CAPITOLO PRIMO
IL TERRITORIO E LA RIFORMA AGRARIA
NOTE INTRODUTTIVE
Anche se il termine masseria può essere usato per il piccolo fondo
coltivato o il grande complesso produttivo provvisto di abitazione, per
il piccolo podere contadino o la casa con impresa armentizia, nella
comune accezione, esso dovrebbe però essere utilizzato solo per quelle
strutture più complesse dell’habitat rurale facenti parte dell’insieme
dei fondi rustici spesso affidati al massaro; è necessario porre
attenzione su questa realtà, onde acquisire gli elementi indispensabili
per una esatta valutazione dell’incidenza che la masseria ha avuto
sull’andamento dell’economia e della vita del Mezzogiorno.
Dall’insediamento rurale a carattere permanente, la masseria ha
rappresentato concretamente il segno più immediato del rapporto
uomo-lavoro-produzione; la masseria, infatti, ha rivestito il ruolo in
cui si materializzava quotidianamente il contrastante rapporto tra
classi dominanti e classi dominate, tra nobiltà e uomini della terra.
Questi complessi hanno rappresentato il patrimonio culturale utile a
puntualizzare particolari momenti della storia sociale ed economica del
Mezzogiorno; la casa rurale, parte della masseria, oltre ad essere stata
una delle componenti più significative del paesaggio agrario, ha
costituito anche il fulcro di soluzioni ecologiche, di situazioni
economiche, di tradizioni popolari, di rapporti di lavoro.
Le “masserie” hanno in questi ultimi tempi perduto molta della loro
importanza, principalmente per quanto riguarda la loro vitalità; infatti
un tempo in ogni masseria risiedeva un numero considerevole di
dipendenti, che avevano incarichi specifici. Vi era un vero e proprio
organigramma (1) che dal mezzadro o fittavolo
all’apice come massimo grado, si passava ai massari, ai salariati fissi
(gualano, pastore porcaro) ed ai garzoni chiamati “quatrasconi” (che
stava ad indicare ragazzo di 14 anni di età il quale non aveva più
l’obbligo scolastico e quindi poteva essere avviato ai lavori dei campi
senza incorrere nelle sanzioni della legge) ai quali, nei periodi di
maggiore impegno, (aratura, semina, sarchiatura,mietitura, tosa delle
pecore, potatura delle olive) si aggiungevano i mesaruli (operai
ingaggiati a mesi) gli operai giornalieri e gli occasionali. Con questa
massa di lavoratori dipendenti, l’azienda masseria non limitava la
propria attività alla cerealicoltura ma abbracciava una ampia gamma di
interessi: dalla coltivazione dell’olivo, alla vite ed al mandorlo
(nelle zone più calde) alla zootecnica; si praticava quindi
l’allevamento di ovini, caprini, bovini, suini pollicoltura per uso
aziendale e qualche quadrupede (cavallo, asino) che serviva come mezzo
di locomozione e trasporto nella azienda.
Dopo la seconda guerra mondiale si sono avute innovazioni in tutto il
mondo lavorativo e maggiormente ne ha risentito quello agricolo; si è
assistito nel giro di pochi anni alla riconversione di queste masserie
ed alla distruzione di antiche tradizioni che per secoli avevano
accompagnato la vita dei campi scandita dallo svolgersi delle stagioni.
Il progresso, le nuove tecniche, la meccanizzazione soprattutto hanno
completamente mutato la vita dei campi escludendo per conseguenza
servizi e attrezzature un tempo indispensabili e modificando nel
contempo abitudini e bisogni; la gran massa degli addetti
all’agricoltura, con l’introduzione di queste nuove tecnologie si è
ridotto notevolmente di numero e le masserie, perduta la loro abituale
funzionalità, sono diventate vasti contenitori periodicamente utilizzati
ma destinati all’inevitabile degrado. Con la riforma fondaria, che ha
frazionato le grosse proprietà e ha stravolto la unitaria organizzazione
cerealicolo/pastorale, con l’avvento delle nuove tecniche produttive
(indotte dalla meccanizzazione) la masseria si è frantumata e sgretolata
dal momento che ha perduto quella unità di conduzione che era il
fondamento stesso del suo modo di esistere; nuove realtà economiche,
nuovi processi produttivi, nuovi modelli di insediamento nelle campagne,
hanno reso obsolete le vecchie strutture edilizie e per esse si è aperto
un orizzonte di abbandono e di decadimento anche strutturale.
Le macchine agricole, impiegate sempre più massivamente, hanno fatto
diventare il lavoro molto più semplice, riducendo la manodopera e
dilatando enormemente il tempo del non lavoro; le implicazioni, di
natura economica e sociale, sono state molteplici ed hanno investito
tanto le modalità dei processi lavorativi quanto le strutture della
proprietà fondiaria e la conduzione delle aziende; sono pure
profondamente cambiati, in senso soprattutto mercantile i rapporti tra
mondo agricolo e altri settori produttivi, con la fine di qualsiasi
forma di autoconsumo e l’impossibilità iniziale della piccola impresa
contadina di meccanizzare rapidamente ed efficacemente i cicli di
coltivazione, con le conseguenti difficoltà di far fronte alle richieste
del mercato e la necessità di abbandonare le terre e trovare nuove
occupazioni, anche lontano dai propri paesi. I cambiamenti sono stati
tali da spezzare l’unità tra il contadino e i suoi strumenti, ridurre
complessivamente a soli circa due mesi il tempo da dedicare alla
coltivazione dei cereali, trasformare l’agricoltura in un’attività
precaria, assistita e fortemente dipendente. In una situazione così
profondamente mutata, che richiede tra l’altro nuove forme di
imprenditorialità in centri urbani sempre più terziarizzati e, quindi,
non qualificabili più come città rurali, resta da chiedersi e da
valutare cosa resti, oltre alla memoria e alle collezioni museali, del
complesso ciclo produttivo di tipo tradizionale, in termini soprattutto
di mentalità, bagaglio tecnico e culturale, rapporto col territorio, in
una prospettiva futura che cerchi di trovare un corretto equilibrio tra
progresso tecnologico, convenienza economica ed esigenze di natura
ambientale.
Riteniamo sia ormai improcastinabile fermare questo processo di
inarrestabile degrado e bisogna fare in modo che le masserie trovino la
giusta collocazioni nella storia del territorio agricolo e sopravvivono
in modo attivo e come coproduttrici di reddito per testimoniare le tappe
più significative di tale storia; l’agriturismo forse può rappresentare
una ancora di salvezza se le autorità preposte collaborano alla buona
riuscita(2). È necessario che esse trovino la
giusta collocazione tra i “beni culturali che la nostra società deve
tutelare individuando corrette e moderne linee di sviluppo che ne
valorizzino oltre a salvaguardarlo il messaggio storico di cui sono
depositarie”; bisogna dare al contadino, al massaro, o meglio ancora
all’imprenditore agricolo, che manda avanti questa impresa, quel valore
aggiunto alla produzione di qualità di servizi e beni che dovrà
permettere a lui e alla sua famiglia di dedicarsi a titolo principale a
questa impresa per permettere all’uomo di città di godere ancora di quei
profumi, sapori e scenari agresti che ormai sono naturalmente scomparsi.
Lo scopo del presente volume è quello di ricordare specie ai non più
giovani la vita agreste che si viveva nelle masserie; la testimonianza
di un sempre maggiore interesse e del profondo amore che i cittadini
rivolgono alla storia e alle cose del proprio paese, ci ha spinto ad
avanzare la proposta di conservare oltre che su carta stampata anche su
pellicola e/o nastro magnetico(3) le varie vicende
delle vita quotidiana che hanno accompagnato la nostra gente nell’arco
di questo mezzo secolo(4) e più; si vuole
raccontare la storia dei nostri paesi non attraverso colti saggi o
manuali ma con pagine di vita vissuta testimoni del tempo, con parole
semplici ma fresche ed appassionate ripercorrere una vicenda umana che
non deve essere dimenticata non solo per la somma di ammaestramenti da
essa derivanti ma per la conoscenza del nostro popolo in ogni tempo. Con
l’avvento dei tempi moderni e del convulso progresso, dei ricordi, delle
usanze, dei modi di dire, si andava perdendo anche la memoria e rilevato
che ormai anche nelle famiglie più tradizionali si andava estinguendo
ogni ricordo, si è ritenuto che occorreva salvare il più possibile una
eredità di valore rilevante per la nostra storia di oggi; l’intento
dichiarato è quindi quello di offrire con una documentata mole di
ricerche anche con l’aiuto di valenti studiosi sia quello che i nostri
antenati ci hanno trasmesso, pratiche quotidiane, modi di dire, termini
e tradizioni, che stanno andando inesorabilmente perdute.
Ne verrà fuori un caleidoscopio di figure di situazioni, di aneddoti, di
quadri paesaggistici che fanno rivivere un mondo di umili ormai
tramontato ma di cui si nutre almeno per alcuni di una struggente
nostalgia; non saranno taciute le asprezze della povertà che un tempo si
pativa in modo assai duro, ma si esalteranno anche gli elementi
idilliaci i particolari toccanti, le esperienze della fanciullezza.
Rivivremo così immagini di persone care, di animali, di mestieri umili
scomparsi, di giochi, di oggetti casalinghi e di tanti scorci di
paesaggi di una campagna irripetibile; pagine che dobbiamo leggere per
capire come continuare noi, domani, il racconto come essere noi i
testimoni del nostro tempo. Non c’è futuro senza memoria.
Ci siamo preposti di illustrare nelle pagine che seguiranno:
1. la Valle dell’Agri oggetto della ricerca sulle masserie;
2. il progresso apportato dalle politiche sociali (Riforma Fondiaria)
che nel dopoguerra ha assegnato terre a famiglie bisognose spezzettando
le grandi proprietà e condizionando anche trasformazioni nelle restanti
masserie;
3. le politiche agricole che hanno modificato la mentalità
dell’imprenditore agrario e che hanno condizionato le trasformazioni ed
alcune volte la scomparsa delle masserie (colture estensive ed
allevamento allo stato semibrado);
4. la crisi dell’ovinicoltura e degli allevamenti in genere causata
dalla mancanza di manodopera e della spietata concorrenza di animali e
prodotti animali importati dall’estero, così come il declino naturale
della transumanza;
5. le mutate condizioni ambientali e di mentalità del lavoratore della
terra ormai proteso verso il telefonino e la parabola televisiva, che
non si accontentava più di un giaciglio per dormire e di un tetto per
coprirsi, ma necessitava delle sue comodità e dell’azione aggregante
rappresentata dal rientro in paese dove con la famiglia e gli amici
poteva smaltire la solitudine patita durante tutto il giorno rotta solo
dal belare delle pecore e dal latrare dei cani.
Il quadro geografico ed orografico della zona oggetto della ricerca, la
Val d’Agri rappresenta, nell’ambito dell’Appennino Lucano, un’area di
indubbio interesse geo-ambientale, non solo per le particolari
condizioni stratigrafiche e strutturali, ma anche per la configurazione
morfologica, che ha condizionato nel tempo gli insediamenti e le
attività umane; la valle si presenta come un ampio bacino a
configurazione pressoché ovale, avendo direzione appenninica NO-SE, e
tendente a chiudersi lungo la stretta morfologica ove ricade la diga del
Pertusillo.
