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L'ULIVO E L'OLIO

ANTONIO MOLFESE
 


INDICE

   - IL PERCHÉ DEL LIBRO
   - PREMESSA
   - MITOLOGIA DELL'OLIVO
   - DIFFUSIONE
   - ARCHEOLOGIA DELLA DIFFUSIONE DELL'OLIO
   - L'ULIVO IN GRECIA
   - L'OLIO NELLA PENISOLA ITALICA E SULLA VIA DI ROMA
   - COLTURA DEGLI OLIVI
   - PRODUZIONI E DIFFERENTI TIPOLOGIE DI OLIO
   - PREPARAZIONE
   - VARI SISTEMI DI MOLITURA
   - VENDITA E COMMERCIO DELL'OLIO
   - COMMERCIO E MARKETING
   - IL TRASPORTO
   - UTILIZZO DELL'OLIO E DEL LEGNO DI ULIVO
   - L'OLIO NELL'ALIMENTAZIONE. GENERALITÀ
   - L'OLIO NELLA CUCINA GRECA

  
- L'OLIO NELLA CUCINA ROMANA
   - L'OLIO IN MEDICINA
   - LE VIRTÙ TERAPEUTICHE DELL'OLIO E DELLA PIANTA DELL'ULIVO
   - I VARI CULTIVAR DELL'ULIVO
   - L'OLIO PER L'IGIENE DEL CORPO (UNZIONE)
   - CURA DEL CORPO CON L'OLIO
   - LAMPADE AD OLIO
   - DALLE LAMPADE Al) OLIO A QUELLE ELETTRICHE
   - LA SOPRAVVIVENZA DELLA COLTURA DELL'OLIVO NELLA PENISOLA ITALICA E NEI MONASTERI
   - L'OLIO D'OLIVA: UN ALIMENTO PREZIOSO
   - VALORE ALIMENTARE DELL'OLIO D'OLIVA
   - LA COLTIVAZIONE MODERNA DELL'OLIVO E LA PRODUZIONE DELL'OLIO DOC
   - ATTECCHIMENTO, VARIETÀ, PROPAGAZIONE E DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA
   - I PRODOTTI DELL'ULIVO
   - LA COLTIVAZIONE NEI SECOLI
   - RACCOLTA DELLE OLIVE
   - IL FRANTOIO

   - QUALITÀ, CONTENUTI E DENOMINAZIONI
   - CLASSIFICAZIONE MERCEOLOGICA
   - BIBLIOGRAFIA

 

Finito di stampare nel mese di Novembre 2009 presso
La Grafica Di Luechio snc
Tel. 0972.721146 - Rionero in Vulture - PZ
www.graficadilucchio.it

 

(Pubblicazione Autorizzata dall'Autore)


