mietitura e la trebbiatura dei cereali. Emma si occupava delle paghe e della programmazione del lavoro, compiti un tempo svolti da mio padre. In autunno c’era la vendemmia, a gennaio la raccolta delle olive. C’era lavoro tutto l’anno, senza sosta e lei era sempre da qualche parte occupata, tra i filari della vigna, nell’oliveto, o con Phelipe a sistemare il bestiame. Rientrava distrutta impregnata di polvere e di sudore; sedeva nel patio, al fresco della sera e il suo sguardo spaziava attorno alla fattoria.

La casa sorgeva poco al di là dell’altopiano, nella steppa fra cactus, cardi giganti e palme nane. Il clima arido ricordava quello africano. La fattoria si estendeva fino ai confini dell’Estremadura dove i terreni erano destinati alla transumanza del bestiame lungo i tratturi.

Se ne stava lì delle ore ad ascoltare il canto dei grilli. Grosse falene ronzavano intorno al suo viso, ma lei sembrava non accorgersene, imperturbabile, lontana oltre la linea dell’orizzonte fra gli scavi dell’antica Heraclea, la sua arcadia segreta, e da lì raggiungeva il castello baronale e sotto il pino secolare guardava il mare in lontananza. Le vacanze estive le trascorreva in montagna dai nonni. La casa era un vecchio casolare in legno e pietre. In lontananza si stagliavano le dolomiti spoglie, facevano paura così aspre e tormentate, ma la casa e le immediate vicinanze erano immerse in un ricco bosco di querce, lecci e castagni, ne sentiva quasi l’intenso profumo che aleggiava nell’aria frizzante del tramonto.

Il nonno le raccontava degli orsi bruni e dei lupi che di notte scendevano a valle per rapire i bambini cattivi. Non ci sono bambini cattivi ripeteva Emma, ma i lupi e gli orsi scendono comunque a rapire le bambine che non vogliono addormentarsi.

Io non avevo paura, di giorno li vedevo i lupi e gli orsi mascherati da pernici, lepri e galli cedroni.

Alcuni anni più tardi lasciai la fattoria per trasferirmi a Salamanca e proseguire i miei studi. Divenni assistente alla cattedra di magistero e sempre più di rado raggiungevo Emma alla fattoria.

La sentivo sempre più triste, più sola e continuavo a prometterle un viaggio in Italia, un ritorno. Era una menzogna, gli impegni universitari continuavano ad impedirmi di programmare quel viaggio.

Poi il fato, a dispetto di me, decise che il momento era giunto.

Quel telegramma, e la promessa fattale tantissime volte, dettava in quell’istante la priorità assoluta. Camminavo come Siddharta, cercando quella parte di me che come lei era appartenuta a quei luoghi. La terra continuava a cadere, a colmare quella voragine. Quella terra che l’aveva vista partire, l’avrebbe ingoiata, restituita per sempre a se stessa.

Guardavo, e non so per quale ragione, mi vennero in mente alcuni versi di Otero Silva: “Espérame yo me marcho contigo”.[1]


[1]Aspettami vengo con te.

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