Una elevata corona montuosa, costituita ad ovest dai massicci calcarei
di piattaforma e ad est dalle unità del Complesso Lagonegrese, su cui
poggiano successioni plastiche fliscioidi, delimita un fondovalle
pressoché pianeggiante, inciso da una rete idrografica localmente fitta
e ramificata, che nel tempo ha deposto potenti successioni clastiche. I
centri urbani più antichi sorgono per la maggior parte su dorsali
calcare difficilmente accessibili e facilmente difendibili, mentre gli
insediamenti più recenti insistono a fondovalle; sull’evoluzione storica
di questi centri hanno influito vari fattori geo-ambientali, tra cui la
frequente e marcata sismicità(5) che, nel tempo,
ha indotto eventi ad elevata capacità distruttiva. In una realtà tutta
imperniata sull’elemento assiale costituito dal corso del fiume, la
parte alta della valle si struttura naturalmente come area distinta da
quella limitrofa grazie ad una serie di rilievi dall’altezza variabile;
sulla sponda sinistra, l’orografia ha caratteri più accidentati, e le
cime superano tutte i 1000 mt. di altitudine, culminando nel picco del
Volturino (1835 mt.). Sulla sponda destra, alle montagne si alternano
rilievi collinari, con numerosi valichi che consentono di raggiungere
rapidamente e agevolmente il parallelo Vallo di Diano; le alture dalle
quali si fronteggiano Montemurro e Spinoso determinano un brusco
restringimento della vallata, che da Marsico a Grumento si dispiega in
tutta la sua ampiezza, e preludono alla strettoia delle gole di S.
Martino, oltre le quali il paesaggio si trasforma rapidamente con
l’affacciarsi delle formazioni calanchive. Il fiume Agri è il dato
saliente e quasi unico dell’idrografia, visto che riceve pochi affluenti
e che questi –con la sola eccezione del Maglia – hanno regime
torrentizio e sono semplici fossi; dalle sorgenti –poste a 850 mt. di
altezza, sulle pendici meridionali del massiccio della Sellata – il suo
corso scende rapidamente fino a Marsico Nuovo, da dove si assesta su una
quota intorno ai 600 mt. e si snoda placido alla confluenza col torrente
Sciaura, ai piedi della collina di Grumentum. Da questo punto in poi il
fiume diventa lago, e la valle riacquista in parte quella fisionomia di
bacino lacustre che presentava nella preistoria remota.
Superata la diga del Pertusillo, il fiume scorre fra le gole fino a San
Martino d’Agri dove la valle si allarga e le acque suddividendosi in
canali nell’alveo ghiaioso formavano impaludamenti che dispiegavano la
loro azione miasmatica (specie la malaria) su Gallicchio, Aliano,
Alianello, Missanello e Sant’Arcangelo prima che fosse realizzata la
bonifica del territorio; riceve poi come affluente la Fiumarella di
Roccanova e il fiume Sauro e lambito il territorio di Caprarico il fiume
forma un altro invaso perché interrotto dalla diga di Gannano (diga di
irrigazione per i terreni della pianura ionica da Metaponto a Nova Siri)
e poi sfocia nel mare.
Sono trascorsi cinquant’anni da quando ebbe inizio la riforma agraria(6),
la guerra aveva acuito i problemi non risolti del fascismo ed i
cittadini, i lavoratori della terra, i meno abbienti, ritornati dal
fronte, si resero conto della loro situazione drammatica. Bisognava
risolvere il problema(7) con urgenza e dare pane e
lavoro alle classi più povere, a quelle classi che erano vissute fino ad
allora solo di rinunzie e privazioni; la problematica che già al tempo
di Cicerone era attuale si rivelò, con le dovute differenze, in un certo
senso, analoga nel dopoguerra e precisamente tra il 1949 e il 1951/52.
Infatti in questo periodo prese avvio la riforma agraria(8)
che perseguiva lo scopo di espropriare centinaia di migliaia di ettari
incolti, assegnandoli a contadini poveri affinché fossero messi a
coltura. I provvedimenti sul piano sociale tendevano a rendere
proprietaria quella classe di contadini per la quale, sin dalla fine del
secolo scorso, illustri meridionalisti si erano battuti indicandone la
prima causa dello squilibrio sociale; il monito poi delle violenti
agitazioni culminate nel sangue nel 1949, accelerò il processo di
riforma. In questo contesto si prospettò, specie nel Mezzogiorno, ma
anche nella restante parte del paese, la questione della riforma
agraria, la quale, ispiratasi ai criteri espressi da Manlio Rossi Doria,
nonché dalla corrente di democrazia laica di cui egli era l’espressione,
si realizzò di li a poco. La riforma agraria8 fu attuata nel meridione
in Puglia, Basilicata e in Molise ed ebbe come scopo primario la
divisione del latifondo rispettando le piccole e medie proprietà
fondiarie, un aiuto ai contadini poveri nonché la risoluzione dei tanti
problemi della piccola e media borghesia locale; perseguiva anche
l’intento di dare assistenza ai singoli contadini o a quelli associati,
nella progettazione ed esecuzione della trasformazione fondiaria ed
agraria, nella promozione della costituzione di Consorzi di Bonifica e
di Irrigazione, nella creazione e gestione di Aziende Sperimentali e di
Centri di Meccanizzazione Agricola. Si provvide ad espropriare in tutta
Italia (la riforma si attuò non solo nel Sud, ma anche nel Centro-Nord
d’Italia es. Maremma Toscana e Delta padano) terre di vasta estensione,
ed i proprietari vennero compensati con Titoli di Stato al 5% redimibili
in 25 anni. Le terre espropriate, salvo alcune estensioni adibite per
uso pubblico, furono frazionate dagli Enti di Riforma in poderi, in
media di dieci ettari o poco meno, ritenuti idonei e sufficienti a far
vivere, con il proprio lavoro, un medio nucleo familiare(9).
Indiscutibilmente il merito maggiore della Riforma Agraria è stata la
vittoria che gli Enti di Riforma hanno avuto sulla malaria, specie nelle
zone del golfo di Taranto che si estendevano da Metaponto a Sibari ed
oltre; in dette zone la malaria era uno dei tanti flagelli del Sud che
ha mietuto moltissime vittime(10). Dal momento in
cui ha operato la riforma agraria(11), che ha
eseguito bonifiche sul territorio, il numero delle vittime della
malaria, già sceso notevolmente con l’introduzione del DDT nel
dopoguerra, si è azzerato negli anni 50; non possiamo dire che per lo
Stato fu una operazione economica, ma fu una operazione di elevato
carattere sociale in quanto la riforma non solo evitò contrasti sociali
ma sollevò, e non solo in Basilicata, il popolo dalla miseria, aggravata
dagli effetti della guerra. I molti miliardi spesi dal Governo per
strade, case per contadini, edifici scolastici, chiese, ospedali, lavori
di bonifica idraulico-forestale, per macchine agricole, per acquisto di
animali sono l’esempio. Scriveva G.N. Molfese in “Memorie Storiche di
Basilicata” - Isbam Roma 1980 - sull’argomento “non posso però tacere
due aspetti negativi della riforma da me osservati; il primo è
rappresentato dalla considerazione che, della riforma agraria, almeno
per quanto riguarda Policoro, si sono avvantaggiate la maggior parte
delle popolazioni che gravitavano intorno al suo territorio
(Sant’Arcangelo,Tursi, Pisticci, Rotondella, Valsinni, S. Giorgio
Lucano, Craco), non invece, se non in misura quasi insensibile, gli
altri paesi di montagna quali Terranova di Pollino o i nobilissimi paesi
albanesi di S. Paolo e di S. Costantino Albanese. Il secondo è
costituito dal fatto che, nella zona di Policoro, sino a qualche
chilometro prima del bivio di Novasiri, in una pianura sino a 50 anni fa
infestata dalla malaria (oggi trapunta da bianche casette dell’Ente
Riforma), una volta si ergevano alberi giganteschi dove vivevano
indisturbati il capriolo, il cinghiale, la lepre, il tasso, l’istrice e
l’elenco potrebbe ancora continuare. Il bosco di Policoro era
un’antichissima, meravigliosa selva conservata intatta nei secoli sino
al dopoguerra, estesa per circa 200 ettari; in detta selva vi erano
alberi introvabili in tutta la zona del Mediterraneo.
Una flora unica ed antichissima, una fauna da anni scomparsa in
Basilicata; questa unica isola di verde boschivo e di rifugio per
animali selvatici fu distrutta per far posto ai poderi dell’Ente
Riforma. Il mio disappunto trova l’unico conforto nel fatto che quel
terreno ha dato lavoro e pane ad una miriade di contadini desiderosi di
lavoro e di guadagnare un tozzo di pane. Solo questa considerazione
acquieta il mio rimpianto, il mio disappunto e il ricordo nostalgico
della mia adolescenza”.
Il problema della riforma agraria è che è stata vissuta da noi piccoli
proprietari terrieri in modo differente dai grandi latifondisti, i quali
(alcuni vi erano anche nella nostra zona) furono costretti a cedere allo
Stato a prezzo politico parte delle loro proprietà che poi sarebbero
state cedute ai contadini; con la fine della guerra la situazione nella
nostra zona era critica dal momento che, nonostante nei paesi non
avessimo sofferto la fame ed avvertito in modo traumatico il peso della
guerra, si evidenziarono all’orizzonte avvisaglie che di lì a poco si
sarebbero manifestate in tutta la loro gravità. A noi proprietari
terrieri fu imposto(12), a secondo dell’estensione
del terreno, di dare lavoro, in base alla legge sulla manodopera
obbligatoria, ad un certo numero di braccianti disoccupati: era una gran
massa di lavoratori, che non potevano trovare altra occupazione che
nell’agricoltura (infatti nella nostra zona non vi sono industrie), e
fummo obbligati ad assumerne per un certo numero di giornate (si dava
loro giustamente la possibilità di guadagnare un salario e così
provvedere al mantenimento della famiglia). Nelle condizioni politiche
in cui si trovava l’Italia meridionale, la riforma agraria ha creato dei
piccoli poderi agricoli autosufficienti, ponendo fine ad una
disoccupazione giustamente ribelle, legando numerosi contadini alla
terra, al proprio podere, alle colture a cui erano abituati; venne così
ridimensionata, anzi eliminata, la grande ed estesa proprietà fondiaria.
La riforma agraria, dunque nel suo complesso, per l’Italia meridionale,
ed in particolare per la Basilicata, è stata, per l’epoca in cui è
avvenuta, un fatto positivo ed il suo costo fu notevole, tanto che, se
oggi, alla distanza di trent’anni, è commisurato ai risultati, sembra
ancor più elevato; chi, come chi scrive, conosceva il tenore di vita di
vita del contadino della Basilicata prima della riforma, può affermare
che prima di tutto ha dato pane a molte bocche, ha elevato di molto, il
tenore di vita a numerosi diseredati e senza mestiere.
L’agricoltura della Basilicata -come ogni altro aspetto della vita
sociale e produttiva della regione - è stata caratterizzata da profonde
contraddizioni, che derivavano dal contrasto fra il vecchio e il nuovo,
fra la realtà e le possibilità; una regione povera da sempre, per lo
sfavorevole rapporto fra la densità umana e le risorse disponibili, in
pochi decenni ha visto ribaltare tale rapporto, per merito della
bonifica delle pianure e per la forte riduzione della popolazione dedita
all’agricoltura. Ciò malgrado i parametri produttivi e di reddito sono
ancora quelli di un’area depressa, come se nulla fosse accaduto, o
quasi; in realtà, nell’ultimo trentennio si sono verificati mutamenti
profondi, ma il tempo non è stato sufficiente - e i metodi adottati,
forse, non sono stati i migliori- perché dagli schemi produttivi e di
vita derivati da un lungo passato di povertà e di isolamento, si
passasse a nuove strutture sociali e produttive. La Basilicata attuale
non è potenzialmente una regione povera, e tanto meno lo sarà quando i
programmi irrigui saranno stati realizzati; della intera superficie
territoriale (999.224 ettari) solo la metà è montagna, il 10 per cento
circa è costituito da pianure irrigue, e la restante parte collinare
comprende i migliori terreni asciutti del Mezzogiorno. Le prospettive di
sviluppo (oltre al piano irriguo, bisognava considerare i progetti
zootecnici, le direttive comunitarie e in generale, un più sentito
interesse regionale e nazionale per l’agricoltura non ultimo la scoperta
del petrolio in Val d’Agri), sono rimaste disattese per i motivi che in
ordine di importanza sono: il limitato impiego dell’acqua nelle grandi
pianure; la stasi di sviluppo delle valli interne (Val d’Agri);
l’abbandono di vaste aree montane e collinari (a cui si contrappongono
l’impossibilità di sviluppo delle zone troppo densamente colonizzate), e
il ritorno alla monocultura in collina. A tutto ciò bisogna aggiungere
un generale invecchiamento della popolazione agricola, la sfiducia dei
giovani, cui ripudia il solo pensiero di un ritorno alla terra, la
stanchezza di quasi tutte quelle forze che sono state impegnate nella
bonifica e nella riforma in tempi relativamente recenti.