IL PERCHÈ DEL LIBRO

Ai giorni nostri l'olio d'oliva è il re dei condimenti e conserva una posizione privilegiata, nonostante l'aggressivo avanzare di numerosi prodotti alternativi; dagli antichi era chiamato oro liquido, oro giallo, tanto era prezioso il suo utilizzo. Sono circa un miliardo le piante di ulivo recentemente censite nell'intero pianeta terra, ubicate maggiormente fra il 3o0 ed il 450 parallelo (a Nord e a Sud dell'equatore), ma il 98% di esse si trova ancora nella zona di nascita, cioè nell'area mediterranea, di Medio Oriente, al Nord Africa, all'Europa meridionale. La sua coltivazione si è consolidata nei secoli, tanto che, ai giorni nostri, non potremmo concepire una zona agricola mediterranea senza la presenza dell'ulivo. Con il passare del tempo e con la migrazione dei popoli, l'ulivo si è propagato in varie direzioni divenendo una pianta conosciuta in quasi tutti i continenti e questa sua distribuzione si sta estendendo a vantaggio di altre zone geografiche. Gran parte del merito di aver fatto sopravvivere per tutto il Medioevo la coltura dell'ulivo in Italia e la pratica attività dei frantoi si deve ad alcuni ordini religiosi, fra cui, in particolare, i Benedettini, i Cistercensi ed i Francescani. I primi seguivano la regola dettata da San Benedetto da Norcia, che aveva fondato comunità che si ispiravano ai principi evangelici, ma che trovarono anche nel codice del monaco umbro lo strumento più efficace per l'edificazione di una "repubblica cristiana", fondata sulla preghiera e sul lavoro. Contadini e operai agricoli tendevano ad abbandonare le terre che avevano lavorato per secoli; Benedetto e i suoi seguaci li persuasero a dedicarsi a colture redditizie, come appunto quella dell'ulivo, che li avrebbero riscattati dalla povertà. Nei monasteri le ore del giorno erano equamente suddivise fra i turni di preghiera e i turni di lavoro: i monaci non disdegnavano di impugnare la zappa per migliorare lo stato dei terreni calcarei sotto le mareggiate di ulivi argentei: in alcune località ci sono ancora campi e terrazzamenti di ulivi che risalgono al lavoro dei monaci, come in molte zone dell'Italia centro — meridionale, fra cui la Basilicata. Non si videro forse mai tanti uliveti e vigne come dal Mille al Quattrocento — gli anni d'oro dei monasteri benedettini, cistercensi e francescani. I conventi ricrearono uliveti di grandi dimensioni, dati in gestione a contadini con contratto «ad laborandum», secondo cui il proprietario dell'uliveto riceveva parte del raccolto e alcune giornate di lavoro nelle proprie terre. Più tardi, nel XII secolo, vennero stipulati contratti «ad infinitum» , cioè senza limiti di tempo, per cui i contadini si impegnavano alla coltivazione in cambio di un fitto, sovente pagato in olio.
La religione cristiana, riferendosi all'ulivo e al suo olio, citati nei Vangeli, estese il dono dell'olio benedetto a tutta la comunità dei credenti, esso infatti è presente, come simbolo, in tutte le cerimonie religiose dal battesimo alla consacrazione dei neosacerdoti, oleum eatechumenorum, alla cresima, sacro crisma, ed in fine nell'offerta dell'estrema unzione ai morenti, oleum infirmorum. A parte l'alimentazione, la medicina e la cosmesi, era usato durante la liturgia. Durante il Medioevo ogni residenza importante, come ogni comunità religiosa, disponeva di propri uliveti con lo scopo primario di assicurarsi non solo un componente essenziale della dieta, ma anche l'elemento base per i sistemi d'illuminazione delle chiese cristiane. La tradizione dell'uso dell'olio per le lampade dedicate al culto non si è affievolita, anzi è molto aumentata, ed un esempio è quanto avviene ogni anno per il complesso monumentale di S. Francesco di Assisi, per le cui lampade è designata a turno a fornire l'olio di oliva una regione italiana (quest'anno tocca alla Regione Basilicata).
Nonostante la scoperta di altri combustibili, petrolio, gas e luce elettrica, la fioca luce della lampada ad olio continua tuttora ad ardere innanzi agli altari, dove si conservano le reliquie più sante e più venerate.
In questi tempi le chiese cattoliche hanno spalancato le porte alla luce elettrica che soffoca in certo modo il fioco lume delle candele e delle lampade ad olio. Lo sfolgorio abbagliante è di breve durata e la modesta luce della lampada rimane solitaria e silenziosa a diradare le dense ombre notturne anche quando la turba dei fedeli si allontana ed il tempio resta vuoto e silenzioso.
Furono senza dubbio i Fenici che portarono dall'Africa in Europa e per primi in Grecia l'uso della lampada ad olio, la quale, in seguito, attraverso le colonie greche dell'Italia meridionale, giunse a Roma e si diffuse in tutto il mondo romano. Che la priorità dell'invenzione spetti ai Fenici è dimostrato anche dalla scoperta di numerose lampade in forma di scodelle o di conchiglie, sia nei paesi che essi abitarono, sia in quelli da essi colonizzati, come Cartagine, Cipro, la Sardegna. Quanto all'uso per illuminazione, possiamo ricordare che la prima e più solenne descrizione di una lampada ad olio è riportata nell'Esodo, secondo libro del Pentateuco, quando Dio incaricò Mosè di fabbricare un candelabro a sette bracci d'oro (il sacro Menorah degli Ebrei) e di utilizzare per accenderlo l'olio d'oliva più puro. In uso fino al 1800, le lampade ad olio hanno assunto le forme e gli stili più diversi che tutti conosciamo, da quelle povere in terracotta a quelle sontuose in bronzo.
Per indicare l'ora vespertina, ossia quando incominciano a calare le tenebre, Erodoto spesso fa uso dell'espressione: "al momento in cui si accendono le lampade"; e questa frase, malgrado il volgere di tanti secoli, è giunta, come tutti sanno, integra e completa fino a noi.
Sappiamo che i Romani erano grandi estimatori dell'olio d'oliva e ne consolidarono l'uso in tutto il territorio dell'Impero, nel quale esso era notoriamente un prodotto pregiato per l'alimentazione, per la cosmesi, per la medicina e per l'illuminazione. Si è stimato che il consumo medio di olio a Roma nell'età imperiale superava i 22 Kg. pro capite per anno. Se paragoniamo tale stima con la media di circa 30 Kg. pro capite/anno, attualmente rilevata in Italia per il consumo totale di grassi, sia animali che vegetali, possiamo avere ulteriore conferma dell'importanza dell'olivicoltura mediterranea al tempo dei Romani.
Sulla spianata della Rocca di Lisbona, che domina il grande porto sul Tago, si può ammirare un bel giardino mediterraneo che comprende alcuni alberi d'ulivo. Il più antico di essi porta una lapide su cui è scritto un toccante messaggio che sembra ispirarsi al leggendario patto di amicizia. Quel messaggio dice:
"Fermati un istante e guardami, o viandante! Io sono tuo amico. Dalle mie membra fu costruita la tua culla, prima ancora che tu nascessi. Ti ho donato le assi per la porta che protegge la tua casa. La mensa, attorno a cui riunisci la tua famiglia, è fatta con quella parte che vedi mancare dal mio tronco. Non ti ho negato pezzi del mio corpo per il calore del tuo focolare. Sono pronto a donarti le assi che proteggeranno il tuo corpo, dopo la tua morte. Puoi avvicinarti, puoi toccarmi e raccogliere i miei frutti, puoi anche prendere ancora una parte del mio tronco. Solo ti chiedo di farlo con amore, senza farmi male".
E' piacevole citare anche un articolo che è comparso su National Geographic nel settembre 1999, con il titolo "Olive Oil, elisir of the Gods". Elisir degli dei viene appunto definito l'olio d'oliva e l'autore Erla Zwingle esordisce con questo simpatico elogio dell'olio:
"Puoi bruciarlo per fare luce, puoi lavarci il tuo corpo, ci puoi lubrificare i meccanismi inceppati. Costituisce la base dei cosmetici e viene usato per lucidare i diamanti. Con esso si ungono i Re, i Sacerdoti, i neonati ed i moribondi. È un eccellente conservante per alimenti (pesce, carni, formaggi). Riscaldato ad alta temperatura, esso ha rappresentato un'ingegnosa arma da guerra ed uno strumento di tortura. Inoltre, è anche un eccellente alimento. E' carico di vitamina E ed è privo di colesterolo. Da oltre 4000 anni, fa parte delle culture mediterranee nei più disparati settori, che vanno dalla finanza alla medicina".
Il libro"L'ulivo e l'olio "di Antonio Molfese vuole rappresentare un contributo alla manifestazione che si sta organizzando relativamente all'offerta dell'olio di oliva da parte della Regione Basilicata per le lampade della Chiesa di S. Francesco in Assisi. Vuole anche essere un omaggio ai tanti lavoratori che con pazienza ed amore raccolgono il frutto, dopo aver accudito, come si cura un bambino, per tutto un anno le piante di ulivo sempreverdi che infondono quiete solo a guardarle. Dovremmo invogliare le coltivazioni di ulivi e fare come il Papa Pio VII, che, nel 1820, per incrementarne la diffusione, corrispondeva un paolo (moneta dell'epoca corrispondente a 50 centesimi d'oro) per ogni nuova pianta messa a dimora.
 

PREMESSA

La ricetta che Pollione Gaio Asinio consigliava per vivere a lungo era: I"Intus mulso, foris oleo", fare uso interno di vino condito con miele ed esternamente di olio. - La più bella e più significante apologia dell'ulivo e dei suoi prodotti è sintetizzata nel mito della sua origine, perché, mentre il grano e la vite sono anch'essi dono di due divinità benefiche, l'ulivo appartiene a Minerva, la dea benefica, ma, in pari tempo, sapiente.
Gli antichi ebbero la chiara intuizione della importanza dell'ulivo fin dai tempi più remoti, è certo che fin d'allora il suo prodotto, più che il grano ed il vino, fu fonte di un attivo commercio, anche per il fatto che, pur divenendo, ovunque, l'olio, ben presto, di uso comune, non si diffuse con altrettante facilità la coltivazione dell'ulivo a causa delle particolari condizioni di clima e di suolo che esso richiedeva.
La mancanza di produzione locale, come, ad esempio, si verificò in Egitto, malgrado il largo consumo di olio, soprattutto nella preparazione dei cosmetici e dei profumi, rese necessaria una notevole importazione, che vi affluì, specie dalla Palestina, i cui fertili uliveti furono la fonte principale della sua ricchezza. In numerosi brani dei poemi antichi — nell' "Biade" e nell' "Odissea", ma anche nell' "Eneide" — si scopre che gli atleti, prima di una gara, usavano l'olio per massaggi e che, spesso, al vincitore, fra gli altri premi veniva assegnata anche una corona d'ulivo. Ne fa testimonianza anche il poeta Pindaro nelle sue "Odi Olimpiche": perché mai gli atleti si sarebbero accontentanti di una corona di ulivo (o di alloro) se non ne avessero compreso l'importanza? Nell' "Iliade", ripetutamente, Ulisse lontano dalla patria Itaca, sogna il letto nuziale — ricavato in un gigantesco tronco di ulivo (
1) -, e quando, finalmente, giunge a casa, il suo primo pensiero è di accogliere la fedele Penelope sul letto d'ulivo.
Ma tutti i poemi dell'antichità — anche quelli indiani e persiani — parlano delle virtù dell'olio.
Columella (
2), illustre agronomo spagnolo del I secolo dell'era Cristiana, scriveva nel suo "De re rustica" in merito all'ulivo: «olea prima omnium arborum est». Condolle riteneva più probabile l'origine della specie là dove maggiore ne era l'area allo stato selvatico, spontaneo, da cui poteva essere discesa la pianta coltivata, in Asia minore e in Siria soprattutto perché in queste regioni l'ulivo selvatico spontaneo era ab antiquo.

