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ANTONIO MOLFESE |
1. Giornata tipica di mio padre medico condotto a Sant’Arcangelo.
1 La teoria dei medici di una volta era quella che un individuo se ha sudato molto deve cambiare la maglia sudata per evitare che raffreddandosi il sudore possa più facilmente contrarre una malattia respiratoria acuta. Mio padre, quindi, quando rientrava a casa dalle visite, ed era sudato, era solito cambiarsi la maglia di lana.
2. Descrizione dello studio medico Al termine del salone di casa vi era una scala che portava allo studio situato al primo piano; si entrava in una ampia stanza con di fronte una scrivania dove mio padre raccoglieva l’anamnesi ed annotava i disturbi accusati dal paziente; al centro della sala erano situate due poltrone con un paravento dove visitava i pazienti e poteva così formulare una diagnosi. La medicina era basata principalmente sulla semeiotica e molto meno sugli esami di laboratorio. Infatti la lontananza dai centri specialistici non permetteva al medico di confermare o no la diagnosi con il conforto di esami di laboratorio anche semplici come poteva essere l’esame dell’urina2. Negli anni 40/50 il laboratorio dell’ospedale provvedeva ad eseguire in casi urgenti l’esame delle urine e qualche altro esame specialistico urgente(diagnosi di malattie infettive).Con il miglioramento dell’assistenza sanitaria, solo in casi eccezionali esperite le cure più usuali e non migliorando la patologia, il medico inviava il paziente in ospedale(gratuito solo per gli iscritti nell’elenco dei poveri) difficile da raggiungere per la lontananza e per i mezzi di trasporto che erano rari. Lo studio di mio padre era arredato con vetrine dove erano conservati i libri di medicina, farmaci e un teschio Nella cassetta per le autopsie conservata nel suo studio, vi erano seghe, seghetti, forbici trancianti, cesoie, bisturi, specilli, maschere, guanti, alcuni reagenti, un camice di tela robusta ed una incerata. Allora la medicina legale sul territorio e specie nei paesi era ai primordi e solo qualche medico obbligato dalla legge o dalle mansioni esplicate, eseguiva esami necroscopici ed erano sempre un banco di prova Negli armadi che arredavano lo studio c’erano anche borse ed astucci di primo soccorso con scritta “prima urgenza”, “seconda urgenza” e così via. Erano astucci che mio padre prendeva in occasione di una visita urgente e nella quale poteva trovare qualsiasi situazione patologica dall’infarto del miocardio alla colica addominale all’attacco di asma bronchiale. L’astuccio conteneva farmaci di primo soccorso che dovevano sostenere il cuore, migliorare il respiro e sedare una violenta colica. Il medico condotto, negli anni in cui ci riferiamo, doveva assolvere a tutti i bisogni della popolazione; non essendovi medici specialisti doveva svolgere, come poteva, tutte le manualità connesse ad un ampio ventaglio di specialità. Oltre alla ostetricia, che era una specialità prevista nello stesso capitolato d’impiego, in caso di bisogno il medico doveva risolvere tutti i problemi connessi a qualsiasi patologia acuta che insorgeva. 2 Si era soliti, all’origine del secolo e fino agli anni 40 inviarli a Napoli dove erano eseguiti e i cui risultati, spediti al medico curante; utili a confermare o non il dubbio diagnostico per quella determinata patologia.
3. Alcune visite mediche nei ricordi ormai lontani A. L’unica visita medica fatta a domicilio della paziente fu quella alla quale partecipai, mentre ero iscritto al secondo anno di medicina all’Università di Napoli con mio padre, prima che una terribile malattia prematuramente lo togliesse al nostro affetto. E’ come se con quella visita mi avesse passato il testimone, da trasmettere anche alle future generazioni(sarà impossibile) a continuare l’attività di medico nella nostra famiglia che dura da molte generazioni. Fu chiamato per una visita ad una donna che abitava al rione Piazzolla, un rione molto popolato fino a quando una frana lo fece sprofondare, compresa una chiesa, Santa Maria degli Angeli. Dopo il grave terremoto del secolo passato, solo una lingua di terra(piazzolla) univa la Destra e parte dei Pizzilli con il rione Mauro. Mio padre fece il percorso fino alla casa della paziente appoggiato al mio braccio anche perché la strada era disagevole e già le sue condizioni di salute non erano molto floride; appena giungemmo alla casa della paziente trovammo il marito molto dispiaciuto per ciò che era capitato alla moglie, che così descrisse l’evento: “mentre eravamo alla tavola ieri sera, e stavamo mangiando, ha fatto uno scatto, ha gettato un lamento, ha storto la bocca ed è caduta per terra”. Essendo di sera tardi, la donna era stata spogliata(ripulita in quanto l’evento aveva provocato la perdita delle feci e delle urine), messa a letto, e chiamato il medico che il giorno successivo si recò al suo capezzale. Appena giunti mio padre riferì al marito, che, essendo studente in medicina, potevo assistere alla visita; la donna era a letto con sensorio abbastanza integro, con un’emiparesi sinistra per cui aveva perso anche l’uso della parola. La lesione vascolare conseguente probabilmente ad un ipertensione arteriosa non idoneamente curata, era molto frequente, ed il periodo acuto dopo qualche giorno poteva migliorare se la lesione era contenuta con parziale ripresa dell’uso dell’arto superiore ed inferiore. Non così la parola, la quale non si riprendeva anche se una qualche articolazione della stessa poteva ripristinarsi. Si era negli anni ’50 e la terapia in caso di spasmo o emorragia cerebrale consisteva in farmaci antispastici e vasodilatatori, cardiotonici ed