La Basilicata non ha, come per esempio l’Abruzzo, una montagna che
emerge e si stacca nettamente dalle altre parti del territorio, ma dei
territori montani di media altitudine che degradano nella collina e,
questa, nella pianura, con una certa continuità che rende difficile o
impossibile una netta distinzione fra i tre ambienti; una continuità
che, come vedremo, rende possibili nel territorio alcune forme di
integrazione dell’attività produttiva, che altre regioni invece devono
ricercare all’esterno e a distanze maggiori.
Il modello di utilizzazione di gran parte del territorio interno della
regione, e più in generale del Mezzogiorno, è radicalmente modificato
negli ultimi decenni, in seguito alla riforma, alle grandi opere di
bonifica, alla politica di miglioramento fondiario e, per motivi
esterni, all’esodo dalla regione e dall’agricoltura di un elevato numero
di forze di lavoro alla ricerca di migliori condizioni di vita. Il
centro della vita comunitaria del passato, il “borgo”, era generalmente
posto a media altitudine (600-800 metri), al disopra dell’area dei
coltivi (“agro”), al confine con i pascoli e i boschi della fascia
superiore; una posizione probabilmente dovuta a motivi di difesa (da
incursioni o dalla malaria), ma anche derivata da esigenze di vita e di
efficienza produttiva, imposte dalle condizioni dell’ambiente fisico e
dalle strutture latifondistiche feudali e post-feudali. Da tale
posizione risultava agevole scendere all’agro per coltivare il grano, i
legumi, la vite e l’ulivo, e salire al pascolo per la monticazione dei
bovini e degli ovini, al bosco per seguire l’allevamento semilibero dei
suini o alla macchia per i caprini; un sistema che garantiva la
conservazione della fertilità e della vegetazione, attraverso rotazioni
semplici e turni di riposo (mediante norme stabilite e accettate, che
regolavano i tempi e le successioni di pascolamento e il carico degli
animali sui pascoli e nei boschi). Tale sistema era differenziato anche
nel possesso e nella gestione: la proprietà privata, necessariamente
frammentata, nell’agro; quella feudale nei pascoli e nei boschi
(sostituita in seguito da quella comunale o più raramente da quella
privata), dove l’uso comunitario era garantito alle università comunali
da capitoli o altri patti, o dall’uso civico ancora in vigore. Questo fu
il motivo anche delle enormi controversie che sorsero fra i feudatari,
le università e i privati e che furono risolte solo con la istituzione
di un tribunale speciale che trattò tutte queste controversie; in tali
zone, poi, si aggiungeva la monticazione estiva della grande
transumanza, che aveva il polo invernale nelle “marine” e in certe aree
di media collina o montagna ed era sostenuta da una valida
organizzazione e strutturazione del territorio. Una perfetta
integrazione fra il monte e la media valle, fra le montagne e le zone
rivierasche e collinari, fra il feudo e i contadini, fra l’esercizio
dell’agricoltura individuale e quello collettivo; un modello di
utilizzazione delle risorse che si manteneva in equilibrio con le
possibilità e le esigenze dell’ambiente fisico e vegetazionale e che
consentiva una vigorosa vita comunitaria nel borgo. Un sistema curtense,
per molti aspetti ammirevole, che però si mantenne inalterato e rigido
al di là del suo tempo, senza accogliere le sollecitazioni culturali
che, in molte altre parti d’Europa e di Italia, avevano da tempo portato
alla sua progressiva distruzione.
Solo l’uscita dal borgo e l’insediamento in campagna -favorito dalle
infrastrutture civili (strade, ferrovie) che via via andavano sorgendo-
ha permesso a parte di quelle popolazioni di rompere gli antichi schemi:
una rottura che in parte è stata imposta dalla recente “riforma” o
favorita dalla politica dei miglioramenti fondiari; dove ciò non è
accaduto e la “gente” è rimasta nel borgo, è stato l’esodo degli ultimi
decenni a distruggere i modelli antichi, una rottura dettata da realtà
esterne, troppo tardiva e senza fasi intermedie, che ha portato
all’abbandono massiccio dei villaggi, dell’agro, dei pascoli. Da queste
due diverse forme di evoluzione, sociale e strutturale, sono derivati
paesaggi contrapposti: da un lato le vaste aree colonizzate, dall’altro
i borghi antichi, quasi spopolati, attorniati da aree deserte (aree
abbandonate). In sintesi, la collina-media montagna sostanzialmente
presentano due paesaggi agrari: nel primo, vi sono le aree colonizzate,
dove le potenziali capacità umane sono frustrate dalla mancanza di
spazio (aziendale e comprensoriale); nel secondo, vi sono le aree
abbandonate, dove lo spazio e le risorse non sono utilizzate, per la
mancanza di una strutturazione produttiva che consenta all’uomo di
accedervi e di operare. Ci siamo soffermati più a lungo su questa
pianura interna, oggetto del nostro studio, perché se tanti ostacoli
allo sviluppo si incontrano in un’area favorita dalla natura e
dall’intervento umano, si può immaginare quali difficoltà si dovranno
superare nella restante parte dell’interno, decisamente più
svantaggiata; è il sintomo più evidente di un male che ha radici lontane
e attuali. Le prospettive di sviluppo di questa zona sono rappresentate
da una agricoltura per la quale l’efficienza produttiva - come risultato
della razionalità del progresso tecnico e organizzativo- resti
l’obiettivo da raggiungere, tenendo ben presente, però, che senza
un’adeguata strutturazione la risposta agli stimoli esterni (aventi come
fine lo sviluppo o l’adeguamento alle esigenze del mercato interno o
internazionale) non viene; oppure è lenta, faticosa, tardiva e quindi
inutilmente dispendiosa per tutti. Non soltanto non si raggiunge
l’efficienza tecnica, produttiva, economica, ma nemmeno quella maggiore
efficienza sociale, che la collettività trae da una agricoltura
progredita e ben organizzata, e che si esprime nel presidio e nella
tutela dell’ambiente e in una vigorosa partecipazione alla vita sociale
e politica della comunità.
Porre le basi a che un’agricoltura di qualità produca prodotti di
“qualità” in modo che il prodotto valichi le frontiere della regione e
della nazione ed il suo valore aggiunto permetta all’imprenditore
agricolo di dedicarsi ad un’attività agricola abbastanza remunerativa
per l’azienda e per coloro che vi lavorano; l’apertura di mercati
stranieri e specie verso il medio oriente è già una realtà per i nostri
prodotti “il prodotto doc di Basilicata”.
La crisi dell’ovinicoltura ormai è accertata e reinserita nel contesto
più ampio delle problematiche economiche che investono tutta
l’agricoltura nazionale e più in particolare delle difficoltà che
affliggono l’intera zootecnia; i fattori critici che contribuiscono a
rendere difficoltoso il rilancio delle produzioni biotecniche e
soprattutto nel nostro caso della pastorizia, vanno individuati su
diversi fronti: - mancati investimenti per la scarse disponibilità di
capitali; - alti costi di produzione; - difficile reperimento della mano
d’opera specializzata e soprattutto nella sfiducia degli imprenditori
nell’investire in zootecnia.
Altro elemento non poco condizionante è poi individuabile nella presenza
pressante di animali e carni provenienti dai paesi esteri, che
penalizzano pesantemente il mercato interno, a motivo della forte
concorrenza esercitata dai prezzi dell’offerta del prodotto di
importazione; la pastorizia italiana è quindi fortemente soffocata
dall’ingresso costante di animali e carni. I nostri fornitori
privilegiati sono diventati infatti i paesi dell’est europeo, dove, per
effetto delle profonde diversità civili ed economiche, i costi di
produzione sono irrisori rispetto ai nostri; il basso tenore dei prezzi
praticati da questi paesi fa spesso dimenticare all’acquirente italiano
che lo standard qualitativo dei prodotti nazionali è di gran lunga
superiore a quello della merce estera.
L’immissione nei circuiti distributivi di questi prodotti ha anche
determinato disaffezione da parte di quella fascia di consumatori che si
stava affacciando da poco sul mercato, come ad esempio le nostre regioni
settentrionali; gli allevatori italiani hanno quindi preso coscienza di
tale situazione ed hanno capito che per restare sul mercato è
indispensabile attivare tutti i canali possibili per la difesa del
settore.
Diverse iniziative sono state intraprese in tal senso, quali:
sensibilizzazione dell’opinione pubblica tramite la stampa specializzata
e non; utilizzo dei mezzi di comunicazioni audiovisivi e campagna
promozionale atta a spronare il consumatore ad utilizzare, nel caso
delle carni, quelle derivanti dalla produzione nazionale in quanto
leggere e facilmente digeribili; utilizzo delle carne in periodi diversi
da quelli tradizionali (Natale e Pasqua), ed instaurazione della
cosiddetta “destagionalizzazione dei consumi”. La sola pubblicità però
non basta a far restare sul mercato, occorre anche operare su fronti
diversi, migliorando la struttura degli allevamenti a costi competitivi
mediante: il miglioramento genetico degli allevamenti, con particolare
riguardo ai controlli sanitari e quindi igienici, l’ammodernamento
dell’impresa con macchine idonee, in modo che il produttore faccia il
salto di qualità da allevatore ad imprenditore.
