Storie di Donne Lucane
"racconti di figlie, madri, nonne."
Maria Schirone

 

 

Partenze Il mio viaggio all’estero alla ricerca di un futuro migliore Non ancora diciottenne misi la vita in una valigia… Una lucana emigrata in Svizzera

Il mio viaggio all’estero alla ricerca di un futuro migliore

di Faustina Francabandiera in Lapadula
(da Irsina a Sciaffusa-Schaffhausen, Svizzera)

 

 

Come spesso mi accade, anche in questo momento si ripete. La mia mente torna alla mia infanzia e alle persone allora a me vicine.

Era l’immediato dopoguerra ’40-’45. Nelle case mancava di tutto. Non avevamo televisore, radio o altre fonti d’informazione. Erano in pochi a saper leggere; i più non avevano alcuna istruzione scolastica. La mia mamma, cresciuta in una famiglia di commercianti, aveva la licenza di sesta classe.

I contadini lavoravano ad anno. Dovevano lavorare l’intero anno per il proprietario terriero che li ingaggiava – questo era ambìto dalle famiglie – o a giornate ‘da sole a sole’[1].

Com’era d’uso, papà doveva alzarsi molto presto la mattina quando era ancora buio e andare nella piazza del paese[2] dove i proprietari terrieri assumevano gli operai a giornata, a seconda dei lavori da svolgere. I più tornavano a casa, delusi e depressi per non avere avuto il lavoro.

Tutto era prezioso, niente doveva essere sciupato o rotto. Se oggetti in vetro o in porcellana nel cadere si rompevano, il responsabile veniva punito, soprattutto i bambini. Molto spesso a casa si trattava di me.

Avevo sei anni e frequentavo la prima classe elementare. La mamma mi ordinò di prendere la zuccheriera per dolcificare il decotto di malva, che serviva per curare la tosse. Lo zucchero si teneva da parte e si usava solo in casi necessari. C’erano alcune sue amiche, sicché dovetti passare da sotto il tavolo dove la zuccheriera si ruppe e io rimasi impietrita dalla paura della rituale punizione. Questo fatto mi procurò un danno che fu evidente dal giorno dopo. La mia testa era piena di foruncoli purulenti e divenne un’unica piaga su tutto il cuoio capelluto. Nessun dottore fu interpellato: non c’erano soldi. La situazione migliorò solo dopo tre mesi durante i quali non mi fu possibile andare a scuola e fui costretta a ripetere l’anno scolastico.

Se a casa c’era della gente e noi figli avevamo fame non dovevamo chiedere il pane: gli altri non dovevano sapere. Diversamente saremmo stati rimproverati. Per i genitori era una vergogna non avere cibo a sufficienza per i figli.

Come dicevo mancava di tutto, e i pacchi enormi che ci arrivavano dallo zio d’America (zio di mio padre) colmi di indumenti e scarpe, era una manna caduta dal cielo: usavamo tutto. Ricordo che andavo a scuola con scarpe e vestiti da donna. Il più delle volte le scarpe erano strette, ma non c’era altra scelta.

Dal Comune fu istituita la refezione a fianco alla Cattedrale e gestita dalle suore del convento. Questo permetteva un pasto caldo ai bambini bisognosi. Caldo per modo di dire: dopo aver fatto la fila per entrare nel refettorio e preso il cucchiaio di olio di fegato di merluzzo somministrato da una suora molto arrogante e scorbutica, ci veniva imposto di mangiare una minestra cotta con margarina e fredda. Il poco cibo disponibile era per lo più a base di pane, pasta, verdure e legumi. Carne, uova, dolci, zucchero erano rari ed era possibile averne solo due o tre volte l’anno.

Era d’uso comperare quasi tutto con il ‘libretto’ nei pochi negozi del paese. Il ‘libretto’ era un quaderno che ci si portava dietro ogni volta che si doveva comperare qualcosa di prima necessità e non si avevano soldi. Vi si annotavano la data d’acquisto, la merce, la quantità e il prezzo. A fine stagione, agosto o novembre, si doveva pagare al negoziante la somma in debito, più l’interesse. Se la stagione non aveva dato i frutti attesi il tutto veniva rimandato alla successiva; la gente aveva sempre qualche debito da saldare.

La mortalità infantile era molto alta: ogni giorno la campanella della chiesa suonava per annunciare il decesso di un bambino o di un neonato. Spesso si poteva incontrare per le strade del paese qualche donna tutta sola, con sulla testa una cassettina di legno bianco, un cadaverino da portare al cimitero, senza cerimonia funebre né altra gente che l’accompagnasse.