1 - Il talamo nuziale di Ulisse e Penelope era scavo in un tronco di ulivo "ancora vivo", Omero celebra il fatto nel racconto del ritorno a casa dell'eroe (Odissea, L. XXIII, 150-204).
2 - Al pari della vite, anche l'ulivo, detto da Columella il più nobile e più utile degli alberi, vanta la sua origine leggendaria, perché, come la vite si fa risalire a Bacco, così l'ulivo deve la sua origine a Minerva e la sua propagazione a Aristeo, figlio di Apollo e della ninfa Cirene.

Tito Livio (Annales, lib. XXI) attribuisce la vittoria di Annibale sul console Tiberio, presso il fiume Trebbia, in una giornata particolarmente rigida, al fatto che i Cartaginesi si fossero unte le membra con olio: «... miles, oleoque per manipulos, ut mollirent artus, misso...in acem procedit», quando i Romani sorpresi e affamati « ...fessaque corpora Romanis et rigentia gelu torpebant» .
L'impiego dell'olio di oliva, al di là delle manifestazioni più o meno sacrali, aveva anche fini pratici, come, per esempio, nelle attività sportive o belliche. Ovidio nelle sue Epistulae ex Ponto parla degli «uncta dona palestrae» e Seneca nelle Epistulae ad Lucilium, dichiara espressamente di non voler comprendere nella arti liberali i «lottatori e tutta quella scienza che sta nell'olio e nell'argilla».
L'olivo rimane, per la sua mitezza, la pianta capace, in ogni luogo ed età, di dare allo spirito e all'alimento della persona un tono di soavità e grazia.

Qui radichi e cresca: non vuole per crescere
Ch'aria, che sole, che tempo, l'ulivo!
                                                  (G. Pascoli)
 


MITOLOGIA DELL'ULIVO

L'uomo, da tempi remoti, ha sempre dato enorme importanza alla ' pianta dell'ulivo, trattandola con il rispetto che si conviene alle cose sacre ed il rapporto fra loro è così antico e profondo che viene da immaginare una leggenda mai trascritta fino ad ora: la leggenda del primo uomo sulla terra, che apre gli occhi per la prima volta per ammirare le meraviglie del Creato e lo sgomento della solitudine fu subito alleviato dall'ombra di un vecchio albero, un ulivo millenario, che tendeva verso di lui le sue braccia antiche e robuste, sussurrandogli un rassicurante benvenuto con la brezza delle sue chiome argentate. Fra i due ci fu subito un'intesa che generò quel patto di amicizia fra l'uomo e l'ulivo che non avrebbe avuto mai fine e ciò avvenne prima di qualunque iniziativa intrapresa dall'uomo nella sua lunga avventura sulla terra.
Su questa leggenda immaginaria, possiamo innestare il mitico racconto sugli alberi del monte Tabor, alle cui pendici fu sepolto Adamo a cura del figlio Set, fra le labbra del padre morto egli aveva collocato tre semi perché germogliassero dando vita a tre alberi per ombreggiare la tomba. I tre alberi sacri erano un cedro, un cipresso ed un ulivo. Con il tempo quegli alberi popolarono il monte Tabor.
Un vecchio albero di ulivo scavato dal tempo, a parte il mito e la leggenda, porta con sé la carica di mistero e di magia di un monumento vivente che impone rispetto. In realtà, infatti, tutti i monumenti delle grandi civiltà ci ispirano rispetto, ma essi purtroppo ci parlano di cose già morte, mentre un ulivo millenario ci fa sentire il profumo di una vita che continua ancora oggi. Questa sensazione è tangibile per chi sosta nella valle dei Templi di Agrigento, oppure nei pressi del Partenone, dove i tronchi dispersi di antiche colonne sono adagiati ai piedi di vecchi ulivi che, sfidando il tempo, sembra siano rimasti vivi e vegeti sul posto per proteggere i segni di un'antica bellezza che non c'è più.
Se poi allarghiamo il raggio di osservazione, curiosamente ci accorgiamo che ogni sito archeologico delle nostre civiltà occidentali è "presidiato” da un albero di ulivo.
Quale e quanta importanza fosse attribuita fin dalla più remota antichità all'ulivo è dimostrato non soltanto dal fatto che le sue foglie ed i suoi frutti entrarono a far parte nelle più solenni cerimonie civili e religiose — le corone di ulivo date in premio ai vincitori, l'olio usato nei sacrifici ecc. — ma anche, e prima ancora, dalla predilezione dello stesso Giove.
Narra la mitologia che, nella gara sorta tra Nettuno e Minerva per ottenere la signoria dell'Attica, avendo Giove decretato che tale signoria sarebbe stata conferita a chi gli avesse fatto il dono più utile, la preferenza venne data a Minerva per avere offerto l'ulivo, mentre Nettuno aveva offerto il cavallo.
Le origini di questa pianta sono remote ed immerse nel mito: gli storici fanno risalire l'origine dell'ulivo sulle aride colline asiatiche che si trovano fra il Pamir ed il Turiernenistan, dove era certamente coltivato 6.000 anni fa. È altrettanto certo che la propagazione di questa pianta si è sviluppata verso l'occidente, nelle zone settentrionali della Persia e della Mesopotamia, fino alla Siria. Gli Miti e gli Assiri facevano uso corrente di olive e di olio, che, già nel 2000 a. C., rappresentavano beni di largo consumo in tutto il Medio Oriente.
Al di là della presenza antichissima di una Olea sylvestris possiamo, con ipotesi accreditate, affermare che l'Olea sativa abbia avuto quindi il centro di origine nella regione compresa tra l'acrocoro armeno ed il Turkestan, da dove si sarebbe diffusa verso le aree mediterranee. Accertato, ormai, che la coltivazione dell'ulivo risale ad almeno 6000 anni fa, ne fanno fede racconti tradizionali, testi religiosi e rinvenimenti archeologici; probabilmente la pianta ebbe il suo habitat originario in Siria ed i primi che pensarono a trasformare una pianta selvatica in una specie domestica furono senza dubbio popoli che parlavano una lingua semitica. Dalla Siria il percorso del cultivar (termine tecnico che deriva da cultivated variety ed indica le varietà di piante coltivate) fu relativamente semplice fino alle isole dell'Egeo e alle assolate colline dell'Anatolia.
La coltivazione dell'ulivo nell'antica Palestina fu assai più estesa ed importante di quella della vite; tanto da formare una delle principali ricchezze di questa regione. L'ulivo prosperava e prospera generalmente su un terreno calcareo, secco, pietroso, esposto al sole: ricordiamo tutti che di fronte a Gerusalemme la tradizione pone il celebre Monte degli Olivi — com'era in quasi tutte le campagne intorno alle città della Galilea. Noi sappiamo che il bacino del Mediterraneo è stato colonizzato (e civilizzato) a partire da Est e sappiamo che i grandi navigatori Fenici, che venivano dalle sponde orientali, iniziarono oltre mille anni avanti Cristo ad aprire fiorenti scambi commerciali fra le sponde del Mediterraneo. Essi stabilirono le condizioni ideali per la comunicazione e la conoscenza reciproca fra popoli molto diversi fra di loro, ponendo le basi della cultura mediterranea, molto prima che Atene e Roma prendessero la scena in questa magica culla di civiltà. Sarebbe dunque provato che la pianta dell'ulivo fu introdotta nel Mediterraneo proprio dai Fenici: certo è che l'attecchimento è stato eccellente, sia sul terreno che sulla cultura dei popoli, conquistando un posto centrale nell'agricoltura, nell'alimentazione e nel rituale religioso, dalla Palestina alla penisola Iberica, radicandosi poi nella civiltà ellenica e romana. Questo attecchimento, che potremmo definire culturale, oltre che colturale, ha finito per identificare l'area mediterranea come "luogo di nascita" della pianta dell'ulivo.
Il suo trapianto in Grecia trovò un'inaspettata fortuna e applicazione che la resero, poi, indispensabile ai popoli antichi del Mediterraneo. Con ogni probabilità piantarono uliveti in quel vasto territorio assolato e fertile che fu la Magna Grecia, le terre costiere della Puglia, della Calabria, della Sicilia, della Campania; nonostante il grande uso che si fece dell'olio d'oliva nell'antichità classica, c'è ancora chi sostiene che la prima regione italiana dove attecchirono le coltivazioni d'ulivo fu la Liguria: qui le piante sarebbero state portate dai Crociati dopo il Mille, avendole conosciute in Palestina. Probabilmente questo episodio si riferisce soltanto a quella particolare specie di ulivo (varietà Taggiasca), che cresce così favorevolmente sulle coste aspre, battute dal vento, sia a ponente, sia a levante del golfo di Genova.
È, tuttavia, indubbiamente vero che nel nostro Paese, per circa un millennio dal suo attecchimento, l'ulivo non conobbe una diffusione come già aveva avuto in Anatolia occidentale e in Grecia (isole comprese), e fu certamente limitato a piantagioni promiscue con altre piante.
L'ulivo è stato considerato sacro da molte popolazioni, non solo per il suo apporto calorico, ma soprattutto per la sua stessa natura di pianta resistente e longeva. Sappiamo che ad Atene fu sacro alla dea Athena (un ulivo — da sempre — si trova accanto all'Eretteo sull'Acropoli; ulivi crescono da millenni nel recinto sacro di Olimpia come sulla collina del Philopappos, dedicata alle Muse); nelle antiche monete ateniesi, accanto alla civetta c'è un rametto di ulivo. L'olio spremuto dalle olive non era soltanto, nell'antichità, una risorsa alimentare, ma era usato anche come cosmetico e come coadiuvante nei massaggi. Inoltre gli atleti, in particolare coloro che si dedicavano alla lotta, usavano cospargere i muscoli di purissimo olio, sia per il riscaldamento degli stessi, sia per contrastare la presa degli avversari. I Cinesi non conoscevano l'olio e si limitarono ad importarne poche piante d'ulivo (ciò accade anche in tempi moderni); mentre i Romani fecero un grande uso d'olio (
3), essi, infatti, non usavano burro (la parola butirum è di origine greca, è riportata da Ippocrito e da Plutarco, ma ha il significato di "unguento").