analettici. Nei casi più gravi si associava cortisone. Non ricordo quali farmaci o rimedi mio padre prescrisse, ma come mi è stato riferito, la paziente morì dopo qualche giorno per le complicanze sopraggiunte. Questo è stato il testimone che mio padre, medico condotto in un paese agricolo della Basilicata, passò in un assolato mattino a me studente in medicina3. Questo ricordo mi è rimasto in mente ed ogni volta che ricordo mio padre esplicare la sua attività di medico, lo ricordo chino sulla paziente a constatare deficit e formulare una diagnosi quod valetudinem. Per quella paziente fu purtroppo infausta. B. Negli anni ‘50 alla vigilia di Natale pronti per andare a cena sentivamo delle grida che provenivano dalla strada .Mio padre da poco rientrato dalla passeggiata serale stava parlando con un potatore che doveva, il giorno seguente, andare in un nostro fondo ad iniziare la potatura degli ulivi ed allarmato dal chiasso delle persone che precipitosamente entravano in casa, si accorse che uno di questi gridava singhiozzando: “mi affogo,”. Fu quasi portato di peso nello studio medico Mentre mio padre si lavava le mani, il figlio che lo accompagnava riferì l’accaduto:era successo che mangiando un pezzo di baccalà4, un pezzo di spina era stato ingoiato, e si era incuneato nella gola . Il paziente era un tale Michele Infantino “Papagnielle”, bravo fabbro e molto amico della mia famiglia. Ricordo che con paziente maestria e buona illuminazione mio padre riuscì ad estrarre la grossa spina che si era infilzata nel retro faringe e solo con una energica pressione si sarebbe potuta togliere; dopo un leggero sanguinamento della mucosa, arrestata con uno sciacquo di limone e sale, Michele con il figlio ed un vicino di casa potè ritornare a casa a continuare il pranzo, felice di non essere morto. Anche noi iniziammo la cena della vigilia con nelle orecchie le grida di Michele. C. I lavori agricoli determinavano alcune volte in coloro che li praticavano, infortuni; quello che descrivo è un ricordo di quanto successe molti anni orsono. Era una mattina (anni ‘50), verso le ore 10, il medico era in casa per le visite in ambulatorio. Si sentivano per la strada grida e richieste di aiuto; si spalancò la porta ed entra un uomo sorretto da altre due persone che mostra l’arto inferiore destro coperto di sangue e dal quale sgorgava a fiotti. Fu fatto sedere su una sedia e l’accompagnatore riferì che l’amico si era ferito con una accetta mentre lavorava in campagna: lo studio medico era situato al piano superiore per cui bisognava salire le scale, la qualcosa era impossibile per il ferito. Dato il frastuono, il medico, che era nello studio, scese e si rese subito conto della gravità del ferito; inviò con urgenza in farmacia uno degli accompagnatori a prendere ciò che occorreva per la medicazione (ovatta, garze, bende e polveri antisettiche), fermò la emorragia ponendo il laccio emostatico a metà della gamba. Dopo un’accurata visita dell’arto infortunato, iniziò la disinfezione con acqua ossigenata, deterse la parte recisa di netto dall’accetta che fortunatamente, anche se era penetrata in profondità, non aveva leso in modo netto tendini o nervi importanti. Infatti, dopo aver contenuto l’emorragia, in questo aiutato dal figlio Giuseppe, che, ragazzino, a malapena riusciva a collaborare a causa della scena molto cruenta esaminò la restante funzione dell’arto; anche se dall’arto continuava a gemere un po’ di sangue, il medico chiese al ferito di accennare un movimento con le dita dei piedi per sincerarsi se vi era stata la lesione di qualche tendine o nervo non ancora individuato. Anche se il dolore era insopportabile, il paziente eseguì in parte questo esame ed il medico, fiducioso che nessuna lesione ai tendini si fosse verificata (la qualcosa avrebbe resa necessaria la loro sutura, che non è mai facile), continuò con emostatici locali a contenere e arrestare l’emorragia e poi quando questa si era molto attenuata (dato che la lesione non aveva interessato grossi vasi arteriosi, ma solo vasi venosi superficiali), decise di suturare le ferite con agraffe metalliche tipo Michel (accostando i margini della ferita, si chiudevano le boccucce venose e si completava il processo di coagulazione). Seguì una accurata fasciatura ed il paziente fu trasportato con una sedia a casa, in quanto la mancanza di mezzi di locomozione le strade strette del paese, rendevano possibile il transito solo agli asini ed ai muli. E’ rimasto impresso questo caso, in quanto il figlio del medico dovette assistere il padre in una situazione di grave emergenza con un arto sanguinante che presentava una ferita che avrebbe spaventato chiunque. La circostanza volle che tutti fecero il loro dovere, e il paziente con l’arto fasciato raggiunse casa e dove espletò la convalescenza. Questi sono solo alcuni episodi che mi sovvengono ma molti altri man mano che scrivo questi appunti balzano alla mente e chissà se avrò modo di raccontarli. 3 La permanenza a Napoli come iscritto alla facoltà di medicina fu disastrosa fino a quando superai l’esame di anatomia umana con il Prof Gastone Lambertini con il punteggio di trenta/trentesimi.Ricordo che comunicai il lieto evento con un telegramma che mio padre tenne affisso al calendario nel suo studio fino alla sua morte.Dopo questo parziale successo mi trasferii all’univertà di Pavia dove in soli 4 anni raggiunsi il traguardo della laurea con il punteggio di 102/110 4 Alla vigilia di Natale nei paesi di mare si usavano e si usano le vongole ed il capitone, nei paesi di collina – montagna, come da noi, gli spaghetti si condiscono con le acciughe salate e per secondo si mangia il baccalà.