La struttura di base della nostra ovinocultura è stata da sempre
impostata su razze rustiche a prevalente attitudine “da latte”,
derivante soprattutto da fattori ambientali caratteristici delle aree
meridionali insulari del nostro paese, dove è maggiormente concentrato
il patrimonio ovino ed ove si tende ad alimentare il bestiame
prevalentemente con il prodotto dei pascoli. Il ricorso limitato ai
foraggi induce però gli allevatori ad eliminare precocemente dal gregge
gli animali da macello; si è quindi consolidata la produzione
dell’agnello da latte con peso in carcassa molto basso (6-8 kg), mentre
si è andata sviluppando la mungitura per affiancare il reddito
proveniente dalla produzione del latte a quello insufficiente della
carne. Ne è quindi derivata una tendenza all’adozione dell’allevamento
estensivo, pesantemente condizionato da fattori ambientali e
pedo-climatici; l’allevamento ovino dovrebbe quindi tendere sempre più
ad avere un carattere più stanziale, organizzato nell’ambito di aziende
il più possibile riunite in associazioni. Altri importanti fattori sono
quelli relativi al reperimento di mano d’opera specializzata, alla
mancanza di strutture commerciali per la valorizzazione delle produzioni
e delle difficoltà a rimuovere le forme tradizionali di allevamento,
sostituendole con tecniche moderne ed economicamente valide. Un migliore
sviluppo dell’ovinicultura potrebbe contribuire, anche se in misura
contenuta, alla soluzione del problema del rifornimento di carne nel
nostro paese; appare indispensabile quindi l’introduzione e l’estensione
di nuove tecnologie per assicurare all’allevatore una adeguata
redditività. L’allevamento ovino, a torto considerato un’entità
marginale della nostra zootecnia, interessa circa 300.000 aziende che
concorrono a mantenere infatti l’equilibrio socio economico delle zone
collinari e montane del nostro paese, dove di norma trovano il loro
naturale insediamento. Non bisogna inoltre tralasciare che la pastorizia
vanta tradizioni che risalgono all’origine dell’uomo e svolge una
precisa funzione ambientale(13); la presenza delle
greggi, specialmente nei territori disagiati, contribuisce alla difesa
idrogeologica del territorio e frena l’esodo delle popolazioni verso i
grandi centri urbani. L’abitudine a consumare la carni ovi-caprine, nel
passato, era circoscritta alla zone meridionali insulari del nostro
paese, dove gli allevamenti sono per lo più concentrati; tale
concentrazione non consentiva una regolarità dei flussi produttivi, che
subivano oscillazioni in relazione ai frequenti eventi siccitosi che
creavano problemi di alimentazione degli animali. Di conseguenza si è
delineata una struttura produttiva non in grado di fornire la quota
aggiuntiva di prodotto che il consumo andava richiedendo, anche a motivo
della tendenza degli allevamenti nazionali a possedere un patrimonio di
base di indirizzo da latte piuttosto che da carne. Si è aperta così la
via dell’importazione e l’ingresso massiccio del prodotto estero,
nonostante le diversità qualitative, ha provocato turbative sui nostri
mercati in quanto i prezzi d’offerta di queste merci sono sempre più
decisamente competitivi. La crisi della ovinicultura e della transumanza
ha avuto in conclusione con il tempo varie cause e fra esse: la
deficienza numerica dei pastori, sempre più rari, soprattutto di quelli
qualificati, capaci non soltanto di condurre le greggi ma di
sorvegliarle e curarle nelle esigenze specifiche; l’isolamento
psico-fisico a cui era sottoposto il pastore durante il periodo del
trasferimento al piano o al monte; la trasformazione agraria di molte
terre con colture più remunerative; il calo dei prezzi di alcuni
prodotti (lana) ed i diminuiti traffici commerciali per la concorrenza
tra i vari paesi; i pesi fiscali sia sulla mano d’opera che sul
capitale.
Le abitazioni in paese ed in campagna, che potevano rappresentare tutta
una gamma di riparo dalla grotta al pagliaio, dalla casa “in ciuci” al
casino di villeggiatura (anche queste sono scomparse o in via di
estinzione per cui descriverli può rappresentare un documento di storia
passata) non erano più sufficienti al lavoratore che alla sera voleva
rientrare in paese ed usufruire di tutte quelle comodità che il
progresso gli aveva appena fornito. Nei centri abitati la casa rurale
non differiva molto nelle caratteristiche costruttive, nelle forme
stilistiche e nella distribuzione ambientale, dalle case nelle varie
zone della Lucania; nella maggioranza dei paesi l’agricoltore, specie se
piccolo proprietario conduttore diretto o piccolo fittuario oppure
salariato, abitava in un unico vano terraneo con l’ingresso allo stesso
livello della strada: tutt’al più due vani intercomunicanti in uno dei
quali era il focolare basso. Il pavimento era quasi sempre a ciottoli,
raramente ammattonato; l’agricoltore di medio ceto abitava, invece, in
case a due piani e aventi il rustico sottoposto all’abitazione e la
scala di accesso al piano superiore poteva essere esterna o interna
(raramente mancavano ai locali soprani i balconcini con ringhiera di
ferro). Un carattere distintivo per le case dei comuni posti alle più
elevate quote altimetriche era la porta d’ingresso a due battenti con
portella superiore in uno di essi e “a gattera(14)”
in quella inferiore; dati i rigori invernali e la caduta, talvolta
abbondante, della neve, la portella evitava di aprire metà della porta
per far entrare un po’ di luce ed aria senza raffreddare l’ambiente
riscaldato dal fuoco continuo che bruciava nel focolare e di far uscire,
specie se mancava la gola del camino, i resti della combustione e gli
odori che esalavano dalla preparazione delle vivande (non mancavano
nuove case rurali costruite alla periferia dei paesi da rimpatriati
dalle Americhe, senza troppe differenze stilistiche da quelle già
descritte). La Lucania nel suo vasto e tormentato territorio di 9987
kmq., presenta caratteristiche fisiche ed economiche molto varie da zona
a zona, cui corrispondono varietà di insediamenti e di forme di
abitazione, risultanti dalle diverse condizioni ambientali, che vanno
dalla natura geologica del suolo e del rilievo al clima, dai sistemi
colturali alle peculiari necessità demografiche e sanitarie, dalle
tradizioni alle esigenze di difesa. Questi fattori hanno indotto l’uomo
a modificare l’ambiente per adattarlo ad offrire un sicuro ricovero a sé
e ai familiari, più spesso a subordinare la forma e la struttura delle
abitazioni alle diverse condizioni ambientali (clima soprattutto) ed
alle esigenze topografiche; da ciò diversi tipi di abitazione rurale:
dalla grotta e dal pagliaio al “casino” di villeggiatura, differenti
nella posizione occupata, nella forma geometrica e nella capacità
(numero di vani), nell’uso e nella esposizione, nel tipo di copertura,
in tutta l’architettura rurale insomma, i cui motivi funzionali sono
originati da determinate soluzioni di necessità tecniche, economiche e
climatiche, vale a dire da bisogni ben circostanziati di pratica ed
effettiva utilità. Mutando nel tempo questi fattori, si vengono anche a
modificare la struttura e la disposizione ambientale delle dimore, con
variazioni talvolta soltanto estetiche, talvolta anche architettoniche,
che svisano e deformano il passato artistico delle costruzioni e della
più giusta utilizzazione.
Il progresso sociale degli ultimi decenni ha lentamente sostituito la
secolare visione del mondo e della vita delle popolazioni della città e
della campagna meridionale con valori e modelli di comportamento che si
sogliono definire consumistici dalla società del benessere; il pastore,
o colui che lavora nelle masserie, non si accontenta più della casa in
campagna, ma desidera rientrare in paese per godere della famiglia,
degli amici e delle comodità che la casa del paese gli offre anche se
questo gli costa molto sacrificio. La masseria che oggi a stento
sopravvive di fronte alle mutate condizioni economiche culturali e
sociali, indubbiamente rappresenta tanta parte nella storia delle
tradizioni popolari del nostro territorio; se si vuole intenderla nella
sua più profonda funzione di centro produttivo determinante per
l’economia locale, essa ha elaborato un tipo di civiltà rurale ed una
particolare organizzazione del lavoro agricolopastorale. Una folla di
massari, di pastori, di mandriani,di contadini, di donne, di fanciulli
impegnati quotidianamente in una condizione di lavoro subalterno
indifesi dallo Stato (prima delle leggi che tutelavano i lavori in
agricoltura), dai proprietari, dalla natura e dal destino, ha condotto
per secoli una vita misera ma con dignità e con saggezza: è una storia
umana che deve essere narrata. Il periodo di attività lavorativa più
inteso e febbrile nella masseria era relativo al tempo della semina e
della mietitura e della trebbiatura; le descrizioni che seguiranno, nei
prossimi capitoli, sono tipiche delle centinaia di masserie (grandi,
medie e piccole) che si sono costituite da secoli nella campagna lucana
della Valle dell’Agri (compresa la zona di Sant’Arcangelo).
B. ENTE PER LO SVILUPPO DELLA RIFORMA FONDIARIA DELLA PUGLIA,
BASILICATA E MOLISE
a. Elementi di economia agraria applicata alla riforma
La formazione della nuova proprietà contadina(15).
In modo sostanzialmente diverso le passate distribuzioni di terre e
colonizzazioni, che si sono avvicendate nel nostro Mezzogiorno negli
ultimi centocinquanta anni, hanno contribuito alla formazione e allo
sviluppo della proprietà contadina; numerose furono infatti le
quotizzazioni dei demani comunali o di terre di diversa origine, ma si
risolsero tutte in una semplice distribuzione di quote a contadini
obbligati, con contratti enfiteuci o comunque a miglioria, a eseguire
certe tradizionali trasformazioni, generalmente di modesta entità.
Nessuna efficiente assistenza tecnica o creditizia fu invece loro
concessa; distribuite le terre, i nuovi proprietari furono così lasciati
al loro destino e il tempo operò quindi la selezione naturale degli
uomini, portò a riaccorpamenti e ad abbandoni di terre, e non di rado
creò lodevoli esempi di trasformazioni dovute esclusivamente
all’iniziativa e al lavoro talvolta di generazioni di contadini. In
altri casi la colonizzazione dovuta all’intervento dello Stato fu
realizzata con criteri che potevano ritenersi fortemente paternalistici:
alla trasformazione fondiario-agraria delle terre non si fecero
partecipare le famiglie assegnatarie, ovvero esse vi contribuirono in
minima parte. Per sostenere i bilanci deficitari iniziali delle nuove
aziende contadine si ricorse infine a pseudocontratti mezzadrili a
reddito garantito, come era avvenuto in Agro Pontino, o addirittura, a
contratti iniziali di salariato che conducevano poi, man mano che i
redditi poderali prendevano corpo, a forme di compartecipazione e quindi
alla proprietà. Non occorre qui sottolineare quanto di negativo
esprimessero quei sistemi di assistenza finanziaria e quei rapporti
contrattuali agli effetti della formazione e della preparazione della
famiglia contadina nuova proprietaria: ovunque quei metodi furono
adottati, il reddito garantito e il lavoro a salario avevano
indubbiamente ostacolato la maturazione e lo sviluppo delle capacità
imprenditive delle famiglie assegnatarie. Nella colonizzazione della
riforma era prevalso invece il criterio di utilizzare al massimo il
lavoro contadino e di sollecitarne quelle capacità di iniziativa che
erano generosamente profuse in tutte le zone di sviluppo spontaneo della
azienda contadina, nel nostro Paese ovunque diffusa ma particolarmente
nell’Italia meridionale, senza privarlo tuttavia dell’assistenza
tecnica, economica, finanziaria e sociale, aiuto indispensabile perché
il contadino potesse agevolmente e sollecitamente inserirsi in una
economia moderna.
Questa impostazione era chiaramente contenuta nella relazione al disegno
di Legge per la riforma generale e in alcune norme delle Leggi di
Riforma; su tali direttive la riforma in Puglia, Lucania e Molise ha
operato al fine di trasformare, assieme alle terre, gli uomini e creare
con questi una sana indipendente e moderna proprietà contadina.