Era il dopoguerra e anche la fine dell’era fascista. Durante la dura lotta antifascista la famiglia di mio padre e lui stesso erano stati attivi in prima persona; per questo erano stati anche oggetto di persecuzioni. Gli uomini della famiglia erano stati costretti a dormire con i vestiti, pronti a fuggire a un eventuale allarme di chi, tra di essi, fungeva da sentinella. Anche mio padre figurava tra gli ottanta partigiani della lista consegnata dai fascisti ai tedeschi, perché fossero fucilati dalle forze di occupazione. Di tutto ciò, ho memoria dai racconti di mia nonna. L’attività politica continuò. Si doveva ricostruire e costituire la Repubblica. A casa mia si tenevano gli incontri dei compagni che venivano da fuori paese per organizzare le prime votazioni nazionali. Ero una bambina di sei o sette anni, ma ricordo ancora i nomi dei politici ospiti a casa nostra, come gli onorevoli Loiacono e Bianchi.

Fu anche il periodo del contrabbando, e si formarono gruppi per difendere il paese anche da questo fenomeno. Il mio papà faceva parte di uno dei gruppi e nello stesso tempo era candidato alle elezioni comunali. Gli avversari politici di papà fecero in modo di incastrarlo per eliminarlo politicamente. Fu così che lui fu recluso per diciotto mesi fino al processo d’appello, dove fu assolto per non aver commesso quello di cui era accusato. E intanto, durante la reclusione, era stato eletto, nonostante tutto. A quel tempo eravamo cinque figli in tenerissima età. Le difficoltà economiche continuavano, papà non lavorava e la mamma era sempre preoccupata e anche arrabbiata.

E venne il periodo della riforma agraria. La gestione era nelle mani degli avversari politici, i quali dicevano al mio papà, finché sei rosso, sarai escluso dall’assegnazione; e lui non volle cedere a questo ricatto.

Le persistenti difficoltà finanziarie non permisero di curare il mio fratellino, ammalatosi di polmonite e morto nel 1948. Aveva solo due anni.

A Natale del 1950 nacque la sorellina ed eravamo di nuovo cinque figli in casa. Fu la benvenuta per tutti noi e la più coccolata in famiglia.

Ma la situazione economica non era migliorata. Nel luglio del ’51 l’affitto di casa risultava non pagato da due anni e fummo sfrattati. Per avere un tetto sulla testa, tutta la famiglia fu costretta a trasferirsi in una casetta di campagna, di proprietà del nonno materno deceduto nel ’42. Ciò creò dei contrasti nella famiglia di mia madre. La mamma mi obbligò a lasciare la scuola. Dovevo occuparmi della sorellina e aiutarla in casa. Alle decise insistenze che provennero anche da parte degli insegnanti, mi fu permesso di riprenderla, ma con l’impegno di fare tutto quanto mi si chiedeva, come se non andassi a scuola. Così, tra la distanza da coprire per recarmi a scuola e le faccende da fare, non avevo più tempo per i compiti. Li facevo nei ritagli di tempo a scuola, e trovavo anche il modo di aiutare le compagne di scuola quando me lo chiedevano. Di tempo per giocare, quindi per socializzare,  non ce n’era. Di conseguenza la mia vita era ‘casa e scuola’.

Il ciclo scolastico che mi riguardava si componeva di cinque anni di livello elementare e tre di avviamento professionale. La scuola era situata al centro del paese in un edificio unico. Le classi erano suddivise per sesso: quelle delle bambine e quelle dei maschietti. Man mano che le classi avanzavano le bambine erano sempre meno. Infatti per i genitori mandare a scuola le figlie non era importante. Esse erano destinate comunque ai lavori di casa e questo dovevano imparare. Anche chi disponeva di mezzi e denaro preferiva far studiare i figli maschi. Fino al 1955 la scuola fu facoltativa; poi divenne obbligatoria. Si entrava in classe alle 8.30 e si usciva alle 13.30, per le elementari; dalle 8.30 alle 12.30 e dalle 14.30 alle 16.30 per l’avviamento. Vietato avere del cibo in cartella: se scoperti a mangiare in classe si veniva puniti. Spesso si trattava di punizioni fisiche, come farci inginocchiare sui ceci; si veniva puniti anche per motivi banali.