4. Andata in cantina Dopo la vendemmia, dopo le visite mediche in giro per il paese, mio padre era solito andare in cantina, per curare le incombenze e specie il travaso del vino e tutte le altre manipolazioni che in una cantina, la produzione circa di dieci quintali di vino comportava. Era un modo come un altro per distrarsi. La fermata in farmacia o nei pressi serviva a mio padre anche a far diminuire il sudore, in quanto non poteva certo andare in un ambiente molto fresco( cantina) tutto accaldato. L’andata in cantina era una tradizione in quanto sia uno di noi figlioli (siamo in tre) e una delle cameriere erano impegnati a questo compito.(tutto ciò è stato possibile fino a quando non ci siamo allontanati dal paese perché in collegio a studiare) Da casa, la più piccola delle cameriere, portava in cantina un bottiglione d’acqua in quanto questo serviva a sciacquare le bottiglie travasate dal momento che in cantina non c’era acqua potabile. Dopo la vendemmia uno di noi ragazzi dopo aver aiutato a travasare il vino si occupava delle botti ma nonostante l’accuratezza di zio Andrea di renderle idonee a contenere il mosto, alcune di loro mostravano delle piccole perdite che noi pazientemente “medicavano” con cemento e spesso bisognava rinnovare. Finito il travaso del vino e preparato quello che doveva servire per la settimana che seguiva, Rosa rientrava a casa con una bottiglia di vino sulla testa che sarebbe servito per il consumo familiare o per mandarlo in regalo .Questo compito generalmente lo svolgeva la cameriera che ci aveva aiutato a svolgere i servizi in cantina.
5. Descrizione della cantina Parlare di una cantina potrebbe al lettore sembrare strano in un piccolo libro di ricordi ,ma questa per mio padre era un passatempo cui non avrebbe rinunziato per nessuna cosa al mondo La cantina era situata in via Seggio di Sotto, una strada che lambiva il paese; è una strada particolare, in quanto collegava il corso Umberto I con via Palazzo, passando attraverso il rione Sepale. Era una strada con case ed abitazioni solo all’inizio, in quanto appena finita la discesa erano tutte cantine di famiglie antiche di Sant’Arcangelo; c’era quella della famiglia Di Gese, quella della famiglia Molfese e quella della famiglia Scardaccione. Per limitarmi alla nostra cantina, essa era così strutturata: un muro di cinta molto antico circondava un giardino diviso in due da un piccolo viale posto in direzione principale della cantina. Le mura del recinto piuttosto alte servivano anche a proteggere le persone che non erano viste dalla piazza quando facevano i loro bisogni corporali. Infatti prima che le case del paese fossero dotate di servizi igienici, quei 20 metri di strada fuori mano servivano alle persone per i bisogni corporali urgenti ma anche programmati. Non solo i bisogni corporali ma anche le coppiette, spesso, usavano quel posto per appartarsi. Prima della vendemmia, che avveniva verso i primi di ottobre, eravamo soliti mandare una persona per pulire il tratto di strada di tutti gli escrementi che per mesi le persone avevano deposto in strada Naturalmente, durante il periodo della vendemmia solo qualche urgenza era ammessa di notte, in quanto la presenza di persone e il continuo via vai di asini che trasportavano l’uva, non permettevano di consumare in pace questo rito. Anche la porta di entrata ai due giardinetti era vecchia di secoli, era una porta bianca con una cancellata nella parte superiore che si teneva in piedi più per i chiodi e la vernice che per la robustezza del legno. L’ingresso dava su un piccolo viale largo tre metri che portava sull’ingresso della cantina, a destra del viale vi era un piccolo giardino sul quale erano piantati due alberi di mandorlo5, mentre sul piccolo giardino dalla parte sinistra c’era un grande fico che produceva magnifica frutta. Sulla parte sinistra del muro di contenimento della facciata, c’era una casella, mentre sulla parte destra un’altra cantina dove si conservavano le fascine di legni secchi, che servivano a cuocere il mosto, ma soprattutto venivano portate a casa al bisogno per accendere il fuoco. La cantina era chiusa da una bella porta in legno fatta a cancellate dal momento che doveva permettere un ottimo ricambio d’aria, specie durante la fermentazione del vino. Era dotata di una chiusura “mascatore” costruita appositamente da un fabbro ferraio di Roccanova, la cui chiave era lunga circa 30 centimetri ed era un vero e proprio capolavoro. La cantina era costruita tutta in mattoni a volta ogiva ed era profonda oltre 30 metri,larga circa 7metri ed alta circa 9 metri. Entrando nella cantina, appena sulla destra, c’era il palmento a pietra e la tina anche essa a pietra, mentre proseguendo verso la stessa parte c’era una serie di nicchie scavate sulla massa arenaria con piccole volte nelle quali venivano poste le vecchie bottiglie di vino e vecchi utensili. Poi si trovava il torchio che serviva per spremere l’uva, proseguendo nella parte destra si incontravano dei piccoli tavoli tondi dove si poggiavano le bottiglie che servivano per travasare il vino; dopo i due tondi vi erano altre nicchie e lì poi iniziava la fila delle botti di uno, tre o quattro quintali ed altre più grandi che una zia di mia madre Adelina Rusciani Melidoro, di Valsinni, aveva regalato ai miei genitori( c’era addirittura una botte da venti quintali6). Al fondo della grotta c’era un locale dove si conservava la salsa di pomodoro. La parte sinistra della cantina, partendo dal fondo, era occupata da vecchie botti e proseguendo si incontravano nicchie scavate nella arenaria occupate da bottiglie di vino anche vecchio. Proseguendo sulla parte sinistra si arrivava verso l’ingresso dove erano situate due grandi casse di legno “cascioni” un tempo usate per conservare il grano. Il lato sinistro vicino alla grande porta terminava con un angolo dove venivano poste delle vecchie otre in ceramica, utilizzate per conservare nell’antichità vino ed olio (erano oggetti di antiquariato in quanto datate 1770,1800). Vi era una lapide sopra il palmento che si trascrive: 5 Ricordo che con la resina raccolta dal tronco dell’albero delle mandorle, eravamo soliti fare la colla che poi sarebbe servita ad incollare le buste. 6 Purtroppo la cantina con il suolo annesso, è stata utilizzata per costruire l’edificio scolastico e quindi il tutto è stato sepolto sotto una colata di cemento che i nostri antenati forse scopriranno un giorno.