È da rilevarsi inoltre che la maggior parte delle nuove famiglie
contadine assegnatarie proveniva dal bracciantato, categoria avvezza ad
una economia precaria e ad un bilancio aleatorio che si misurava a
giornate o a settimane, ad un lavoro individuale generico ed estraneo
alle vicende produttive ed alla terra stessa, ad una assistenza sociale
indiscriminata talvolta paternalistica, ad un atteggiamento fatto di
rivendicazioni, e al tempo stesso di apatia nei confronti dello Stato;
mentalità e disposizioni diverse presentavano invece coloro che già
possedevano o avevano posseduto una piccola proprietà, o quelli che
appartenevano alle categorie dei compartecipanti, dei coloni, di coloro
cioè che si rivolsero alla terra non con semplici rapporti di lavoro
avventizio ma nello spirito della partecipazione ai rischi della
produzione con rapporti associativi alla impresa o con rapporti di
piccolo fitto e di terraggeria. E questi si inserirono, ovviamente, più
facilmente nella nuova realtà che loro aveva offerto la riforma,
manifestando così una più rapida maturazione ed un più facile sviluppo
delle capacità imprenditive ed amministrative necessarie per condurre un
pur limitato fondo. Comunque, per ottenere l’immediato inserimento della
famiglia assegnataria di qualsiasi provenienza nell’azione della
riforma, si era proceduto, alla assegnazione immediata delle terre, man
mano che esse venivano in possesso dell’Ente e senza attendere che su di
esse si fosse iniziata una qualche trasformazione. Vero è che nel
periodo iniziale, onde consentire una più vicina assistenza alle
famiglie assegnatarie e per gradualmente avviarle alla proprietà
contadina, fu dall’Ente applicato il già citato contratto provvisorio di
compartecipazione con promessa di vendita; ciò consentì, nei primi due
anni, un periodo di transizione che bene servì ad agevolare una prima
trasformazione delle famiglie bracciantili in famiglie di coltivatori
diretti. Fin dall’inizio, dunque, gli assegnatari furono inseriti nelle
vicende della trasformazione fondiario-agraria progettata ed avviata
dall’Ente, e a questa gli assegnatari fornirono la loro mano d’opera
ricevendo per le loro prestazioni compensi che gradualmente assunsero la
forma e la sostanza di contributi finanziari erogati dall’Ente su loro
richiesta per le varie prestazioni manuali. Così per gli impianti
arborei, che tanta importanza avevano nella trasformazione fondiaria
promossa dalla riforma in queste regioni, alla preparazione del terreno
effettuata dall’Ente con i suoi mezzi meccanici seguivano l’impianto e
le cure eseguite dagli stessi assegnatari, con piantine fornite anche
dall’Ente. La conservazione del contratto provvisorio in rapporto di
pieno possesso e poi la adozione del contratto definitivo di vendita
contribuirono inoltre sostanzialmente alla evoluzione delle famiglie
contadine, alla formazione di una sempre più sentita responsabilità di
gestione e al libero esprimersi delle capacità di iniziativa e di
impresa; anche per gli ordinamenti colturali, da adottarsi nei
seminativi poderali, si era gradualmente proceduto, facendo applicare e
diffondere le nuove formule di rotazione suggerite dai progetti, man
mano che se ne ravvisava la possibilità e l’opportunità. Dopo qualche
tentativo forse prematuro di introdurre su larga scala nuove colture e
particolarmente le foraggere, ci si era orientati sul mantenimento della
coltura granaria nei poderi ancora non sufficientemente sviluppati e nei
quali il grano assicurava ancora più di ogni altra produzione
confortanti redditi, e sollecitando invece la introduzione e la
diffusione di più evolute colture industriali, quali la bietola e le
piante di seme oleoso, ortive, foraggere, e di bestiame da reddito nei
poderi che presentavano la necessaria attrezzatura e la idonea maturità.
In tal modo con la evoluzione della trasformazione procedeva quella
degli ordinamenti produttivi e di conseguenza quella dei bilanci
poderali, della autonomia aziendale e infine del consolidamento della
proprietà contadina.
Le anticipazioni colturali per l’esercizio della impresa contadina erano
state fornite inizialmente senza interesse (dalla Sezione Riforma) e
prevalentemente in natura (lavorazioni a macchina, concimi, sementi) e
con l’affermarsi della impresa contadina e della sua libera iniziativa
gli assegnatari attingevano ora anche al libero mercato per prestazioni
e forniture ove ne trovassero la convenienza; le anticipazioni concesse
in danaro assunsero forma di credito agrario secondo le normali modalità
seppure con ridotto tasso d’interesse.
b. Aspetti tecnici ed organizzativi
Gli aspetti tecnici ed organizzativi della nuova azienda contadina, con
l’avvento della Riforma Agraria(16), erano così
sintetizzati e illustrati e potevano così riassumersi:
1)
destinare sempre più i terreni dell’azienda familiare alle colture per
le quali essi avevano la più spiccata vocazione economica;
2)
introdurre nelle aziende tutti gli accorgimenti, gli strumenti ed i
mezzi di fertilizzazione e di difesa che la tecnica moderna andava
approntando;
3)
qualificare sempre più il lavoro agricolo;
4)
spingere al massimo possibile la meccanizzazione. Per quanto riguardava
i problemi dell’organizzazione, occorreva liberarsi il più rapidamente
possibile della situazione di isolamento in cui avevano vissuto gran
parte delle aziende contadine per cui queste dovevano:
5)
associarsi al fine di potersi approvvigionare dal mercato dei mezzi
produttivi e procurarsi i servizi necessari, specie quelli delle
macchine, ai costi più bassi possibili;
6)
associarsi per poter acquistare una maggiore forza contrattuale nelle
operazioni di vendita del prodotto fino al punto di poter creare un
fronte comune capace di far intervenire le aziende agricole nel settore
della determinazione del prezzo di vendita dei prodotti agricoli ai
consumatori.
1.
Destinazione dei terreni secondo la loro vocazione economica
È noto come nel passato nelle aziende contadine si cercasse di
realizzare una produzione a carattere autarchico-familiare, cioè ogni
famiglia cercava di procurarsi il grano, il latte, i legumi, il vino,
l’olio, il foraggio per mantenere il bestiame da lavoro e da reddito, e
via di seguito, sicché si assisteva al fatto che veniva coltivato grano
in terreni dove non si raccoglievano nemmeno 10 quintali ad ettaro di
prodotto e veniva coltivata l’uva in zone dove il vino non raggiungeva i
9 gradi di alcool, o si coltivavano le bietole in terre dove il grado
zuccherino era del 12%.
Questo problema della scelta delle colture in funzione della vocazione
economica è un problema che ha interessato ed interessa non solo le
aziende agricole del territorio italiano, ma anche le aziende agricole
di tutta l’unione europea. Occorreva invece ormai decidersi ad
orientarsi verso poche colture, anche una sola, scegliendo quelle che
davano maggiore produttività su ogni tipo di terra e così, mentre il
grano doveva essere coltivato ancora su quelle terre che producevano
oltre 20 quintali ad ettaro, dove invece si producevano meno di 10
quintali, quel terreno doveva essere destinato alla produzione di
foraggio, se non addirittura al pascolo. Dove il vigneto, per esempio,
non consentiva la meccanizzazione integrale esso andava abbandonato,
come andavano eliminate certe forme di coltura promiscua con la vite
sparsa nei campi e con una produzione di qualità scadente, mentre sugli
stessi terreni, eliminata la vite sparsa, era possibile fare della
cerealicoltura meccanizzata ad alto reddito, o piantare anche, ove i
risultati l’incoraggiassero, vigneti in coltura specializzata,
meccanizzata anch’essa in gran parte delle operazioni. Così quando si
parlava di riconversione colturale, certe terre della Valle Padana che
non assicuravano ottime produzioni cerealicole dovevano essere destinate
alla foraggicoltura e quindi alla zootecnia, mentre in alcune terre di
pianura del Sud, specie se non irrigate, se si voleva contrarre la
superficie granaria bisognava insistere sulla viticoltura per uva da
vino e da tavola.
Vi erano zone dove l’orticoltura dava prodotti eccellenti, proprio per
la precocità, e altre zone dove essa pur dando prodotti abbondanti li
vedeva maturare in momenti in cui il mercato non ne faceva richiesta.
2.
Introduzione nelle aziende di accorgimenti, strumenti e mezzi moderni di
fertilizzazione e di difesa
L’aggiornamento continuo ai dettami della tecnica moderna, diventava
ormai, per l’azienda coltivatrice, condizione indispensabile per
conseguire ottimi risultati produttivi nell’ambito della coltura più
idonea per l’ambiente, occorreva scegliere le varietà richieste dal
mercato; occorreva preparare il terreno con strumenti tali da
assicurargli una struttura idonea, specie per il primo sviluppo
dell’apparato radicale, per qualsiasi coltura che si andava a praticare
(occorreva concimare la terra abbondantemente). Quanto più abbondanti
erano i raccolti che si realizzavano, tanto più concime bisognava dare
alla terra e, meglio, ove se ne avesse disponibilità, la concimazione
letamica; dove questa non era possibile poteva essere validamente
sostituita con concimazioni chimiche adeguate e la terra è come un
magazzino che contiene sostanze nutritive; se le colture producono
molto, vuol dire che hanno attinto molto dalla terra e quindi il
magazzino, impoverito da una produzione abbondante, ha bisogno di essere
reintegrato, specie per quanto riguarda l’azoto e quindi i concimi
azotati. Qualora se ne ravvisasse la convenienza, occorreva scegliere
fra le foraggere quelle che davano maggiore rendimento; in materia di
bestiame occorreva saper scegliere specie la razza. Ancora in Italia,
intere regioni erano e sono ancorate al bestiame da lavoro che produceva
anche carne; se si introduceva la macchina, la funzione lavoro cessava
completamente da parte del bestiame stesso ed allora poteva essere
antieconomico tenere in una stalla due-quattro-dieci vacche alimentate
solo per produrre il vitello. Anche se il vitello poi ingrassando in due
anni raggiungeva un peso soddisfacente, il costo di mantenimento di una
mucca per un anno o un anno e mezzo, quanto cioè occorreva per produrre
il solo vitello, era tanto alto da ridurre al minimo il compenso che
rimaneva al lavoro fornito dal contadino per governare la mucca e poi
allevare il vitello. Ecco perché il problema del bestiame e la scelta
conseguente per quanto riguarda la razza era diventato uno dei problemi
più scottanti dell’agricoltura italiana, proprio in quanto essendosi
mutata, come abbiamo detto all’inizio, la posizione del lavoro rispetto
ai costi ed ai redditi, il bestiame bianco in genere, senza produzione
di latte, avendo perso la funzione del lavoro, non assicurava più un
reddito soddisfacente alle famiglie contadine.
Ormai bisognava mettere da parte gli indugi ed orientare decisamente le
aziende ad allevamento bovino verso le razze pregiate da latte e da
carne.
Nel settore poi degli allevamenti di pecore, l’organizzazione di una
grande azienda incontrava difficoltà nel reperimento dei pastori (i
lavoratori si dichiaravano disposti anche ad una maggiore fatica, come
la zappa, piuttosto che la custodia del bestiame), l’avversione era
spiegabile ove si pensi ai sacrifici che comportava la vita del pastore
ancora oggi si incontrano pastori che restano sui pascoli 14-15 giorni,
per recarsi il sedicesimo giorno in famiglia. Non è raro vedere ovili
dotati di un unico vano nel quale si preparano latticini e nello stesso
vano, in un angolo, vi è il letto per il pastore. “Se i pastori avranno
la proprietà della terra e del gregge ed una abitazione munita di
sufficienti comodità - scriveva D. Scardaccione - è possibile che ancora
per una o due generazioni resteranno pastori-conduttori diretti, capaci
di mantenere dei greggi numerosi ed utilizzare i pascoli delle zone
povere”; era quindi, quello della pastorizia, un altro settore dove
l’azienda familiare trovava la sua migliore affermazione.
3.
Qualificazione del lavoro agricolo
Non vi era chi non vedesse come di due giovani agricoltori, uno che
sapesse guidare il cavallo o la coppia di buoi e l’altro che sapesse
guidare il trattore, quello che sapeva guidare il trattore aveva un
rendimento di gran lunga superiore all’altro; chi scavava la
barbabietola a mano era in una situazione di assoluta inferiorità
rispetto a chi la scavava con una scavatrice meccanica. Chi toglieva da
una coltura le erbe a mano era in una situazione di inferiorità rispetto
a chi usava un adeguato diserbante: chi spargeva il concime a mano o chi
trapiantava a mano era in una situazione di inferiorità rispetto a chi
seminava a macchina o chi trapiantava con l’uso della macchina.