3 - Si discute ancora se ad importare la coltivazione dell'ulivo in Italia siano stati i Fenici o se i Romani ne scoprirono i benefici usi dalla Magna Grecia

Nell'economia etrusca la coltivazione dell'ulivo occupava un posto di rilievo sin dal VII secolo a. C: la tecnica della spremitura delle olive era stata importata dai Greci, ma l'olio era usato per l'illuminazione e la cosmesi e scarsamente per l'alimentazione, poiché questo popolo ricorreva soprattutto a grassi animali.
Il ricordo della colomba che, secondo la leggenda biblica, portò a Noè il ramoscello di ulivo per significargli che il diluvio era cessato e che la pace era tornata sulla terra, può dirsi rimasto nella memoria di tutti i popoli, allo stesso modo che quel ramoscello verdeggiante fece conoscere ai ricoverati nell'arca, che la natura, sconvolta dalla collera divina, aveva ripreso il suo andamento normale e tornava a sorridere. Presso le popolazioni delle coste mediterranee, divenne e rimase simbolo dei supplicanti, salvaguardia degli ambasciatori, emblema di pace, e questa tradizione, perpetuata di secolo in secolo attraverso molti millenni, è giunta fino a noi.
Infatti, fin dai tempi più remoti il ramo di ulivo fu adoperato sui campi di battaglia come simbolo di pace tra i belligeranti, ovvero come invocazione di pietà da parte degli sconfitti.


DIFFUSIONE

Si sono trovati, negli scavi di Samaria, in Palestina, degli elenchi scritti su tessuti o incisi su frammenti di terracotta, riferiti all'ulivo, custoditi nel palazzo di Achab (re d'Israele del IX secolo a. C.). Che l'ulivo fosse per gli Ebrei un simbolo è chiarito anche dall'episodio della colomba dell'arca di Noè. Nel "Deuteronomio" — l'ultimo dei cinque libri di Mosè — l'olio è l'immagine della prosperità, della gioia e dell'amicizia; è anche considerato simbolo di forza e di saggezza: ma — si avverte nel libro dei "Proverbi" — tenere con sé una donna litigiosa è come avere le mani unte di olio: niente può avere una presa salda. Nella Bibbia le citazioni dell'ulivo sono circa una settantina, esso, infatti, con la vite e il fico è uno degli alberi caratteristici della Palestina.
Esistono reperti che assicurano la coltivazione dell'ulivo a Creta nell'età minoica (3000-1500 a. C). La ricchezza dei re di Creta era certamente basata, almeno in parte, sull'esportazione dell'olio d'oliva in Egitto e nei paesi del litorale orientale del Mediterraneo, da dove si propagò lentamente verso Occidente. La coltivazione dell'ulivo raggiunse Roma dalla Grecia, attraverso l'Italia meridionale, dopo il 580 a. C., quando anche la vite arrivò sui colli dell'alto Lazio e dell'Etruria; nel periodo classico era conosciuta in tutte le regioni della costa mediterranea.
in Egitto, intorno al 2000 a. C., in Palestina e Libia, l'olivocoltura fu introdotta dal Fenici nel 900-800 a. C. per passare poi in Sicilia e Spagna con le correnti commerciali fenicie e greche nel V secolo a. C.
Nella regione italica si sviluppò, tra il VI e il IV secolo a. C., nel Lazio, poi in Sabina, nel Sannio, nel Piceno, nel Veneto e in Liguria; in seguito le colture di olea si svilupperanno in Sardegna e nella Gallia, per essere completamente fiorenti in tutto il bacino del Mediterraneo al termine dell'era repubblicana romana.
Esistono comunque altre ipotesi da prendere in considerazione, come quella, ad esempio, che il Sud d'Italia, ed in particolare tutto il territorio della costa Enotria, fu il punto di approdo dei coloni greci, intorno al 720 a. C., quando appunto nacquero le colonie greche ioniche di Sibari, Crotone, Metaponto ecc; da qui l'ulivo avrebbe iniziato la sua diffusione anche negli altri paesi costieri del Mediterraneo.
 