6. L’acqua calda
Era con questa espressione che mio
padre usava chiedere una tazza di caffè dopo il riposino pomeridiano; la
borghesia del mio paese durante il periodo invernale non era solita
dormire il pomeriggio, ma ciò avveniva appena dopo S.Michele patrono del
paese festività che cadeva l’8 Maggio. Dopo il pranzo mio padre non
andava subito a letto ma in camera da pranzo egli era solito travasare
quel po’ di vino che Rosa ,la nostra colf, aveva portato dalla cantina e
preparare alcune bottiglie da inviare in regalo;il vino buono era un
regalo che tutti accettavano con tanto piacere. Mentre attendeva
l’arrivo dell’acqua calda – caffè-, era solito sedere dietro la
scrivania del salotto ed evadere la corrispondenza che aveva con
colleghi ed amici o sbrigare le numerose pratiche come medico. Passava
poi il pomeriggio nello studio a scrivere e riordinare le sue carte ed
una cartella dove c’era scritto “evadere”, era quella nella quale erano
poste le pratiche più urgenti da sbrigare. Mio padre, infatti, oltre che
corrispondente del Mattino di Napoli, per tanti anni, era anche in
corrispondenza con gli uomini illustri che Sant’Arcangelo aveva
prodotto. Nicola Sansanelli, Francesco Cerabona, Michele Cerabona. Il
primo, impegnato a livello nazionale in politica, durante il fascismo e
poi Sindaco di Napoli era un ottimo amico di mio padre, in quanto medico
curante della sua madre a Sant’Arcangelo fino a quando non è morta.
L’Onorevole Francesco Cerabona, comunista, deputato al Parlamento,
Sottosegretario ai Trasporti e Michele Cerabona, Presidente del
Tribunale di Napoli erano ottimi amici con i quali intratteneva una
corrispondenza epistolare per vari problemi
7. Giornata tipica negli anni 50 in una famiglia benestante Avendo molti terreni a conduzione diretta, avevamo personale giornaliero specie femminile a cui, durante la giornata lavorativa “po spese” si dava il pranzo e alcune volte la cena. Era il periodo della raccolta delle olive; in cui, le donne da 7 a 10 venivano la mattina in casa a prendere gli attrezzi per la raccolta: sacchi, rete, canne e si avviavano al lavoro. Verso le ore 12 si preparava un pranzo vario ,che si inviava in campagna, generalmente pasta e legumi e per secondo formaggio pane e vino e un po’ di frutta.Alcune volte per secondo si davano patate lesse con peperoni secchi, baccalà poche volte carne. La sera al termine del lavoro che consisteva nella bacchiatura delle olive e del loro raccolto, i sacchi erano trasportati dall’asino, ma ognuna di loro riportava qualche chilo di olive che poi avrebbe preparato salate o fresche (abbunate). Passavano da casa e si preparava loro la cena che era pasta al sugo, pasta in brodo, ciambotta, baccalà, peperoni fritti e qualche volta carne, il tutto condito con vino. Il pagamento consisteva in un litro di olio al giorno. Avendo delle aziende a mezzadria il lavoro di controllo era esplicato da mia madre in quanto mio padre non poteva assentarsi dal lavoro, se non chiedendo preventivamente giorni di ferie in quanto doveva essere sostituito. Pane e provolone era questo il pasto che eravamo soliti fare quando mia madre andava alla masseria a controllare i lavori stagionali. Infatti mio padre medico condotto non poteva muoversi dal paese se non veniva sostituito da un altro medico; quindi le sue ferie anche di un giorno dovevano essere con molto anticipo programmate. Terminate le visite mediche nel paese, verso mezzogiorno passava dal negozio di Sale e Tabacchi di Vincenzo La Casa che vendeva anche generi alimentari e su indicazione del bottegaio, che magnificava il provolone piccante che aveva appena iniziato, lo convinceva a comprarne una bella fetta. Uscendo da scuola incrociavo mio padre che mi consegnava il pacchetto che religiosamente portavo a casa, dal momento che per l’assenza della mamma e della cameriera grande non potevamo cucinare un piatto caldo. Ci si sedeva a tavola e si mangiava mortadella, soppressata, provolone piccante accompagnato da un dito di vino per noi piccoli; .la frutta chiudeva il pranzo in previsione del lauto pasto serale caldo che la mamma avrebbe cucinato. Generalmente mia madre all’imbrunire rientrava accompagnata dalla balilla di Giovanni u castrunuvese percorrendo le tortuose vie che portavano dalla nostra masseria del Monte al paese. Quando non era disponibile l’automobile si era soliti andare al Monte con il carrozzino tirato da un giovane cavallo domato, che per la vigoria che mostrava faceva volare il calesse, nonostante avesse a bordo due persone adulte ed un bambino, che ero io. Ricordo che una volta, mentre rientravamo al paese, il cavallo nello scacciare con il muso lo mosche che lo infastidivano perse l’equilibrio, andò per terra ed il carrozzino con noi a bordo si ribaltò. Fortunatamente noi passeggeri uscimmo indenni dall’incidente, non così il cavallo che si produsse numerose ferite tanto gravi che dovettero essere curate dal veterinario. Il carrozzino non era di nostra proprietà ma veniva dato in uso da un nostro vicino di masseria, tale Narduccio D’Alessandro, che inviava il suo mulattiere (Giovanni Colella) a prenderci e ricondurci a casa. L’ultimo ricordo vivo nella mia mente del viaggio in carrozzino risale alla morte della mia nonna Giuseppina Ranone, vedova Molfese, che per una brutta caduta(1942) morì dopo qualche giorno di coma; in quella occasione in un assolato mattino vidi arrivare il carrozzino e mia madre molto turbata ci chiamò perchè dovevamo rientrare in paese con urgenza. Solo all’arrivo scoprii che la nonna non era più con noi ed in quella occasione fu forse l’unica volta che vidi piangere mio padre. Con i figli era molto severo, specie con me forse perchè ero il più piccolo. Il modo di farmi una carezza e mostrarmi il suo affetto, consisteva nello strusciare la sua guancia ispida di barba alla mia glabra per cui scendevo dalle scale sempre con la faccia rossa.