I fratelli e il cane erano i miei compagni di giochi, per quello che il tempo mi concedeva dai numerosi doveri. Noi fratelli eravamo molto uniti. Infatti, quando la mamma mi picchiava – e ciò accadeva di frequente – mio fratello maggiore le diceva: “picchia me, non lei”. Il mio papà era sempre triste e quando lo vedevamo tornare a casa per noi era il coprifuoco.

Quando mio fratello andò a studiare in istituto, la mamma si ammalò di asma bronchiale. Dovetti smettere definitivamente di frequentare la scuola e tutto il lavoro, anche il più duro, ricadde su di me, assumendo il ruolo della madre di famiglia. A quel tempo ancora non c’erano fognatura, gabinetti né acqua corrente in casa. Bisognava ogni giorno effettuare la pulizia del vaso. Prima della realizzazione della rete fognaria, passava per il paese un carro botte per raccogliere i liquidi organici delle famiglie, tutte le mattine presto.

Dall’età di quattordici anni circa dovetti fare il pane, la pasta, tutto a mano. Il bucato in estate andavo a farlo al pozzo del paese, dove sgorgava l’acqua dal suolo. Andavo la mattina con tutto l’occorrente e tornavo la sera con il bucato pulito e asciutto.

Per arricchire le mie conoscenze usavo i libri di mio fratello: da essi ho imparato molto. Intanto avevo imparato il taglio, il cucito e il ricamo dalla mamma che era sarta e da sua sorella che era ricamatrice. Così mi fu possibile imparare un mestiere che mi è stato molto utile nella vita. Con questo lavoro guadagnai i primi soldini per comperarmi la stoffa per il mio primo vestito nuovo che mi feci tutto da sola. Avevo diciassette anni.

Su mio fratello maggiore si concentrava l’attenzione di mia madre, la quale volle fortemente che lui potesse studiare (in effetti era molto promettente). Ho ancora in mente le parole che aveva per lui: dobbiamo fare molti sacrifici, voi lavorate per farlo studiare e quando ne avrà la possibilità sarà lui ad aiutare voi.

Anche i miei fratelli più piccoli lavorarono fin dalla più tenera età, facendo ogni lavoro possibile per raggiungere l’obiettivo, fare il figlio cristiano[3], altra espressione di mia madre.

A Natale facevamo il presepe, con oggetti che non si compravano, con materiale recuperato in vari modi. Le figure le facevamo noi fratelli con la creta che andavamo a recuperare dalle ruote dei traini dei contadini che andavano a seminare lungo il fiume Bradano. Dopo averla ben amalgamata, modellavamo le figure, le facevamo essiccare all’aria e poi le dipingevamo con acquerelli. I Natali del 1954 e 1955 in famiglia non potemmo fare il presepe perché erano decedute le nonne, prima l’una poi l’altra, e quindi eravamo in lutto. La mamma tuttavia ci permise di farlo piccolo piccolo e nascosto da una piccola tendina di stoffa, e a turno noi bambini potevamo andarlo a vedere. L’inverno del 1956-’57 fu freddo e nevoso, tanto che per portare una signora dal paese all’ospedale di Matera per un’appendicite acuta venne l’elicottero a prenderla.

L’ultimo dei presepi fatti da noi tutti insieme fu quello del 1957. Anche quella sera papà tornò a casa come al solito, a sera tardi, e cenò da solo perché noi avevamo già cenato con quello che c’era. Non avevamo molte possibilità: non c’erano cenoni ma cenette. Fu così anche l’ultimo dell’anno, San Silvestro del ’57. Il papà tornò alle 23 e noi figli insieme alla mamma stavamo giocando a tombola; con noi c’era un amico di mio fratello. Dopo cinque minuti dal suo arrivo, visto che non avevamo smesso di giocare per finire il giro, papà andò a letto arrabbiatissimo, considerando quell’atteggiamento offensivo nei riguardi della sua autorità di padre.

Così iniziò il 1958; l’anno più duro e triste che io ricordi. A febbraio mio fratello che studiava si ammalò; papà lo fece visitare dal dottore il quale lo informò della vera natura del male. A noi papà disse che si trattava di una forte anemia. Due giorni dopo papà mi chiese di andare in ospedale, a Bari, perché mio fratello aveva bisogno di trasfusioni di sangue e dovevo fare il primo deposito. Il sangue era considerato come una medicina e si doveva pagare per averlo. Non potevo né volevo dire di no, lo feci senza batter ciglio, e fui l’unica a farlo. Ma non fu sufficiente perché mio fratello guarisse. Mia madre rimase a Bari ospite di suo fratello per tutto il periodo del ricovero. Dopo una settimana che la mamma l’ebbe riportato a casa, mio fratello morì. Solo papà aveva saputo della leucemia e che mio fratello non sarebbe potuto guarire. Noi tutti avevamo sperato in una guarigione. Il colpo fu duro per tutta la famiglia.