ARCHEOLOGIA DELLA DIFFUSIONE DELL'OLIO

A parte la leggenda mitologica, i botanici sono di parere che la vera origine dell'ulivo debba ricercarsi in Oriente, e precisamente a sud dell'Asia, da dove i semi dell'ulivo selvatico, ovvero olivastro che dir si voglia, sarebbero passati in Europa e nell'Africa del nord, trasportati dagli uccelli al pari dei semi del fico e della vite; mentre la trasformazione dell'olivastro, mediante apposita coltivazione, sembra essere stata opera delle antichissime popolazioni della Siria.
Non è possibile precisare quando per la prima volta l'ulivo, sia pure allo stato selvatico, abbia fatto la sua prima apparizione in Europa; ma è fuori di dubbio che ciò debba essere avvenuto in epoche assai remote.
A differenza degli antichi Babilonesi ed Assiri, i quali non conobbero affatto l'olio e si servirono unicamente dell'olio di sesamo, esso fu ben conosciuto dai popoli semitici, dagli Armeni e dagli Egiziani, e nei libri dell'Antico Testamento, assai spesso si trova fatta menzione dell'ulivo e più ancora dell'olio, sia perché normalmente usato come alimento, sia perché adoperato nei sacrifici, tra cui la famosa offerta di panatica, consistente in fior di farina stemperata con olio.
Secondo l'opinione di G. Schweinfurth, l'ulivo sarebbe stato importato dalla Siria in Egitto al tempo della XIX dinastia, tuttavia esso trovasi già raffigurato sui monumenti della XVIII che celebrano le vittorie dei Faraoni e, più tardi, dalla XXII alla XXV, si trovano mummie anch'esse ornate di corone di ulivo; e se gli egiziani si servirono dell'olio di ricino per la preparazione degli unguenti e per alimentare le lampade, utilizzarono altresì l'olio di ulivo per profumarsi, per la celebrazione dei sacrifici e come alimento.
Le vestigia di un frantoio in pietra di lava, rinvenute tra i monumenti preistorici esumati a Santorini, la presenza di alcuni noccioli di olive, trovati nelle rovine del palazzo di Tirino, nelle case e nelle tombe di Micene, le decorazioni di ramoscelli di ulivo, raffigurati sui vasi d'oro di Vasio e su un frammento di vaso di argento di Micene, provano che, assai prima dell'epoca omerica, l'ulivo passò dall'Asia Minore nelle isole dell'Arcipelago ed in Grecia e che ivi se ne conobbe non soltanto la coltivazione, ma anche l'arte di estrarre l'olio.
Spesso nei poemi omerici si parla dell'ulivo verdeggiante, dalle foglie allungate, benefico e sacro, il cui legno serve a fare il manico delle asce e delle clave, come pure dell'olio odoroso e scorrevole con il quale gli dei e gli eroi si ungono le membra per renderle profumate e più agili; che se i popoli orientali importavano presso i Greci i loro oli profumati, di cui custodivano gelosamente i segreti di fabbricazione, ciò non implica che i Greci non conoscessero l'arte di estrarre l'olio dagli ulivi che coltivavano.
Nelle epoche successive, troviamo l'olio diffuso ovunque nella Jonia e nelle isole e le antiche tradizioni poetiche e religiose che lo ricordano sono prova che esso era stato introdotto in quelle regioni da molto tempo. Così in Efeso era in grande venerazione l'ulivo sacro, presso il quale Latona aveva partorito Apollo e Diana; la stessa leggenda esisteva a Delo, dove sorgeva anche un ulivo sacro, e a Lindo, nell'isola di Rodi, presso il tempio di Minerva si trovava un antico e celebre bosco di ulivi. Nella Grecia continentale, la prima regione dove apparve l'ulivo fu l'Attica, il cui suolo si presentò assai propizio alla sua coltivazione, favorita e disciplinata anche da apposite leggi fin dai tempi di Solone, il quale, allo scopo di intensificarne la coltivazione, proibì ai proprietari, sotto pena di una ammenda, di tagliarne più di due piante all'anno. L'ulivo fu, come è noto, particolarmente sacro a Minerva e sull'Acropoli di Atene si conservava con religiosa cura l'albero che la dea aveva fatto germogliare miracolosamente al momento della sua disputa con Nettuno. Durante tutta l'antichità, l'ulivo rappresentò la più importante produzione e dalla Grecia, probabilmente, passò in Sardegna, nella Sicilia e nell'Italia meridionale, e successivamente venne introdotto a Roma dai Greci della Campania. I principali centri di cultura dell'ulivo in Italia furono quelli della Magna Grecia (nell'Italia centrale in primo luogo il territorio di Venafro, Cassino, la Sabina, il Piceno, nell'Italia del nord le coste della Liguria e le rive orientali dell'Adriatico e nell'Istria).
Le prime piantagioni di ulivi nella Gallia apparvero nei pressi di Marsiglia; nella Spagna, lungo tutta la regione mediterranea; nell'Africa furono i Fenici che ne diffusero la coltivazione lungo il litorale, tanto che all'epoca dell'Impero l' "olea europaea" aveva occupato tutte le regioni adatte alla sua coltivazione. La religione cristiana, riferendosi all'ulivo e al suo olio, citati nei Vangeli, estese il dono dell'olio benedetto a tutta la comunità dei credenti e così questo è presente, come simbolo, in tutte le cerimonie religiose, dal battesimo alla consacrazione dei neosacerdoti, oleum eatechumenorum, alla cresima, sacro crisma, ed in fine all'estrema unzione per i morenti, oleum infirmorum.
L'ulivo è una pianta longeva: sembra che esistano esemplari plurimillenari come l'ulivo di Platone ad Atene, quello di Ulisse nell'isola di Djerba in Tunisia, quello dell'orto di Getsemani, e l'«albero della spada» presso Tivoli. A Fibbianello vicino a Magliano, in provincia di Grosseto, è ancora vegeto un ulivo detto «della strega», su una collina riparata, soleggiata ed asciutta, che si favoleggia abbia duemila anni. È chiamato l'Ulivone per le sue proporzioni gigantesche: alto ventidue metri, dà ogni anno sei quintali di olive. La raccolta si fa in tre tempi: prima dai rami fino ai sette metri di altezza, poi da quelli fino a quattordici metri e, in fine, si raccolgono le olive dei rami più alti. Assistervi è come essere presenti alla celebrazione di un rito.
 

L'ULIVO IN GRECIA

La prima apparizione dell'ulivo in Grecia si ricollega al mito della disputa sorta tra Nettuno e Minerva, la quale lo fece miracolosamente germogliare, come abbiamo già detto, sull'Acropoli di Atene. La terra di Colono, di un bianco lucente, perché composta di ghiaia, coperta di un denso strato di sabbia e di creta, era in particolar modo favorevole agli splendidi ulivi che la coprivano fin dai primi tempi e di cui fu ben presto riconosciuta ed apprezzata la grande importanza, come è facile rilevare dalle pitture su antichi vasi. Sono essi forse i più antichi documenti, relativi alla storia dell'ulivo e dell'olio; e le loro figure, dipinte in nero, per quanto semplici e primitive, ci fanno assistere alle varie operazioni necessarie per la raccolta delle olive, la fabbricazione dell'olio e la vendita di esso. Essendo l'Attica ottimamente propizia, per la sua posizione geografica, alla coltivazione degli ulivi, ciò venne ad aggiungere un nuovo elemento di ricchezza e di prosperità a quella regione privilegiata, dove la vigna e gli uliveti si disputavano il suolo e dove furono emanate, fin da quei tempi antichissimi, apposite leggi per regolare e stimolare la produzione dell'olio.
L'olio d'oliva fu ben presto in Grecia uno dei prodotti principali dell'agricoltura ed uno dei più importanti generi di commercio; anzi fu la sola merce che il legislatore Solone permise di scambiare con gli stranieri e ciò, senza dubbio, perché il paese ne produceva più di quanto ne abbisognava al suo consumo. A tale proposito sappiamo che il grande filosofo Platone, approfittando di questo permesso, allorché intraprese un viaggio in Egitto, non sdegnò di portare con sé un carico di olio, nella certezza di poterlo vendere a buone condizioni; come pure è noto che, più tardi, gli agenti dell'imperatore Adriano, convinti che, in ragione della sua abbondanza, l'olio di oliva fosse, come il sale, una delle sostanze che avrebbero potuto rendere maggiormente al fisco, non tardarono a tassano in Atene. Al pari dell'Attica, il resto della Grecia fu dedito alla coltivazione dell'ulivo.
 