8. A Rizette (la ricetta medica) Era così chiamata la prescrizione (ricetta medica) che il medico preparava al paziente dopo la visita medica in caso di bisogno di qualche medicina. Nel periodo della II guerra mondiale ed appena dopo (epoca a cui si riferiscono questi ricordi) i pazienti che si recavano dal medico condotto, iscritti nell’elenco dei poveri, avevano oltre la visita medica, i farmaci gratis e l’eventuale ricovero in ospedale(evenienza molto rara). Anche se si trattava di farmaci galenici preparati in cartelle(in quanto le specialità medicinali erano poche), erano questi sufficienti a guarire le malattie da cui si era affetti. Generalmente si andava nell’ambulatorio del medico di buon mattino, dal momento che vi poteva essere folla, e ciò accadeva specie nei periodi nei quali era in atto una epidemia di influenza o di qualche altra malattia contagiosa. Solitamente lo studio del medico condotto (sanitario cui ci riferiamo che era mio padre) era presso l’abitazione dello stesso, in quanto per sua comodità preferiva visitare in un ambiente situato nella propria abitazione, ma destinato ad ambulatorio per le visite. Essendo situato lo studio al primo piano della casa, i pazienti in visita erano soliti attendere il turno nel salone di casa abbastanza ampio per consentire l’attesa delle persone che dovevano essere visitate. Il problema sorgeva quando c’erano più bambini, i quali timorosi della visita medica piangevano per tutto il tempo; il pianto di 7-8 bambini che si sostenevano a vicenda rendevano l’atmosfera invivibile per le altre persone che si erano recate dal medico per bisogno e mal sopportavano il chiasso e la confusione. Malattia frequente negli anni ‘50, era la infestazione elmintica, ed i vermi interessati potevano essere tanti: enterobius vermicularis, trichiuris tricjuria, ascaris lumbricoides, strongjloides stercolaris. La trasmissione era diretta (mano – bocca) o indiretta (con l’ingestione di uova dei parassiti); i sintomi per alcuni erano il prurito anale, per altri disturbi intestinali, dolori, nausea ed alcune volte diarrea. Negli anni ‘50, prima dell’avvento di preparati sintetici, si era soliti usare la santonina7 che risolveva il caso previa l’aggiunta di un purgante drastico. Molti pazienti erano soliti portare un bicchiere vuoto, dal momento che dovevano avere la prescrizione di farmaci contro le parassitosi intestinali, una malattia molto frequente nelle zone rurali. Il medico, dopo la raccolta dell’anamnesi ed una visita accurata, confermava la diagnosi per cui prescriveva la santonina, un farmaco somministrato per via orale. Il paziente in trattamento era posto a dieta liquida in modo che il farmaco potesse esplicare il migliore effetto nel più breve tempo. Nei casi più gravi, specie nelle recidive, il medico era solito associare anche un purgante drastico in modo che l’effetto combinato potesse essere migliore così da debellare definitivamente il disturbo. Il paziente con la ricetta si recava in farmacia e prelevava il farmaco di colore giallo che era posto nel bicchiere che aveva portato da casa. In farmacia il paziente faceva un’altra attesa in quanto la dispensa di medicinali avveniva al mattino ed il farmacista Don Pasquale era solito prendersela comoda. 7 La Santonina era il lattone dell’acido santoninico ottenuto dal bocciolo seccato dell’Artemisia Cina o Seme Santo o da altre specie di Artemisia della famiglia delle Composite. La Santonina era usata come vermifugo (ossiuri e ascaridi), non provocava la morte dei parassiti per cui doveva essere associata ad un purgante; era consigliata alla dose da 60 a 200 mg per 3 giorni di seguito. Si trovava nelle urine un suo metabolita, che colora le urine acide in giallo e quelle alcaline in violetto. Fenomeni tossici legati all’assorbimento della santonina vanno dalla Xantopsia (visione gialla degli oggetti) ai disturbi del Sistema Nervoso Centrale. La scoperta di nuovi antiparassitari sintetici meno tossici, ne hanno fatto abbandonare l’uso clinico.