Quando il prete venne per l’estrema unzione, papà si arrabbiò e gli chiese dov’erano, quando avevamo avuto bisogno di aiuto concreto; concesse tuttavia che si tenesse il rito religioso per i funerali.

La mamma aveva perso quel figlio nel quale aveva riposto le speranze di riscatto, il figlio che avrebbe sollevato le sorti della famiglia. Già malata, col suo dolore si rifugiò nella preghiera. Era in contemplazione continua davanti all’altarino fatto in casa con l’immagine di mio fratello e il rosario in mano. Non si occupava di nient’altro e non si rendeva conto quanto quel dolore avesse colpito anche noi fratelli e compagni dei giochi d’infanzia. In quel periodo gli zii ci sostennero affettuosamente, in modo particolare le sorelle di papà.

Sempre, anche nei giorni di festa, Pasqua, Natale, Capodanno, la mamma mi faceva lavare la biancheria, tutto a mano, e per noi non era festa. Mi ritrovai così a vent’anni e non avevo vissuto né la mia infanzia e neanche l’adolescenza, né ricordo una festa di compleanno fino ad allora.

Ero vestita di nero per lutto (era d’uso che si portasse per almeno cinque anni per la perdita di un famigliare stretto). Quando incontrai per la prima volta quel giovane venuto in visita ai nostri vicini di casa fu il classico colpo di fulmine, un raggio di sole nella mia vita.

In quel periodo lui era in convalescenza militare e quasi al termine della ferma, in attesa del congedo. Rividi Raffaele a febbraio 1961, dopo quasi un anno, e decidemmo di conoscerci meglio. Ma dopo una settimana lui partì per la Svizzera per raggiungere il fratello maggiore, uno degli otto. Non potemmo salutarci né parlare della sua intenzione di partire. Me lo comunicò nella sua prima lettera che mi giunse attraverso un’amica comune. Non poteva scrivermi a casa, perché mio padre non voleva; d’accordo con mia madre, questa fu la migliore soluzione possibile.

A settembre venne al paese e dopo un incontro con mio padre, finalmente mio padre diede il suo consenso al nostro fidanzamento. Si fermò solo due settimane e ripartì. Il nostro fidanzamento continuò per tre anni fra lettere e brevi periodi di vacanze a Natale e Pasqua. Fin da quando ci fidanzammo mio padre volle la promessa che non saremmo andati a vivere lontano dopo il matrimonio. Intanto lavoravo, ricamavo e cucivo. Con i pochi soldi che riuscivo a guadagnare acquistavo stoffa per prepararmi il corredo.

I compaesani che negli anni ’50 erano emigrati al nord Italia, e soprattutto quelli partiti verso la Germania e la Svizzera, quando tornavano al paese per le vacanze raccontavano come si viveva bene, si lavorava e si guadagnava bene in quei posti. Certo questo metteva voglia a chi non aveva niente, di partire per garantirsi un futuro.

Io non volevo andare via dal paese, mi chiedevo come avrei potuto far crescere i miei figli in una terra di cui non conoscevo la lingua, gli usi, il modo di vivere. L’idea mi spaventava. E comunque volevo che i figli avessero la famiglia allargata vicino, e non solo i genitori per crescere bene.

Decidemmo di sposarci comunque, sperando di poter trovare lavoro, uno qualsiasi per il nostro futuro insieme. Fu così che Raffaele lasciò il lavoro in Svizzera e dopo tre mesi ci sposammo. Per fare la festa e per gli abiti del matrimonio facemmo debiti. Non avevamo ancora una casa. La prima notte di matrimonio, per non rientrare nella stessa casa da dove ero uscita vestita di bianco fu trovata una soluzione alla meglio. La famiglia che abitava di fronte ai miei genitori era emigrata. Una comune amica aveva la chiave dell’appartamento e, senza avvertire i legittimi inquilini, ce ne fece fare uso per qualche giorno. Ma dopo due giorni loro arrivarono senza preavviso, mentre noi eravamo fuori. Andarono su tutte le furie ma poi capirono le ragioni e la necessità.