L'OLIO NELLA PENISOLA ITALICA E SULLA VIA DI ROMA

Secondo i più antichi autori, Ariste°, figlio di Cirene e di Apollo, dopo avere insegnato ai Greci l'arte di estrarre l'olio dall'oliva, sarebbe passato in Sicilia dove avrebbe insegnato agli abitanti di quell'isola il modo di trarre profitto dall'albero provvidenziale; da qui ben presto si diffuse nell'Italia continentale. Tenuto conto delle numerose colonie greche, le quali in breve popolarono le rive della Magna Grecia, è verosimile ammettere che vi importassero subito la coltivazione dell'albero così intimamente legato alla loro storia, alla loro religione e così facile ad acclimatarsi nella loro nuova patria, anche perché i suoi prodotti erano per i Greci di prima necessità, in quanto rappresentavano un elemento ed un alimento indispensabile.
L'ulivo, in tempi romani, attecchì, come abbiamo detto, in Sabina, nel Sannio, nel Piceno, nel Veneto, lungo il lago di Garda (olio del Benaco, molto pregiato presso i Romani contemporanei del poeta Catullo) e in Liguria: in quest'ultima regione giunse verso il V secolo a.C., un'epoca molto precoce. In epoca imperiale, le colture dell'ulivo giunsero anche in Sardegna e, ancora più tardi, furono conosciute oltre le Alpi, lungo le coste assolate della Provenza; una mano alla diffusione dell'olivicoltura la diedero indubbiamente anche gli Etruschi, che erano abilissimi contadini. Quando le legioni romane giunsero nelle valli della Puglia, del Chiana, dell'alto Tevere, verso Chiusi, Cortona e Perugia, alla fine del IV secolo a.C., uscendo dalle foreste del Lucus Feroniae e dei monti Cimini, scoprirono davanti a loro, a perdita d'occhio i "campi opulenti" dell'Etruria: vigneti, campi di grano e uliveti. Alla fine del periodo repubblicano romano — all'incirca al tempo della nascita di Cristo — l'ulivo aveva attecchito in tutti i paesi del Mediterraneo; superato il periodo misto di dipendenza alimentare dalla caccia, dalla raccolta spontanea dei frutti e da una primitiva agricoltura, i Romani si dedicarono dal VI secolo a.C. a un'orticoltura intensiva e alla coltivazione dell'ulivo e della vite. Queste due "nuove" colture si debbono in ugual misura ai contatti che gli abitanti del Lazio ebbero con i Greci della Campania e con gli Etruschi. Nell'anno 505 a. C. a Roma, sotto il consolato di Appio Claudio e di Lucio Giunio, dodici libbre di olio di oliva non costavano che un asse. Nei monumenti e nelle monete dell'antichità romana si trovano scolpite o incise le foglie di ulivo, a volte associate al lauro, a volte alla quercia, a volte all'acanto, come pure
nelle antiche pitture murali il fogliame di ulivo costituisce l'elemento principale dei vari motivi di decorazione.
Per i Romani l'olio di oliva era notoriamente un prodotto pregiato per l'alimentazione, per la cosmesi, per la medicina e per l'illuminazione. Si è stimato che il consumo medio di olio a Roma nell'età imperiale superava i 22 Kg. pro capite per anno; se paragoniamo tale stima con la media di circa 30 Kg. pro capite/anno, attualmente rilevata in Italia per il consumo totale di grassi, sia animali che vegetali, possiamo avere ulteriore conferma dell'importanza dell'olivicoltura mediterranea al tempo dei Romani.
Allorché l'imperatore Settimio Severo (193-211 d. C.) accordò a Leptis Magna il diritto italico e l'esenzione dall'imposta fondiaria, con forti presidi militari garantì i confini della Tripolitania dalle incursioni e devastazioni dei popoli nomadi e gli abitanti di Leptis, per dare una prova della loro riconoscenza all'imperatore, si imposero di inviare ogni anno a Roma una certa quantità di olio, che in parte veniva distribuita al popolo, in parte conservata come riserva per far fronte ai bisogni nelle annate di cattivo raccolto. Tale riserva raggiunse in breve un quantitativo così considerevole che, alla morte di Severo, avvenuta nel 211 d. C., dopo diciotto anni di regno, l'olio immagazzinato a Roma poteva bastare per cinque anni non solo ai bisogni della città, ma a quelli di tutta l'Italia, dove la coltura dell'ulivo era stata abbandonata. Gli imperatori in Roma, al pari dei municipi nelle province, facevano assai spesso le loro distribuzioni gratuite di olio al pubblico non altrimenti che le distribuzioni di grano, pane e di altri commestibili, di cui la liberalità imperiale gratificava di tanto in tanto la plebe nei famosi "congiari" per assicurarsene il favore.
 