9. Flobert Era questa una marca di fucile di piccolo calibro di produzione francese che mio padre, con regolare porto d’armi ma non cacciatore appassionato, era solito portare in campagna le rare volte che vi si recava; infatti impegnato con la professione poche volte all’anno riusciva a ritagliarsi un pomeriggio dedicato a seguire i lavori in campagna.I giochi di noi fratelli più piccoli erano altri;si giocava con la carrozza, con il monopattino, con il cerchio, con u scupettuole (questi erano giochi degli anni 50 che si giocavano da soli). Vi erano altri giochi che si giocavano in compagnia come le stacce,a zunbasella, a cavaliere, a iesse l’orse(rimpiattino). Mio fratello più grande iniziava giochi più impegnativi per giovani-adulti. Un ricordo indelebile è quello di un pomeriggio di inizio inverno, in cui io in compagnia di mio fratello Francesco ci recammo con mio padre ad osservare la potatura delle piante di oliva in una contrada situata sotto il paese, chiamata cannavari. Ricordo che appena giunti mio padre consegnò il fucile a mio fratello, impartendogli tutte le precauzioni da attuare in caso avesse sparato a qualche uccello. Mentre con mio padre osservavamo l’andamento della potatura delle piante ed alimentavamo il fuoco per smaltire così i rami tagliati, mio fratello cominciò a girare per il fondo per provare il fucile su qualche animale selvatico. Ricordo ancora il calore del fuoco alimentato dai rami delle olive che piacevolmente toglieva quel senso di umido e di freddo che l’ora serale e l’iniziale inverno procuravano. Giravano nell’uliveto molte piche di montagna, gazze ladre che avevano un corpo chiaro ed una bella livrea di colore azzurro con punti neri; erano animali molto furbi e facevano stancare il cacciatore, in quanto fuggivano prima che egli potesse arrivare alla giusta distanza di tiro per colpirle. Vi era un detto al mio paese: ” se vaie appriesse o piche non te retire miche”, se vai dietro la pica non rincasi mai. Caso volle che usando speciali cartucce e tanta pazienza - mio fratello - riuscì ad abbattere due piche con la gioia di tutti noi, ma specie di mio padre, che poteva vedere nel figlio il continuatore della tradizione della nostra famiglia nella quale vi sono stati tanti cacciatori. Era così radicato nella mia famiglia l’esercizio della caccia, che, quando al termine della II guerra mondiale tutti i cittadini furono obbligati a denunziare le armi in possesso, noi, poiché ne avevamo tante (fucili e pistole ad avancarica), dovemmo mandare alla Caserma dei Carabinieri alcuni asini con gli sportoni ricolmi di armi affinché li potessero verificare ed elencare.. In seguito a quella prima cacciata mio fratello prese il porto d’armi e continuò ad andare a caccia in ogni parte del mondo, tanta era la passione per questo sport. A sera al rientro nel paese mio fratello Francesco, Don Ciccio per i paesani, portava bene in vista i due trofei abbattuti e tutti si complimentarono per la fortunata caccia, compresa mia madre che avrebbe poi cucinato la selvaggina.
Era il conciliatore un giudice
onorario,con sede in ogni comune che svolgeva gratuitamente processi
civili (era sfornito di giurisdizione penale) di competenza per valori
limitati fino a lire 50.000 che riguardavano le piccole beghe paesane
che accadevano in ogni regione. Il procedimento era retto dalle stesse
norme che regolavano quelle dinanzi al pretore e sottraeva in questo
modo alla giustizia molte controversie che altrimenti sarebbero
approdate alla pretura che ai tempi cui ci riferiamo era carente già
allora di personale e di mezzi. La domanda giudiziale poteva essere
proposta verbalmente e le parti potevano stare in giudizio di persona.
Fino agli anni sessanta e per trenta anni mio padre Eugenio Molfese
medico condotto di S. Arcangelo ha svolto anche questa mansione con
professionalità e competenza. L’organico era formato dal conciliatore,
dal segretario, mansione svolta da un impiegato comunale addetto una
volta alla settimana e per una mattinata,e dal messo conciliatore un
impiegato preposto alla notifica degli atti di comparizione e dei
provvedimenti e di quanto altro atteneva a questa istituzione. Il
giovedì era il giorno di udienza che si teneva al mattino con inizio
dopo le ore 10,30 dopo che il conciliatore che era anche medico aveva
sbrigato le visite in ambulatorio ed eseguite almeno le visite urgenti
nel paese. La sede per molto tempo fu allocata in un sala annessa alla
Chiesa del Convento (era la vecchia sacrestia) e l’ingresso era posto al
lato del Giardino di Infanzia, che altro non era che il complesso
utilizzato dalle Suore Filippine (appartenenti all’ordine di Don
Vincenzo Grossi) che all’epoca cui ci riferiamo (anni 40-50) era
utilizzata come scuola materna.
11. ‘A cena da‘ vescjlia de Natale. La cena della vigilia di Natale
Era importante il pranzo di Natale, ma
soprattutto il pranzo della sera della vigilia, durante la quale, in
base alla tradizione, si preparava un menu a base di pesce, o prodotti
similari. Mio padre era solito approvvigionarsi di tutte quelle cose “di
natura alimentare” che sarebbero servite per il pranzo della vigilia di
Natale. Il tutto era giustificato dall’arrivo dei tre figlioli, sparsi
per l’Italia per compiere gli studi. In quell’ occasione desiderava,
durante la loro presenza durante le vacanze di Natale, offrire loro
qualche leccornia che non si sarebbero potuti permettere in collegio.
Era solito comprare, a tempo debito, prodotti come vongole e cozze
sgusciate, pesce azzurro, (sgombro) in scatola, filetti di acciuga
arrotolati con capperi e parmigiano a pezzi in scatola. Il tutto era
acquistato in una ditta di Parma o dei sobborghi, chiamata “Fratelli
Greci”, che negli ani 40-50, avevano un negozio che spediva merce in
tutta Italia mediante contrassegno. Di recente, in una mia visita a
Parma, in quanto giurato internazionale al FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL
FILM SCIENTIFICO, ho avuto modo di constatare che la ditta ancora
esiste, ma non sono a conoscenza se spedisca ancora oggi i propri
prodotti nel resto d’Italia come faceva allora, visto che essi sono
reperibili in qualsiasi supermercato. La sera della vigilia di natale
nei paesi situati nell’entroterra della Basilicata si era soliti
festeggiare con un pranzo a base di pesce. Mentre nei paesi prospicienti
il mare tutto ciò era facile per i paesi posti a distanza dal mare e con
i collegamenti difficili potete immaginare che cosa significava far
giungere del pesce fresco in un paese situato nel centro della
Basilicata.