Allora, ad esempio, ancora si insisteva nel considerare una
specializzazione la guida del trattore: per il coltivatore moderno,
invece, la guida del trattore doveva essere considerata come l’alfabeto
per chi doveva imparare a leggere ed a scrivere; in altri termini, come
in precedenza qualsiasi contadino sapeva guidare il carro o l’aratro
trainato dai buoi o dal cavallo, così allora qualsiasi contadino doveva
saper guidare il trattore e tutte le macchine operatrici che ad esso si
potevano abbinare. Ecco perché uno dei mezzi più efficienti per elevare
la competitività delle aziende coltivatrici era quello di sottoporre il
coltivatore ad un continuo processo di specializzazione, e, proprio
perché non era possibile pretendere che una persona diventasse
specialista in un gran numero di colture e di tecniche colturali,
occorreva ridurre al minimo le attività delle aziende; cioè
specializzare le aziende in una due-tre colture ed in un allevamento e
per quelle poche colture e quell’allevamento far si che il lavoratore si
specializzasse. La specializzazione non solo aveva come conseguenza un
maggior successo di una coltura, ma portava sempre ad una riduzione di
sforzi fisici e quindi ad un sempre migliore impiego delle energie
umane.
4.
Meccanizzazione
La meccanizzazione poteva considerarsi come una conseguenza della
maggiore qualificazione del lavoro agricolo, però essa meritava un
particolare riguardo per il seguente motivo: meccanizzare in agricoltura
significava anche industrializzare, ed industrializzare significava far
convergere una sempre maggiore massa di capitali intorno alle unità di
lavoro, ossia porre a disposizione delle unità di lavoro una maggiore
quantità di capitali. Meccanizzare in agricoltura significava quindi
industrializzare, e porre il lavoratore agricolo in condizioni di
disporre di notevoli dosi di capitale, che, se diventavano di proprietà
del contadino, poiché aveva una redditività propria, andava ad
accrescere il reddito complessivo dell’impresa. Inoltre, siccome con la
macchina si potevano eseguire in un più breve tempo ed anche con
maggiore efficacia alcuni lavori pesanti che una volta si eseguivano a
braccia, il lavoratore cessava di essere soltanto il fornitore di forza
fisica ed acquistava sempre più la posizione di un lavoratore che più
che con le braccia doveva operare con il cervello sia per far muovere le
macchine, che per risolvere gli altri problemi relativi
all’organizzazione dell’aziende e della produzione.
5.
Cooperazione e costi
Per quanto riguardava il problema dell’associazione si doveva notare che
uno dei punti deboli dell’impresa coltivatrice era rappresentato dal
fatto che i mezzi tecnici e i servizi acquisiti all’esterno dell’azienda
venivano a costare all’impresa contadina molto di più che non
all’impresa capitalistica, proprio per il frazionamento eccessivo che
manifestava la domanda di detti mezzi e servizi; per ovviare a detto
inconveniente era necessaria la cooperazione. Un’azione quindi
cooperativistica a largo raggio che potesse vedere unite le aziende
contadine di fronte al problema del rifornimento dei beni di consumo e
dei mezzi strumentali poteva influire, sulla formazione del costo di
produzione, positivamente.
6.
Cooperazione e prezzi
Fino ad alcuni anni addietro in molte aziende contadine certe produzioni
abbondanti, non trovando adeguato collocamento sul mercato, venivano
alle volte utilizzate e per il consumo familiare o per l’alimentazione
del bestiame; vedi ad esempio la produzione di uva di alcune zone non
tradizionali che serviva a preparare il vino per il consumo aziendale;
oppure la produzione di certa frutta, specie dei frutteti a carattere
familiare, che, alle volte, in particolare quando risultava anche bacata
da qualche parassita, veniva utilizzata per l’alimentazione del
bestiame; o il latte andato a male nelle giornate eccessivamente calde
d’estate destinato per formare una piccola scorta di formaggio per la
famiglia (che fra l’altro poi era condannata a mangiare sempre prodotti
poco buoni) se non addirittura destinato ai maiali, e così di seguito.
L’azienda coltivatrice dell’avvenire, per raggiungere il massimo della
sua efficienza sul piano della redditività, non poteva più operare da
sola rispetto al mercato, ma doveva associarsi per far si che il mercato
potesse essere strumento sempre positivo per la formazione del reddito
agricolo e non strumento depressivo. L’associazione doveva riguardare
una prima fase che era quella della trasformazione, tipizzazione e
conservazione dei prodotti e doveva servire proprio ad aumentare la
capacità contrattuale delle aziende contadine; chi produceva uva da vino
non doveva essere costretto a venderla al momento della vendemmia, ma
doveva poter trasformare l’uva in vino, conservare il vino in cantine
moderne ed immetterlo sul mercato senza la necessità impellente di dover
distaccare l’uva dalla pianta pena la perdita del prodotto stesso. Dal
momento che non era possibile far sorgere in ciascuna azienda contadina
una cantina, come del resto non è possibile nemmeno farlo nelle imprese
capitalistiche, le quali altrimenti dovrebbero avere dimensioni abnormi
di migliaia di ettari per poter alimentare e tenere in piedi una cantina
su basi moderne, era necessario che i viticoltori si associassero per
dar vita a cantine sociali; e così i produttori di olive, quelli del
latte, e, perché no? i produttori di pomodori e di bietole per dar vita
a conservifici e zuccherifici cooperativi. Da qui la necessità quindi
che l’organizzazione cooperativa non solo servisse a conservare,
tipizzare il prodotto, ma dovesse essere in grado, all’occorrenza, di
poter andare loro sui grandi mercati a collocare i prodotti se non al
consumatore, come sarebbe auspicabile, se non alle cooperative di
consumo, come pure qualche volta stava già avvenendo, almeno alle
organizzazioni di supermercati che andavano formandosi e che certamente
avrebbero avuto in mano la distribuzione al dettaglio nell’avvenire.
Per tutto questo necessitava un tetto nel quale svolgere le attività
connesse all’agricoltura ed in particolare all’allevamento.
C.
Applicazione pratica sul territorio dei principi della riforma
Con l’avvento della Riforma Agraria(17) tra i
problemi di primo piano che vennero alla luce, furono quelli di
inquadramento organizzativo e problemi subordinati:
Tra i
problemi di inquadramento organizzativo consideriamo:
- insediamenti rurali;
- tipi di organizzazione aziendale;
- modi di assegnazione della terra;
- ampiezze aziendali;
- tipi contrattuali;
- scelta delle famiglie;
- enti e loro coordinamento.
Tra i
problemi subordinati, quelli agronomici erano:
- sistemazione terreni e problemi idraulicoforestali;
- irrigazione;
- ordinamenti culturali, zootecnici, ecc.
Era
infatti evidente che nessuna opera di trasformazione agronomica, di
correzione pedologica, di sistemazione idraulica, di potenziamento
produttivo, poteva essere possibile in detti territori, senza prima
garantire la presenza continuativa dell’uomo sui territori stessi.
Più e più volte si era dovuto insistere su questo argomento, che cioè
l’assenza dell’uomo dal luogo del suo lavoro, o più precisamente la
rarità e saltuarietà della sua presenza, costituiva l’elemento primo
caratterizzante quelle che gli economisti rurali considerano condizioni
latifondistiche: il problema si riassumeva in un solo concetto: popolare
il latifondo. E qui, le soluzioni potevano essere diverse; ma prima di
elencare le diverse possibili soluzioni, sarà bene ricordare molto
sinteticamente due o tre sole cifre derivanti dalla elaborazione dei
censimenti italiani relativi ai “centri demografici”.
Uno dei fatti più suggestivi che derivavano dall’esame di quelle cifre
era, che mentre, per esempio, nella provincia di Milano ogni centro
demografico doveva servire una superficie di 221 ettari appena, e in
quella di Napoli 244 ettari, nella provincia di Matera, invece ogni
centro doveva servirne mediamente oltre 16 mila ettari; e nella
provincia di Caltanissetta circa 28 mila ettari, cioè una superficie 125
volte superiore a quella servita nella provincia di Milano o nella
stessa provincia di Napoli. Così gli uomini che vivevano in questi
centri si trovavano in condizioni estremamente differenziate di
possibilità di lavoro: era infatti grave situazione di tutti i contadini
e lavoratori delle terre estensive, che dovevano giornalmente perdere
sui propri campi molte ore di faticato lavoro. In un calcolo sommario
erano valutate a ben un miliardo all’anno le ore complessive perdute dai
lavoratori di tutte le zone latifondistiche del paese, a causa della
distanza della propria dimora dalla sede di lavoro. Come provvedere
all’indispensabile popolamento di quei territori? Si poteva pensare alle
classiche forme di appoderamento, alla costituzione di aziende
accentrate, a forme di semplice lottizzazione. Ma era evidente che, in
qualunque caso, occorreva pensare anche alla costituzione dei necessari
servizi civili per la popolazione che nei diversi modi suddetti, veniva
ad essere trasferita nelle campagne, se si voleva evitare la faticosa
perdita di tempo nei lunghi viaggi in città, cui sarebbero egualmente
costrette quelle popolazioni per soddisfare le proprie necessità di
educazione, di culto, sanitarie, ecc. A tale esigenza, non si poteva che
provvedere attraverso la edificazione degli appositi servizi, che nel
loro complesso venivano a costituire “il borgo”. È qui che sorgeva la
distinzione tra borgo e borgo: nucleo di organizzazione civile, che
poteva essere semplicemente di “servizio”, o costituire anche sede delle
dimore contadine e quindi essere a carattere “residenziale”. Bastava
solo ricordare che le odierne condizioni demografiche ed economiche
della maggior parte delle zone latifondistiche, orientano razionalmente
verso il concetto della costituzione di “borghi residenziali” cioè di
centri completi di servizi civili e di dimore per le famiglie contadine.
Ciò, beninteso, non esclude affatto che, in numerosi casi, vi era anche
la possibilità di costituire semplicemente dei borghi di servizio,
laddove le condizioni si prestassero a facili appoderamenti e
all’organizzazione civile per il servizio di più aziende accentrate.
1. Le
case coloniche
La diffusione delle case coloniche in campagna, ed il conseguente
stabile insediamento della famiglia contadina sul podere, fu uno dei più
evidenti aspetti innovatori della riforma fondiaria nei latifondi di
Puglia e Lucania, dove appunto di carattere urbanistico rappresentativo
era la rarefazione di fabbricati rurali e l’assenza di popolazioni
contadine sparse, frutto penoso della malaria, anche se scomparsa dagli
anni 50, e dell’incerto e precario rapporto fra il lavoro umano e la
terra. I tipi di costruzioni rurali furono studiati con criteri di
funzionalità e di economia; per quanto riguarda le esigenze del nucleo
familiare, pur fornendo sempre un numero di vani di abitazione (due o
tre camere da letto orientate a mezzogiorno o a levante in rapporto alla
ubicazione della casa rispetto alla rete stradale, oltre una ampia
cucina-soggiorno) sufficienti per nuclei di composizione anche superiore
alla media, i criteri che informarono i fabbricati colonici non poterono
seguire le variazioni delle composizioni familiari, sia per ovvie
ragioni di costruzione in serie che per la facile mutabilità nel tempo
di quel fattore.
Comunque ampliamenti successivi, sopraelevazioni, adattamenti, compiuti
a momento opportuno dallo stesso proprietario contadino, avevano potuto
col tempo adattare la casa alle eventuali nuove esigenze della famiglia,
con quella gradualità e quella prudenza che si vedono ad esempio seguite
nei pochi ambienti locali di insediamento contadino.
2. Tipi
di organizzazione aziendale
Sembrava evidente, anzitutto, che dovendosi la riforma volgere alla
creazione di proprietà contadine, e volendosi d’altronde orientare verso
tipi che attenuavano almeno la negatività delle minime aziende disperse
e disorganizzate, sembrava evidente, che una delle preoccupazioni
massime degli enti, che furono preposti alla realizzazione della riforma
stessa, doveva essere quella di ricercare ed applicare i modi
associativi più atti a rendere efficiente la proprietà contadina di
nuova formazione. Si trattava di realizzare aziende contadine autonome,
coordinandole diversamente tra loro; si trattava di integrare proprietà
non autonome già esistenti, che in una adeguata aggiunta di terreno
potevano trovare la base non più precaria della loro attivazione; si
trattava di provvedere anche alla creazione di piccole aziende ad
integrazione di talune particolari economie, come quelle artigiane e
salariali, che anche da un “fazzoletto” di terra presso la sede della
propria dimora potevano trovare ausilio non lieve alla propria
esistenza.