Tornammo così a vivere nella mia camera di prima. Dopo quattro settimane dal matrimonio non avevamo ancora niente, nessun lavoro. Non si poteva e non si voleva pesare sui parenti, che comunque non avevano niente da offrirci.

Non avevamo scelta, dovevamo partire, andare da qualche parte per costruire il nostro futuro e quello dei figli che avremmo avuto.

Cinque settimane dopo il matrimonio preparammo i passaporti; partimmo con solo due valigie, tanti sogni, un po’ di cibo e acqua per il viaggio e i soldi presi in prestito per il biglietto ferroviario di sola andata per la Svizzera. Obiettivo principale, fare la casa in due o tre anni e tornare al paese.

Era il mio primo viaggio così distante, e il primo in assoluto. Non avevo mai viaggiato prima se non qualche volta fino a Bari dagli zii. Della mia regione non conoscevo niente. Era anche la prima volta che salivo su un treno. Eravamo partiti alle 18 da casa; all’una e mezza di notte salimmo su quel treno che subito dopo lasciò la stazione di Bari diretto in Svizzera.

Il viaggio mi sembrò interminabile. Quando vidi le montagne innevate fui meravigliata da tanta bellezza. Ebbi la sensazione di essere in un altro mondo, quasi irreale, fatto di montagne innevate che si alternavano alle luci delle città nella notte. Arrivammo a Diessenhofen alle 23.30 del giorno seguente. Alla stazione ci vennero incontro fratelli e cugini di mio marito. Per la prima settimana fummo ospitati dai cugini. Loro ci offrirono tutto quello che avevano, così io dovetti dividere il letto con la cugina e mio marito con suo cugino.

Il giorno dopo i cugini si recarono al lavoro e io e Raffaele ci mettemmo alla ricerca di un lavoro possibile. Quando tornammo a casa avevamo il lavoro, io in una ditta di confezioni per signora, da iniziare già l’indomani, e mio marito presso una ditta di produzione di materie plastiche. Per il permesso di lavoro e di dimora fu necessaria la visita medica; potemmo così ottenere un permesso annuale. Ogni anno poi sarebbe stato necessario rinnovare i due permessi, e l’uno dipendeva dall’altro: se uno di noi non avesse ottenuto l’uno o l’altro permesso, se ne sarebbe dovuto tornare in Italia, non essendo sufficiente che l’altro di noi lavorasse.

Dopo una settimana da ospiti, con una somma prestataci dai parenti fu possibile affittare una camera ammobiliata. Era molto piccola e fredda, con gabinetto e cucina in comune ad altri emigrati, italiani, spagnoli, turchi, nella nostra stessa situazione. Era quasi sera quando entrammo nella camera dove finalmente avremmo cominciato la nostra vita di coppia. Lui posò le due valigie per terra e mi disse: “Bene, intanto che tu ordini la roba nei cassetti io esco con gli amici” (aveva ritrovato gli amici di quando era scapolo). Così cominciò una lotta fra me e i suoi ‘amici’.

I primi soldi guadagnati li spedimmo a chi ce li aveva prestati per il viaggio. Il mio primo Natale fu in Svizzera. Tutti i parenti tornavano al paese per le feste, ma noi gli ultimi soldi che avevamo li mandammo ai genitori, sapevamo quanto loro ne avevano bisogno. Ci ritrovammo io e mio marito soli a passeggiare nel paese svuotato di gente, soli e senza meta.

Comunicare con gli svizzeri non mi era possibile, non conoscevo per niente il tedesco. Per cominciare a prendere contatto con la lingua avevo adottato un mio sistema: leggevo le informazioni sulle etichette e sugli involucri dei diversi prodotti, che solitamente erano trascritte in italiano, francese e tedesco.

Intanto sempre per lavoro ci trasferimmo a Schaffhausen. Mio marito aveva acquisito la patente di guida per mezzi pesanti, quindi gli fu possibile cambiare lavoro. Subito dopo mi ammalai di epatite (ittero). Fui ricoverata in ospedale al reparto infettivi, ma, a quanto pare, il mio male non era solo di natura fisica. Ero depressa, non riuscivo a mangiare e nemmeno a dormire. In ospedale furono tutti gentili e premurosi, medici e personale paramedico, ma questo non mi fu di molto aiuto. Avevo perso quindici chili nel giro di un mese. Dopo dieci giorni, nella stanzetta venne a trovarmi, fuori orario, il professore che mi aveva in cura. Si sedette sul bordo del lettino e come fosse il mio nonno mi parlò in tono affettuoso. Volle sapere se era il cibo o qualcos’altro che mi disturbava; dopo circa due ore di colloquio con quel signore tanto buono mi sentii risollevata e iniziò il circolo virtuoso.