12. La malattia di mamma
La malattia che colpì mamma si
manifestò con una febbre che comparve nel mese di giugno del 1948. Noi
tre bambini con mamma al termine della scuola ci preparammo
adeguatamente e dopo aver spedito con l’asino per due giorni consecutivi
le provviste per soggiornare al monte almeno tre mesi ,partimmo con la
balilla di “giovanni u castrenuvese “per la masseria .La preparazione di
noi bambini almeno dei due più piccoli consisteva nel far venire il
barbiere a casa e farci rasare a zero per evitare che animali
indesiderati potessero coltivare le nostre capigliature .L’andata al
monte per le vacanze estive,le uniche che potevamo permetterci,dava
anche la possibilità a mio padre,medico condotto,di assentarsi per un
giorno e passare con noi un giorno in compagnia. In campagna non c’era
luce ed acqua potabile per cui la illuminazione era realizzata con lumi
a petrolio e luci ad olio mentre per l’acqua bevevamo l’acqua del pozzo
vicino alla masseria che veniva spesso pulito per evitare infezioni che
in estate potevano insorgere. Fu proprio quell’anno che mia madre dopo
qualche settimana in campagna cominciò a presentare febbre anche elevata
per cui mio padre fece rientrare tutti a casa in quanto aveva bisogno di
essere curata. Per i caratteri che l’accesso febbrile assumeva e per
tutti gli altri sintomi presentati mio padre diagnosticò una febbre
tifoide . Dopo aver prelevato un campione di sangue portato
espressamente a Potenza da Francesco Vitti, nostro zio che era in
villeggiatura a S. Arcangelo il Laboratorio di Igiene Profilassi
confermò la diagnosi di infezione da salmonella tiphi. 8 Quale rappresentante del Ministero della Sanità ho avuto modo di incontrare il prof Petrone in commissione per gli esami per il conseguimento del Diploma di Infermiere professionale presso la Scuola di Croce Rossa a Potenza. In quella occasione ho avuto modo di ringraziare il collega a distanza di circa 40 anni per le cure risolutive prestate a mia madre
13. La malattia di papà Erano comparsi da qualche tempo fastidiosi dolori alle mani che cominciò a curare con bagni caldi in cui erano state poste delle gocce di iodio. Si pensava a dolori reumatici ma questo non era. Cominciavano a comparire altri sintomi che andavano dalla stanchezza al dimagrimento per cui fu necessario interpellare specialisti che a Bologna fecero la diagnosi di sclerosi amiotrofica laterale. Furono compiute molte ricerche a Roma all’Ospedale San Camillo per confermare la diagnosi che purtroppo era esatta. Mio fratello Francesco, anche se allora non vi era internet interpellò scienziati di molti paesi per sapere se vi era una cura a questa malattia. Ricordo che rispose una professoressa russa alla richiesta di mio fratello che ancora non vi era una cura. Ero a studiare a Napoli Medicina al 2 anno e non mi resi conto della gravità della situazione in cui versava mio padre. Solo quando dovevo partire per l’Università di Pavia, procastinai la partenza perché mio padre era al termine e non volevo lasciare mia madre sola. Ho avuto la fortuna che mio padre è morto tra le mie braccia. Ho voluto dare solo qualche accenno a questo avvenimento in quanto ricordarlo mi procura immenso dolore.
Per non dimenticare Una persona che ancora dopo aver superato i cento anni si emoziona per alcuni avvenimenti della natura è da considerarsi eccezionale. Parlo di mia mamma Giuseppina che nata in un paese della Calabria a picco sul mare aveva il privilegio di godere del plenilunio, un avvenimento meraviglioso della natura che l’ha accompagnata per tutta la vita. Proprio qualche giorno fa (eravamo nel 2000), nelle ore passate in sua compagnia le ho ricordato che la luna era piena e se fosse stata in grado di camminare mi avrebbe detto: ”andiamo a vedere la luna che mi ricorda Castroregio” Un ricordo ed un retaggio che ha portato con sè da Castroregio, paese albanese di Calabria, dove, rimasta senza genitori, in quanto morti prematuramente, dovette amministrare la proprietà di famiglia. Questa predisposizione a dirigere le proprietà di famiglia e l’ azienda familiare l’ha mantenuta anche dopo sposata, in quanto mio padre, medico condotto a S’Arcangelo (Pz) non poteva per impegni professionali seguire la conduzione dell’ azienda agricola, per cui mia madre assunse in pieno il compito di dirigerla. Questo avvenne durante il periodo della guerra quando mio padre era al fronte ma continuò anche dopo il suo rientro in Italia alla fine della guerra. Nel dopoguerra le automobili, specie in Basilicata, erano rare ed i trasporti di persone e di cose erano fatte a dorso di quadrupede. Andare al Monte, la nostra azienda a due ore di cammino dal paese, significava essere trasportati da un cavallo e da un asino e servirsi di un mulattiere che si prendeva cura degli animali. Durante uno di questi viaggi, dal momento che non avevamo potuto usufruire, come eravamo soliti fare, della Balilla di Giovanni, nostro autista, mentre mia madre accompagnata dalla cameriera e dal fido Vincenzo era a cavallo ed iniziava la salita molto ripida del monte, quest‘ultimo con fare bonario usò questa espressione : ”così conciata, signora padrona,sembrate una regina”. Era certamente un bel complimento! Durante le ristrettezze del dopoguerra mia madre era solita fare qualche regalo ad alcune famiglie bisognose che abitavano vicino la nostra casa; per lo più si trattava di generi alimentari allora introvabili che a casa nostra non mancavano mai in quanto prodotti nei nostri terreni. Qualche volta questa sua prodigalità era male interpretata anche in famiglia; spesso con la nonna paterna e con le zie (per lei cognate) e anche con mio padre litigava; erano litigi che però duravano l’arco di un’ora. Come donna all’antica mia madre aveva iniziato a fumare qualche sigaretta durante la infezione della spagnola, in quanto spinta da suo zio medico per combatterla; non contrasse così la malattia, anche perché Castroregio era privo di strada rotabile e quindi la infezione non poteva essere trasmessa a dorso di mulo. All’età di 85 anni è partita dall’Italia per visitare l’Albania, ancora sotto il regime comunista; dopo un viaggio in pulmann di 18 ore all’arrivo a Tirana ricordo che la sera, anche se molto stanca, non si sottrasse agli impegni ufficiali che ci obbligavano ad una cena con le autorità. Durante il breve soggiorno in Albania, desiderosa di visitare i luoghi dai quali erano partiti i suoi antenati cinque secoli prima, non ebbe mai a lamentarsi per la stanchezza o disertò un appuntamento importante.