Si istituirono, dovunque possibile, degli organici “centri di gestione”,
con blocchi di alcune decine di aziende contadine per un complesso
variabile, per ciascun “centro”, dai 300 ai 1000 Ha. Ognuno di questi
“centri” aveva una direzione tecnica organizzativa, particolarmente per
le opere comuni di bonifica, per l’attrezzatura motomeccanica, per gli
acquisti e vendite in comune, per la trasformazione dei prodotti; tutto
ciò, a carattere cooperativo, consortile, insomma associativo. Un certo
numero di questi “centri di gestione” (5 a 10) faceva capo, per i
servizi civili essenziali e per ogni altra necessità organizzativa, a
“borghi” essenzialmente residenziali, attorno ai quali furono costituiti
quelle minime unità aziendali e qualche azienda autonoma a raggiera
intorno al borgo. Questo costituiva la sede dei servizi comuni a tutta
la zona (officina centrale, mulino, cooperativa agricola, ecc.) e la
dimora dei piccoli e piccolissimi proprietari esistenti intorno al
borgo; dovevano, ciascuno di questi borghi, costituire il punto di
riferimento, di mercato, di attività civile dei “centri di gestione” di
cui sopra. Quanto sopra accennato in merito ai concetti organizzativi
delle costituende proprietà contadine, presupponeva naturalmente la
preliminare risoluzione di tre fondamentali problemi: la determinazione
delle ampiezze aziendali, i modi di assegnazione della terra, i tipi
contrattuali di gestione delle terre assegnate.
Ampiezze
aziendali
Dal momento che si trattava di creare delle proprietà contadine, si
poteva pensare a due tipi di tale proprietà; proprietà individuale e
proprietà collettiva; ma noi sappiamo che le precise finalità della
riforma si volgevano verso la proprietà contadina familiare. Si trattava
pertanto di raggiungere piccole ampiezze, che rendevano tuttavia
autonoma la vita della famiglia proprietaria. Si aveva, evidentemente,
una limitazione di scelta che, mentre semplificava da un lato il
problema, lo rendeva certamente più arduo dal punto di vista della
efficienza sociale e produttiva. Non si poteva pertanto sfuggire, in
conseguenza di tale vincolante impostazione, ad una conditio essenziale,
e cioè a quell’orientamento associativo e che, della riforma così
considerata, doveva indispensabilmente costituire il concetto
informatore essenziale. Detto ciò, si poteva discutere sulla maggiore o
minore ampiezza di ciascuna piccola proprietà familiare, in relazione e
alle condizioni di fertilità naturale del terreno e alla suscettività
produttiva di questo attraverso i nuovi ordinamenti colturali e
organizzativi, e in rapporto alla entità iniziale e di sviluppo naturale
della famiglia contadina. Quanti ettari dovevano assegnarsi dunque a
ciascuna piccola proprietà? Qui parliamo delle proprietà autonome da
costituirsi ex novo, non di quelle integrative di minime proprietà già
esistenti.
Sarebbero stati dunque i 5 ettari? O addirittura entità poderali vere e
proprie di una ventina di ettari?
Modi e
tempi di assegnazione della terra
Si parlava, da una parte, della necessità preliminare di compiere tutte
le trasformazioni fondiarie necessarie, prima di assegnare la terra in
proprietà alle famiglie coloniche; e di lunghe prove cui sottoporre la
famiglia stessa, prima di considerarla adeguatamente preparata alla
funzione di proprietaria. Si parlava, da altri, di immediata concessione
delle proprietà, con particolare garanzia di provata efficienza
produttiva; il modo di rendere più rapidamente e più efficientemente
feconda la riforma nei suoi fini sociali e produttivi, era quello -
ovunque fu possibile- di dare il più pronto, possibilmente immediato,
diritto di proprietà alla famiglia colonica, semplicemente
subordinandolo ad una unica clausola risolutiva per inadempiuta
trasformazione. Era un’esperienza più che quarantennale, condotta nelle
più diverse regioni e nelle più diverse condizioni ambientali, e che si
articolò nelle più svariate forme di colonizzazione (da quelle in cui lo
Stato fece tutto prima di consegnare la terra in proprietà, a quelle in
cui la terra fu consegnata subito e lo Stato non fece nulla o quasi); e
ciò ha dato la profonda, consapevole convinzione che lo stimolo
derivante al contadino dall’essere e sentirsi proprietario assoluto,
costituiva lo strumento imparagonabile più decisivo e più efficiente per
la rapida e piena trasformazione produttiva della terra.
Tipi di
contratti di gestione delle terre assegnate.
Potevano nascere, laddove per cause diverse non si poteva immediatamente
immettere in proprietà la famiglia, e occorreva del tempo per dare ad
essa la compiuta figura di proprietaria; quali forme di rapporto
contrattuale era opportuno dare a questo avviamento alla proprietà? Era
evidentemente un problema così complesso e a così numerose variabili,
che la soluzione non poteva certamente essere univoca per tutti i casi.
Dovunque fosse possibile si doveva tendere a dare la proprietà quanto
prima, e possibilmente subito, alla famiglia contadina; ma in proposito
a ciò, si poneva subito l’interrogativo sulla scelta della famiglia
contadina.
3.
Scelta delle famiglie contadine
Anche questo era un problema sul quale già si erano manifestate le più
diverse concezioni e i più opposti indirizzi; secondo taluni, occorreva
fare una scelta tecnica preventiva della famiglia, prima di immetterla
sulla terra; a parte le utili considerazioni che potevano essere
suggerite dai convenuti, molti furono subito assolutamente contrari a
una simile concezione. In base a quali criteri tecnici si poteva mai
fare la scelta della famiglia?
Quale era la bilancia su cui misurare la loro diversa capacità tecnica?
Si era in territori dove la carenza non era certo nel numero degli
aspiranti, bensì nelle terre disponibili.
Il che poneva il problema in modo non solo diverso ma addirittura
opposto a come si poteva porre in territori (esempio: maremma, Sardegna,
ecc.) dove non esisteva affatto una pari pressione demografica rurale (è
però ricordato che in altri casi simili nessuna scelta tecnica fu
possibile se non a posteriori).
L’unica base sulla quale si potevano fare discriminazioni non poteva che
essere quella del trovarsi le famiglie contadine in determinate e
specifiche condizioni; a cominciare dalla povertà (nessun possesso di
terra); e dalla più o meno numerosa costituzione. La precisazione di
dette condizioni non poteva essere fatta che attraverso un preciso
censimento, comune per comune, frazione per frazione; che se il
risultato era quello, assai probabile, per non dire certo, di un numero
eccessivo di aventi diritto e che non si potevano tutti soddisfare, non
rimaneva alla fine che rimandare alla “sorte” la scelta delle famiglie
assegnatarie. Fu il metodo adottato sempre in casi simili, e d’altronde
rispondente alla consuetudine ed alla psicologia delle popolazioni
interessate. Per quanto riguardava Matera e Potenza le domande di
assegnazione per Matera e provincia furono 15.167 e prodotte da
braccianti nullatenenti, affittuari-mezzadri nullatenenti, piccoli
proprietari; tra i paesi più rappresentati vi era Irsina, Matera,
Pisticci, Montescaglioso, Montalbano Ionico, Stigliano. Furono assegnati
complessivamente 30.694 ha di superficie per unità produttive costituite
di 4.225.
Per quanto riguarda Potenza e provincia furono 11.050 le domande di
assegnazione; tra i paesi più rappresentati vi era Avigliano, Lavello,
Melfi, Venosa, Genzano. Furono assegnati complessivamente 13.948 ha di
superficie per unità produttive costituite di 3.260.
4.
Organizzazione assistenziale, tecnica e finanziaria
L’altro problema che sorgeva nel settore considerato era quello
dell’organizzazione assistenziale (tecnica e finanziaria), una volta
immessa la famiglia sulla terra. Si è accennato al tipo generale di
organizzazione (basata sui “centri di gestione”, borghi residenziali,
ecc.) a carattere associativo; anzi, qualunque fosse il contratto di
cessione o di promessa di cessione, esso doveva essere sempre più
vincolato al sistema cooperativo o consortile per taluni atti e talune
esplicazioni trasformatorie e colturali, a cominciare, come sopra detto,
dalla organizzazione associata per la motoattrezzatura, per certe
trasformazioni dei prodotti in comune, per la direzione tecnica, e via
di seguito. In merito però alla direzione tecnica, vi erano due modi e
due tendenze, nel considerare il problema, assolutamente opposti; per
taluni, la direzione tecnica doveva essere qualcosa di assoluto, di
rigido, di esterno alla volontà e ai desideri del contadino, una
coazione vera e propria; non adattandosi alla quale, il contadino doveva
essere considerato inadempiente e quindi estromesso. Secondo altri,
invece, la direzione tecnica doveva consistere semplicemente in vaghi
orientamenti di massima, in suggerimenti generici, abbandonando alla
piena e libera iniziativa del contadino, il fare e il non fare,
l’applicare o non le norme direttive, lasciando alla sua intelligenza ed
iniziativa la comprensione della utilità o meno dei suggerimenti tecnici
della direzione. Vi erano taluni concetti direttivi ai quali nessuno
poteva e doveva sottrarsi, perché determinanti il successo o meno della
trasformazione e della maggiore produttività del terreno; ma bisognava
nel contempo, e proprio al fine di utilizzare la iniziativa e la
capacità produttiva del contadino, porre le direttive stesse
essenzialmente sul piano del convincimento e della dimostrazione,
anziché della pura e semplice coazione. Ciò che occorreva evitare
sempre, era il continuo quotidiano intervento in atti e determinazioni
che in verità col tecnicismo nulla hanno a che vedere e per le quali il
contadino finiva per essere poco meno che “un interdetto sotto tutela”.
Quanto all’assistenza finanziaria, era questa una esigenza fondamentale
che l’organizzazione intendeva dare alla costituenda proprietà contadina
e riusciva finalmente a determinare quel nuovo indirizzo del credito
atto a raggiungere realmente ed ausiliare in concreto il piccolo
conduttore e proprietario.
Enti e
loro attività
In merito a questi organismi, ai quali la legge affidava l’applicazione
della riforma, ben poco restava da dire alla tecnica, circa la loro
organizzazione costitutiva; se non che essa era tale da dare agli
organismi stessi non solo una larga autonomia di bilancio e di azione,
ma da permettere loro, attraverso una notevole elasticità discrezionale,
di poter operare aderentemente alla complessa e diversa realtà dei
territori loro affidati; e dovevano in particolare, tali organismi,
tentare massimamente di sfuggire all’incombente pericolo di una
progredente elefantiasi burocratica, e sempre più tecnicizzarsi.
Problemi
agronomici
Riguardavano anzitutto la sistemazione dei terreni; a parte quanto
concerneva il regime idraulico-forestale, nel quale, specialmente in
talune zone, era indispensabile e preliminare l’intervento tecnico
spesse volte drastico, a parte lo specifico problema dei calanchi che,
specie in talune zone della Lucania, richiedeva una intelligente azione
e l’intervento delle più moderne tecniche. Il problema della
sistemazione dei terreni in genere era il problema fondamentale e
preliminare a confronto di ogni altro problema agronomico, perché
costituiva il punto di partenza di ogni vivificazione e fertilizzazione
(nel senso integrale) dei territori in esame; sistemazione, non intesa
solamente nella comune accezione di sgrondo superficiale delle acque, ma
nella più esatta accezione moderna di creazione della “struttura”
perfetta del terreno e del suo integrale “drenaggio”.