COLTURA DEGLI ULIVI

In questo periodo storico un'attenta e minuziosa legislazione vigila sul buon andamento dell'economia agraria. Il proprietario che dà in affitto il fondo ad un colono deve anche pensare alla fornitura di «boves domiti» per arare, di «pecus stercolandi causa parata» per la concimazione, di «vasa utilia culturae» come aratri, falci per il lavoro quotidiano.
Per quanto riguarda l'olio il proprietario deve approntare il «trapetum instructum funibus» e le «regulae», cioè i singoli strumenti per la pressione e la raccolta del prodotto, l' «aenum» , ossia il recipiente per il lavaggio delle olive, ed infine i «vaso olearia» per la conservazione del prodotto.
Presso i Romani l'olio di oliva era conservato in colossali anfore di terracotta, rese impermeabili da una speciale verniciatura. L'agricoltura repubblicana a Roma si trasformò presto dalla piccola proprietà del fondo familiare all'azienda rustica, che fu definita al meglio (da Catone) nell'estensione di mo iugeri, cioè di circa 25 ettari; il grande lavoro degli schiavi consentiva in primo luogo la cura del vigneto e degli appezzamenti a frumento, in secondo luogo quella dell'uliveto. Esistevano, tuttavia, anche aziende dedicate solamente a una sola coltura: era questo il caso degli uliveti della Sabina, dell'Umbria, della Campania, dell'Etruria meridionale: ci sono pervenute notizie di uliveti di 6o ettari che prevedevano la presenza di uno schiavo — fattore con la sua famiglia e con una dozzina di L'operai". Il lavoro era particolarmente intenso quando ci si disponeva alla bacchiatura delle olive, la cui raccolta veniva eseguita esclusivamente a mano; in gran fretta, poi, si portava il raccolto al frantoio — generalmente questo era attrezzato nei dintorni della casa colonica o al centro dell'uliveto. La fattoria classica di epoca repubblicana, infatti, prevedeva una casa per colui che conduceva il fondo (nei casi del fattore di un uliveto, Plauto usa l'espressione olearius), magazzini, stalle e un frantoio.
Gli antichi coltivatori giudaici affermavano che bisognava attendere quasi dieci anni per avere un buon raccolto abbondante, ma addirittura trent'anni per ricavarne il massimo. Gli Ebrei poterono gustare i frutti e l'olio soltanto dopo essere divenuti un popolo sedentario e con gli uliveti ebbero la ricchezza, perché gli alberi d'ulivo sono longevi, possono raggiungere un'altezza fino a 12 metri, fornire tutti gli anni 120 chilogrammi di olive, il che, a quei tempi, significava almeno 25 litri d'olio. La raccolta dei frutti veniva effettuata prima della loro piena maturità, in settembre — ottobre, a mezzo di lunghe pertiche con cui si percuotevano i rami; le olive che rimanevano attaccate all'albero erano lasciate ai poveri. La raccolta delle olive in Palestina veniva generalmente effettuata prima della completa maturità, scotendo i rami degli alberi, ovvero battendoli con lunghe pertiche; e per l'estrazione dell'olio, si faceva uso di grossi mortai di pietra, nei quali le olive erano schiacciate grossolanamente, in modo da spremere soltanto il primo olio, che rappresentava il più puro e più stimato e come tale era l'unico prescelto per tutte le cerimonie del culto. La seconda estrazione veniva fatta sottoponendo al frantoio le olive, già in parte spremute, ed ottenendo in tal modo una qualità di olio meno puro, meno dolce e meno stimato, e del quale si faceva normalmente uso, sia per l'alimentazione, sia per altri bisogni comuni; rimangono tuttora in Palestina molti frantoi scavati nella pietra, anche nei luoghi dove gli ulivi non esistono più. Questi frantoi, che dimostrano la vasta coltura dell'ulivo nell'antichità, erano generalmente formati di due pietre, di cui una concava per ricevere le olive, l'altra che vi girava sopra per schiacciarle e spremerne l'olio.
Affinché le piante potessero crescere in piena libertà, senza ostacolarsi e danneggiarsi reciprocamente, in Grecia, come accennato, Solone prescrisse che gli ulivi fossero piantati a nove piedi di distanza gli uni dagli altri; come pure ordinò che nessuno potesse tagliarne sul proprio fondo più di due piante all'anno, a meno che ciò non fosse per qualche lavoro autorizzato dalla religione; chiunque avesse violato questa legge era tenuto a pagare, per ogni albero tagliato, cento dracme all'accusatore ed altre cento al fisco, dalla quale somma veniva prelevata una decima parte per il tesoro di Minerva. Il racconto della fecondità dell'ulivo nel portare i suoi frutti e nell'essere circondato da numerosi ramponi, che germogliano vigorosi attorno al tronco principale, non mancò di suscitare felici immagini; ed è così che i figli numerosi, attorno alla tavola del padre di famiglia, sono poeticamente paragonati ai germogli dell'ulivo che vegetano folti e rigogliosi attorno al tronco principale, i cui rami, perennemente ricoperti di verdi foglie, simboleggiano la continuità della vita e rendono l'idea del vigore sano e fecondo, associato ad un concetto di serenità e di pace.
 

PRODUZIONE E DIFFERENTI TIPOLOGIE DI OLIO

La parola "olio" nelle lingue occidentali può essere fatta risalire, attraverso la parola latina oleum e quella greca elaion, fino alla più antica parola semitica ulu; tutti questi termini stanno ad indicare l'olio di oliva.
Secondo i più illustri naturalisti romani, esistevano ben dieci varietà diverse di ulivi e l'olio prodotto veniva classificato in cinque categorie. Il più pregiato era l'oleum ex albis ulivis, ottenuto da olive verde chiaro, cui seguivano il viride, ottenuto da olive che stanno annerendosi, il maturum, frutto della spremitura di olive mature, il cadueum, ottenuto da olive raccolte da terra e il eibarium prodotto con olive bacate e destinate agli schiavi.
Con la parola "oleum" gli antichi Sabini indicarono inizialmente soltanto l'olio d'oliva, cioè l'olio per eccellenza, anche perché fu la prima sostanza oleosa da essi conosciuta ed usata. Indipendentemente dalle località più rinomate per la finezza dei loro oli, l'Italia produceva delle qualità molto diverse, a seconda dei diversi sistemi adottati per l'estrazione e lo stato di maturità delle olive portate al frantoio:

1)  l' "oleum acerbum", conosciuto anche sotto il nome di "oleum aestivum","oleum spanum" "oleum crudum", corrispondente all' "omphacion" o "omotribes" dei Greci, che si estraeva dalle olive acerbe, spremute senza riscaldarle.
2)  l' "oleum strictivum", destinato all'uso esterno, corrispondente all'olio verde dei Greci, che si otteneva dalle olive semiacerbe.
3)  l' "oleum cativum", denominato anche "oleum romanicum", ovvero "oleum comune", estratto dalle olive nere e corrispondente all' "oleum maturum" dei Greci.
4)  l' "oleum cibarium",che era la qualità più scadente e si otteneva dalle olive nere, ammaccate ed anche guaste, spremute dopo qualche tempo dal raccolto. Era questo l'olio che veniva distribuito agli schiavi e naturalmente usato anche dall'infima plebe.

I commercianti di olio ebbero senza dubbio a Roma una notevole importanza, sia perché qui affluivano i prodotti dell'Italia ed anche dell'estero, sia per l'enorme consumo, non soltanto per gli usi domestici, ma soprattutto nei bagni e nelle palestre; l'emporio commerciale dove si accentravano i prodotti oleari fu, a quanto sembra, il Velabro, ai piedi del monte Aventino.
I prezzi di vendita erano regolati da apposite norme, di cui ci fornisce una sicura prova il celebre Calmiere di Diocleziano, mentre in precedenza il commercio era stato libero; se dobbiamo tener conto di una testimonianza di Plauto, i mercanti di olio all'ingrosso, per imporre alti prezzi di vendita e per impedire la reciproca concorrenza, ai tempi della Repubblica, si erano stretti in lega.
Organizzarono razionalmente la distribuzione ed il commercio dell'olio e costituirono fin d'allora 1' «arca olearia», una sorta di borsa dell'olio di oliva, dove collegi di importatori, negotiatores olearii, trattavano prezzo e quantità. Nei grandi depositi l'olio era conservato entro colossali anfore di terracotta, rese impermeabili da una accurata verniciatura, come si rileva dai numerosi esemplari riportati alla luce dalle esplorazioni archeologiche.
Negli scavi di Pompei è stato ritrovato un intero magazzino, in cui ci sono otto enormi anfore capaci di contenere dieci ettolitri ciascuno e nei Musei Vaticani si può ammirare l'anfora romana di Celi che illustra una compravendita di olio di oliva. Per quanto concerneva poi la vendita al minuto, essa era fatta in appositi locali, tenuti con molta pulizia o anche con lusso per richiamare l'attenzione del pubblico; una di queste botteghe, scoperta a Pompei, in via dell'Odeon, ci mostra come era disposto l'ambiente, come era confortevole il banco di vendita, rivestito all'esterno di porfido e con la sua tavola di marmo per raccogliere le gocce di olio, affinché non fosse insudiciato il pavimento. In quella bottega, oltre all'olio, si vendevano le olive commestibili, contenute entro otto vasi di argilla. Ogni casa benestante aveva inoltre le sue provviste particolari: in una dispensa presso la cucina, sono state scoperte delle anfore di olio disposte sopra un banco; e, tra gli utensili di cucina di quell'epoca, sono state trovate l' "apulare" e la "trua", due specie di cucchiaie piatte e forate per friggere le uova e servire le olive, intere, nere o verdi che fossero.
 