14. Certificati Medico Legali In un vecchio registro, rinvenuto tra le carte di mio padre, che riporta i certificati medico legali(solo alcuni)rilasciati dal 1 Giugno 1953 al……. marzo1959 (epoca nella quale si evidenziò la malattia che lo ha portato alla morte) ho avuto modo di osservare le numerose mansioni che il medico condotto svolgeva sul territorio. Con la emanazioni di nuove leggi erano numerosi i certificati che la crescente burocrazia richiedeva a coloro che intraprendevano una carriera pubblica,o dovevano dimostrare il loro buono stato di salute (per conseguire la patente di guida,espatriare, condurre un esercizio pubblico o riprendere il lavoro dopo una malattia). Il Ministero della Sanità ed il Medico Provinciale continuavano a svolgere il ruolo di autorità sanitaria centrale e provinciale, mentre a livello locale, il Medico Condotto era il responsabile dei servizi di assistenza e cura, alle dipendenze amministrative del Sindaco e svolgeva:
- l’assistenza sanitaria,farmaceutica
ed ostetrica gratuita agli iscritti nell’elenco dei poveri.
Erano così tante ed alcune volte così
complesse le attività dei medici condotti dell’epoca che è difficile
elencarle e descriverle. Come scriveva un medico del territorio in un
suo scritto ”quando vieni chiamato di notte per una persona che sta male
e prendi visione del caso che dovrai da solo risolvere,un sudore gelido
bagna la nuca scende lungo il dorso e comincia la tua mente a valutare
le possibili soluzioni perchè in breve tempo dovrai scegliere la
migliore possibile per salvare il paziente che si è a te affidato. Sono
sensazioni che non si possono descrivere ma che solo chi le ha vissute
le può comprendere.” Oltre l’assistenza medica in generale la ostetricia
era una branca specialistica che il medico condotto era obbligato a
praticare, in quanto le donne iscritte nell’elenco dei poveri dovevano
avere l’assistenza al parto gratuito da parte dell’ostetrica, e se
necessario, del medico condotto. A S. Arcangelo, se capitava qualche
caso difficile, la brava ostetrica, Bianca M., li risolveva
egregiamente; se qualche volta chiamava il medico, era perché il caso si
presentava difficile ed si rendeva necessaria l’arte del professionista
per la sua risoluzione. Applicazioni di forcipe in caso di atonia
uterina erano non molto frequenti, così come altre patologie che quando
capitavano impegnavano il medico dal momento che era solo a
fronteggiarle. Non parliamo della illuminazione in quanto in molte case
la luce era fioca e non idonea a facilitare qualsiasi intervento medico
dovesse essere praticato; spesso capitava qualche ritenzione parziale di
placenta, che a lungo andare avrebbe causato infezioni uterine(metriti)
alla paziente o emorragia post partum. Era questa una patologia molto
temuta, poiché la puerpera, nelle prime ore del post parto, iniziava a
sanguinare dal collo dell’utero, nonostante le terapie mediche esplicate
a base di farmaci uterotonici. Infatti se l’utero è completamente vuoto
si contrae serratamente e mantiene questa condizione; se si presenta
invece qualche residuo di placenta, l’organo accenna ad una contrazione
ma poi inizia il rilasciamento e quindi inizia la emorragia. Allora il
medico, solo con i farmaci poteva arrestare l’emorragia, somministrando
uterotonici e sperando che la stessa si fermasse; in caso contrario,
doveva eseguire una revisione della cavità uterina da solo, con gravi
rischi per la paziente ed anche per il medico, in quanto, qualora si
presentasse un’emorragia profusa, non c’erano a disposizione sacche di
sangue da trasfondere. I piccoli residui di placenta, eventualmente
presenti nell’utero, sarebbero stati inglobati nella mucosa, avrebbero
per più lungo tempo sostenuto perdite ematiche ed alla distanza
avrebbero causato metriti e metro annessiti quando l’infezione, che
quasi sempre insorgeva, si propagava anche alla tuba ed ovario. Le
visite preventive erano rivolte a quella parte della popolazione che per
motivi contingenti poteva contrarre malattie ad ampia diffusione come la
tubercolosi. Era anche entrato nell’uso svolgere una medicina preventiva
per la diagnosi precoce dei tumori dell’utero. Oltre che esami
schermografici per accertare lo stato dell’apparato respiratorio, erano
praticati all’occorrenza test alla tubercolina ed altri esami
radiografici mirati per escludere una malattia attiva in atto ed infine
esami che richiedevano colture di liquidi organici per la ricerca del
bacillo di Kock. Lo striscio vaginale e l’esame istologico era
realizzato in strutture specialistiche di cui solo l’ospedale di Potenza
era fornito. Delle vaccinazioni abbiamo già parlato ed era un impegno
non indifferente fino a quando è stata obbligatoria la vaccinazione
antivaiolosa. Era chiamata nel dialetto locale Vetranella, la
vaccinazione antivaiolosa, che era praticata negli anni ’50 sugli alunni
delle scuole elementari dal medico condotto, che si recava nelle varie
classi per adempiere al suo mandato, in quanto pratica obbligatoria.
Generalmente, tale pratica si svolgeva in primavera e nel giorno
stabilito gli alunni delle quarte e quinte elementari si preparavano a
ricevere la vaccinazione. Il medico condotto, mio padre, che
materialmente praticava la
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