L’altro problema sul quale fu posto l’accento, fu quello zootecnico,
degli allevamenti, soprattutto nel senso che veniva posto dalla
vincolata formazione di proprietà contadina, dove dunque l’allevamento
trovava difficili condizioni di realizzazione (allora, sorgevano grossi
quesiti da risolvere, o nell’interno dell’organizzazione aziendale
contadina, o nei rapporti che si venivano costituendo tra questa e la
proprietà circostante). I rapporti tra riforma e bonifica, era il
problema delle opere pubbliche costituenti l’attrezzatura fondamentale e
la trama basilare nella quale inserire l’azione di bonifica agraria:
strade, acque, energia elettrica, erano i tre aspetti fondamentali di
questo settore; aspetti che restavano sempre indubbiamente essenziali
per il generale processo di attrezzatura civile dei territori depressi
sui quali si operava. Si richiamava l’attenzione sopra due sole
considerazioni, la prima è che l’accennato orientamento verso la
costituzione di borghi residenziali comportava di per sé la parziale
risoluzione di ciascuno degli accennati problemi specifici; in quanto la
edificazione di borghi simili implicava collegamenti stradali tra i
borghi stessi, voleva dire trasporto di elettricità ai fini della
illuminazione e della energia motrice, significava acquedotti e reti
distributive di acque potabili, ecc. La seconda considerazione era che
si sarebbe dovuto sperare che la realizzazione della riforma costituisse
un nuovo indirizzo nella progettazione ed esecuzione delle opere
pubbliche, le quali dovevano essere approvate ed attuate solamente se ed
in quanto direttamente correlate alle opere di riforma e di
bonificamento agricolo voluto dalla legge; senza inutili dispersioni, e
senza il pericolo di dover costituire, secondo la nota suggestiva
espressione, nuovi “cimiteri di opere pubbliche”.
Sempreché la riforma fondiaria si attuasse secondo gli orientamenti e le
direttive sopra accennate, era evidente un fatto e cioè che la riforma
stessa doveva essere veramente realizzata, non contro, ma in felice
sintesi con le direttive della bonifica integrale.
Il fatto di procedere attraverso una legge di riforma fondiaria, cioè di
formazione di proprietà contadine, di porre il lavoro e la capacità
costruttiva del contadino alla base della trasformazione fondiaria, di
fare del contadino stesso l’artefice più efficiente di tale opera di
vivificazione, coordinandone e orientandone cooperativamente l’attività,
non solo non poteva inficiare minimamente i principi della legge della
bonifica, ma anzi li rendeva veramente fecondi. Perché il sostanziare la
bonifica stessa di un contenuto sociale che, se pure era nell’intento
del legislatore, non fu mai possibile attuare integralmente, significava
raggiungere in verità quella compiutezza che il legislatore stesso si
riprometteva, ma che, nella carenza di possibilità concrete di
interventi coattivi, stava ormai diventando, specialmente nelle zone
depresse, una ingenua benché generosa illusione.
Al 31
dicembre 1955 le opere pubbliche eseguite per un importo di
7.600.000.000 erano così ripartite:
n. 20 borgate
n. 34 borghi rurali
n. 155 aule scolastiche e relativi arredamenti (in borgate o borghi
rurali)
Km. 107 di condotto di acquedotto
Km. 109 di elettrodotti
Km. 171 di rete stradale principale
Impianti di irrigazione su Ha 760 n. 5
n. 187 pozzi trivellati
Urgenti
interventi di risanamento idraulico
Dopo queste notizie sul territorio e sulla Riforma Agraria, presentiamo
ora in un quadro d’insieme le masserie e i casini di S. Arcangelo,
iniziando dalla parte orientale del suo territorio, dai confini con
Roccanova, dalle zone cioè ricche di pascoli e di terreni lavorati,
scendiamo lungo il fiume; proseguiremo poi fino alle zone ricche di
giardini, fino ai confini con Aliano, saliremo per Colobraro per
terminare il nostro itinerario nel vasto territorio di Senise, già feudo
di Donnaperna. Con l’ausilio delle fotografie presentiamo, nella sua
cruda realtà, il lento ma inesorabile degrado dell’edilizia rurale della
vecchia masseria, che ha notevolmente danneggiato e ridotto questo
nostro grande patrimonio storico. Molte masserie, abbandonate e private
dei loro connotati originari, vengono mostrate allo stato in cui si
trovano al giorno d’oggi; quei ruderi, col loro silenzio sacrale, sono
una muta testimonianza di gran parte del nostro passato, della nostra
storia e delle condizioni di vita povera ma dignitosa dei nostri
antenati.
A
completamento di questo primo capitolo riteniamo opportuno illustrare
con foto d’epoca, la riforma fondiaria dalla nascita allo sviluppo dei
nuovi borghi, dai primi insediamenti ai primi lavori in un’azienda
agricola nascente, dal vecchio al nuovo fino ai primi raccolti.
Tale riforma ha contribuito in parte al degrado delle masserie, in
quanto la massa di braccia disponibile improvvisamente si ridusse
poiché molti salariati diventarono “capitani d’industria” di quote a
loro assegnate. Anche l’emigrazione verso paesi europei e l’immigrazione
interna verso il nord Italia, contribuirono a fare sì che il salariato
fisso o il pastore preferisse la catena di montaggio o il lavoro in
fonderia piuttosto che continuare a lavorare in agricoltura, ed infine
il boom economico degli anni 60 e la crisi dei prezzi dei prodotti
agricoli dettero il loro colpo di grazia.
Note
1
Mezzadro-fittavolo, massaro del campo, capo gualano, gualano, sotto
gualano, frese. Massaro delle pecore, pastore, pastore ragazzo. Massaro
delle vacche, vaccare. Porcaro, ragazzo. Fattore, operai, mulattiere,
trainiere, giumentaro.
2
Associazione di volontariato, Pro Loco di Sant’Arcangelo (di cui lo
scrivente è presidente), si stanno adoperando a che questa ipotesi possa
trasformarsi in realtà.
3
L’autore ha raccolto su nastro magnetico canti popolari, filastrocche e
“suoni paesani” ormai scomparsi e che solo i laboratori di etnologia
conservano. Per lo stesso motivo è stato realizzato un filmato in bianco
e nero 16 mm. sulla “TRADIZIONE DEL FORMAGGIO PECORINO IN BASILICATA”
che descrive come era fatto il formaggio negli anni 50-60. È un
documentario da cineteca che è stato presentato al film festival di
Orbetello nel 1984.
4 A
cura della Pro Loco di Sant’Arcangelo presso la Torre Molfese, S.
Brancato di Sant’Arcangelo è stata allestita una Mostra Fotografica
Permanente sui Costumi, Attrezzi Agricoli, Eventi in Basilicata dal 1900
in poi.
5
L’ultimo è stato il terremoto avvenuto nel 1857, che ha colpito tutta la
valle, causando non soltanto gravissimi danni al patrimonio
storico-artistico, ma anche mutamenti fisici nelle linee del territorio.
6
Anche la riforma agraria ha contribuito a modificare i ritmi di lavoro
che si osservavano nelle masserie mandate avanti colle braccia degli
uomini e con la forza degli animali da tiro prima dell’introduzione nel
nostro territorio delle macchine agricole a motore e prima
dell’inevitabile esodo degli emigranti massiccio nel secolo scorso e
specie nel dopo guerra.
7 Già
nel dicembre del 1944, in un Convegno di Studi sui problemi del
Mezzogiorno, tenuto a Bari e dove parteciparono anche illustri
meridionalisti, si delineò chiaramente, nella relazione conclusiva, la
linea programmatica che la classe dirigente doveva seguire:
decentramento amministrativo, ampia riforma agraria, industrializzazione
nel Mezzogiorno.
8
Mentre si stava discutendo nel Parlamento la proposta di riforma
agraria, nell’Italia meridionale iniziavano le occupazioni di terre nei
latifondi, con lotte anche cruente in Basilicata, Calabria, Sicilia,
dove morirono uccisi diversi sindacalisti (l’occupazione si concludeva
con la strage di Melissa, un paese della Calabria vicino a Crotone). Con
i fatti di Melissa (1949), come abbiamo già detto, la classe politica fu
indotta a realizzare una riforma che desse pane e lavoro alle classi
meno abbienti. Era infatti dalla fine guerra che i contadini, delusi ed
avviliti, aspiravano ad un lavoro, ad un pezzo di terra su cui lavorare
ed allevare decorosamente i propri figli; una serie di vicende
ritardarono la realizzazione dei propositi, che tali rimasero sino
all’ottobre del 1949, sino a quando cioè, con il Governo De Gasperi, si
concretizzarono in tre provvedimenti legislativi straordinari: la Legge
Sila (maggio 1950), la Legge Stralcio (21 ottobre 1950) e Legge
Siciliana, varata nel dicembre del 1950 dal Governo Regionale
dell’isola.
9
Dalla riforma trassero beneficio circa 108 mila famiglie, di cui i due
terzi dell’Italia meridionale; gli assegnatari dovevano riscattare le
terre loro affidate con pagamenti ogni tre anni al tasso del 3,5% di
interesse ed avevano sovvenzioni sul piano economico, assistenza in
genere, ivi compresa quella di consulenza e di finanziamento per
acquisto di attrezzi, di scorte vive o morte, e per altre numerose voci.
10
Ricordo personalmente i salariati fissi che, per ottenere maggior
salario, si recavano “a la marina” (le zone acquitrinose sopra descritte
del golfo di Taranto); infatti in dette zone, quasi tutte lande
desolate, vi erano ottimi pascoli, ma erano poche le persone disposte a
sacrificarsi a tal punto da rischiare di rimanere vittime del male.
Ricordo anche il gran numero di persone che mio padre, medico condotto
per circa 30 anni, insieme ai suoi colleghi, ha curato per la malaria
contratta, somministrando, fra l’altro, prodotti a base di Chinino dello
Stato (Cloridrato e Bisolfato di Chinino), che una volta si vendeva
obbligatoriamente anche dal tabaccaio.
11 In
Puglia, Basilicata e Molise il maggior artefice dello sviluppo sociale
fu, sul piano pratico, organizzativo, esecutivo, un uomo esperto di
tutta la problematica dell’Italia meridionale e della Basilicata, un
esperto nella agricoltura in particolare: il Prof. Decio Scardaccione di
Sant’Arcangelo.
12
Ricordo che i disoccupati si presentavano al lavoro anche senza
preavviso, per cui nel giro di qualche ora bisognava assegnare loro un
lavoro perchè altrimenti sarebbero stati seduti senza far niente. Nei
periodi di lavoro in azienda potevano essere proficuamente impiegati, ma
nei periodi nei quali mancava bisognava inventare come far trascorrere
loro la giornata. Mio padre, medico condotto, impegnato a svolgere la
professione, aveva delegato mia madre alla conduzione dell’azienda che
doveva accollarsi il compito, anche con l’ausilio del mezzadro
(1), presente nell’azienda, di assegnare
giornalmente il lavoro che queste persone avrebbero dovuto svolgere.
13 È
stato sperimentato con successo, allo scopo di prevenire gli incendi, di
immettere su determinati territori delimitati ed impervi greggi di capre
e di pecore per un tempo sufficiente ad utilizzare il pascolo, in modo
massivo, e rendere così il terreno meno attaccabile dagli incendi.
14
Foro circolare, di 20 cm. di diametro, che permetteva al gatto di
entrare ed uscire a proprio piacimento.
15 La
Riforma Fondiaria da Daniele Prinzi.
16
Ciò che scriveva Decio Scardaccione negli anni 50 è ancora attuale!
17
Scrive Nello Mazzocchi Alemanni.
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