A maggio finalmente ero in dolce attesa: un miraggio raggiunto, per me e mio marito. Con i pochi risparmi disponibili comperammo dei mobili usati e affittammo un piccolo appartamento. Venne al mondo la nostra gioia, il dono più bello, portatrice di tanta luce nella nostra vita.

Dopo dodici settimane, il periodo concesso per maternità, ripresi a lavorare, affidando la bambina a una signora svizzera, a sua volta mamma di due figli. Dopo tre anni arrivò la seconda bimba ad arricchire la nostra vita. A questa nuova grande gioia si sovrappose l’incertezza, da parte mia, se continuare a lavorare o no. Con mio marito decisi, e smisi di lavorare, per seguire a tempo pieno le nostre bambine. Ma i problemi economici c’erano, così accettai di prendere in custodia altri bambini di madri lavoratrici. Potevamo e dovevamo contare tutte nel reciproco sostegno, non avendo l’appoggio delle famiglie, lontane.

A distanza di circa due anni la nostra famiglia salutò con gioia l’arrivo del terzo figlio. Mi trovai così con tre bambini da cinque a zero anni di cui occuparmi e i conti da far quadrare con un marito diciamo esigente. Arrivò per la prima figlia l’età della scuola e, per noi, il momento di decidere se rientrare al paese o iscriverla alla scuola locale. Decidemmo per quest’ultima soluzione, per lei e per gli altri: se al paese non avevamo né casa né lavoro, quale futuro avremmo potuto costruire per noi e per loro?

Erano i primi anni Settanta; volli far trascorrere ai miei figli qualche giorno in compagnia dei nonni. Quel fine settimana si votava in Svizzera per l’ennesimo referendum contro l’inforestieramento, lanciato dal partito nazionale. Ebbi una grande paura: cosa fare se il popolo accettava? quale futuro si sarebbe prospettato per noi e per i nostri figli?

Fu quello il periodo in cui nacquero anche a Schaffhausen le diverse associazioni regionali italiane, tra cui quella lucana. Era forte il bisogno di essere e sentirsi uniti, di cercare possibili soluzioni ai molteplici problemi di tutti e di ciascuno. Non ultimo il problema della scuola per i figli; ma anche di stabilire contatti con le strutture regionali e far sentire la nostra voce.

In seno al consiglio scolastico della città, l’ufficio di contatto tra svizzeri e stranieri formò una commissione per i bambini di lingua straniera. L’emigrazione organizzata mi elesse e accettai volentieri, consapevole di quanto mi impegnavo a fare nell’interesse della collettività italiana. Così, anche gli psicologi della scuola si rivolgevano a me, sia per traduzioni sia per illustrare ai genitori il sistema, selettivo, della scuola locale. In questo modo per alcuni scolari fu possibile evitare le classi speciali. Collaborai a formare il comitato svizzero dei genitori, mentre nel comitato italiano ero attiva già da tempo: ci si occupava dei corsi di lingua e cultura italiana, importanti sia per il rientro dei ragazzi in Italia che per mantenere viva e presente la lingua e la cultura delle origini.

Nel 1980 si costituì l’Associazione lucana di Sciaffusa, grazie al volontariato dei lucani residenti, tra cui mio marito che ne fu presidente per alcuni anni. Col tempo ne assunsi io la presidenza. Intanto venivo eletta nel Com.It.Es (Comitato degli Italiani all’Estero) per tre legislature, all’interno del quale sono tuttora responsabile della commissione scuola.

Oggi i miei figli sono adulti, hanno studiato tutti e tre e si avviano a costruire ciascuno il proprio futuro professionale.

Per cui, il sogno iniziale di tornare al paese per noi si è fatto sempre più lontano e indistinto. Forse, impossibile.


 

[1] dall’alba al tramonto.

[2] Il paese dell’A. è Irsina, l’antica Montepeloso.

[3] Essere “cristiani”: tipica espressione meridionale che non necessariamente c’entra con la religione, ma sta a significare “di buone maniere”, o “ben educato”, “ammodo” ecc.

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