PREPARAZIONE

Per ottenere olio di prima qualità (quello che noi oggi chiamiamo "extra — vergine") in Palestina, nei tempi antichi, si evitava la pressatura: le olive erano semplicemente depositate in una cesta da cui l'olio cadeva goccia a goccia in un recipiente, oppure la quantità raccolta era sistemata in un vano roccioso a forma di cupola da cui l'olio colava attraverso un foro praticato in basso (in questi due casi era lo stesso peso delle olive che le "spremeva"). Un altro sistema ancora era quello che prevedeva vari annaffiamenti con acqua calda su cui l'olio andava raccogliendosi in superficie; quest'olio, considerato di prima qualità, alimentava le lampade dei santuari, come è descritto nei libri biblici dell'"Esodo" e del "Levitico", serviva alla preparazione delle offerte e riempiva le bottigliette usate nelle unzioni come pure le giare nelle cantine dei potenti (gli orci pieni d'olio erano la vera ricchezza dei re).
Nonostante l'assoluta mancanza di tutte le nozioni scientifiche, messe oggi a profitto dall'industria olearia, e pur disponendo di mezzi meccanici assai semplici ed imperfetti, in confronto di quelli attualmente in uso, la lavorazione dell'olio raggiunse nell'antichità un notevole sviluppo, sia per quanto concerne la utilizzazione della sostanza fornita dalle olive, sia per il quantitativo della produzione, sia per quanto riguarda la preparazione delle diverse qualità di olio, dalle più fini e ricercate alle più dozzinali e scadenti. Queste diverse qualità di olio non dipendevano soltanto dalle diverse specie di olive adoperate, ma anche dal loro differente grado di maturità; e mentre l'olio verde "Oleum viride", che era il meno abbondante e più stimato, si estraeva dalle olive non del tutto mature, quello ordinario invece era dato dalle olive a maturità avanzata ed anche cadute spontaneamente dall'albero. Inoltre, gli antichi facevano pressare ripetutamente — fino a tre volte — la stessa massa di sansa "sampsa", e i diversi prodotti che se ne estraevano, e che venivano raccolti e conservati in recipienti diversi, rappresentavano tre diverse qualità tanto per finezza e gusto, quanto per prezzo.
 

VARI SISTEMI DI MOLITURA

Come si rileva dalle notizie forniteci dagli scrittori, confermate ed illustrate dagli antichi monumenti — sculture, pitture, mosaici — i Greci ed i Romani incominciarono assai per tempo a fare uso della "mola olearia" — molino ad olio — che, mentre in principio fu assai semplice e rudimentale, andò in seguito perfezionandosi grazie ai progressi della meccanica; il "trapetum" — frantoio o tappeto, come è detto in alcuni paesi — che, secondo la leggenda, fu inventato da Ariste°, non solo fu descritto minutamente in tutte le sue parti da Catone, ma è altresì tornato alla luce nel suo stato primitivo e con tutto il suo macchinario al completo nei diversi scavi archeologici di Stabia, di Pompei e dell'Africa romana. Da alcune antiche iscrizioni risulta che gli operai, addetti ai diversi lavori nei frantoi, erano organizzati in collegi o corporazioni, la qual cosa dimostra che gli oleifici dovevano essere numerosi e di tale importanza da richiedere il lavoro di numerose braccia, il che del resto si spiega facilmente se si tiene conto del largo uso fatto a quei tempi dell'olio, soprattutto nei paesi meridionali, dove rapidamente si diffuse la coltivazione dell'ulivo.
Le pitture sui vasi di terracotta dimostrano come le olive venissero prima saggiate per controllarne lo stato di maturazione e la qualità: questo avveniva spremendo il succo di alcuni frutti attraverso un imbuto in una piccola bottiglia e controllando il sapore e l'odore dell'olio così estratto. L'estrazione dell'olio era meglio effettuata dopo la raccolta; ciononostante le olive venivano talvolta immagazzinate sul pavimento del frantoio: come prima operazione, la polpa doveva essere separata dal nocciolo; dato che la buccia dell'oliva è abbastanza tenace, la separazione era effettuata mediante lo schiacciamento del frutto, che veniva in seguito pressato. L'operazione di schiacciamento era eseguita in maniera molto semplice, facendo rotolare una pietra cilindrica avanti e indietro sopra le olive poste in un contenitore; il mulino a rulli, conosciuto dai Romani come mola olearia, consisteva in due pietre cilindriche fissate allo stesso asse orizzontale che era imperniato verticalmente tra esse. Quando il perno centrale veniva fatto ruotare, i rulli giravano rapidamente a una distanza regolabile sopra il recipiente piatto, che conteneva le olive: la polpa era in tal modo separata senza schiacciare i noccioli.
Un modello perfezionato — secondo quanto ci tramanda lo storico Plinio — era stato inventato ad Atene ed era chiamato trapetum: tra le mole e il bacino intercorreva la distanza fissa di un pollice romano (cm 1,8). Nella regione greca di Olinto (in uno scavo i cui reperti risalgono al V secolo a. C.) furono trovate cinque mole, la cui forma e sistemazione chiarirono molti dei dubbi che si erano presentati alla mente degli archeologi; gli antichi, comunque, conobbero anche un sistema di pressatura che potremmo definire "a trave", di probabile origine egea. Nelle isole di questo mare, infatti, la coltivazione delle olive risale agli inizi dell'Età
del Bronzo, ma le testimonianze riguardanti l'attrezzatura per schiacciarle appartengono a epoche più recenti.
I resti più antichi conosciuti a tutt'oggi di una pressa da olive e di un bacino per schiacciarle furono trovati a Creta e si riferiscono al periodo Minoico Medio (1800 — 1500 circa a. C.); una pressa "a trave" per olive risalente circa al 1500 — 1400 a. C. fu trovata anche in una delle isole Cicladi. La costruzione di presse di questo tipo è chiaramente indicata su molti vasi dipinti, soprattutto quelli a figure nere eseguiti dai ceramisti ateniesi nel VI secolo a. C; la pressa "a trave" applica il principio della leva: una estremità è appoggiata al vano di un muro, o fra due pilastri di pietra; l'altra viene tirata giù e spesso caricata con pesanti pietre. Il frutto, sistemato in sacchi o fra tavole di legno, viene schiacciato sotto la parte centrale della trave; il liquido estratto è lasciato riposare in tini, affinché l'acqua possa essere eliminata attraverso cannelle sistemate in fondo ai tini stessi. La buona separazione dell'olio dal liquido acquoso era essenziale, in quanto quest'ultimo conteneva una sostanza amara (
4) che avrebbe potuto rovinare il buon sapore dell'olio; successivamente, si poteva effettuare una seconda e terza pressatura, ognuna di qualità inferiore alla precedente, dopo aver fatto inzuppare la polpa di acqua calda. Generalmente in tal modo si avevano tre qualità di olio: la prima, per cucinare, le altre per uso di cosmesi e preparati da toeletta.

4 - Oleuropeina
 

VENDITA E COMMERCIO DELL'OLIO

I ricchi romani ricavavano il loro olio dalle proprie terre, raccogliendone in casa grandi provviste, sia per sopperire al notevole consumo quotidiano, sia per averne in caso di cattivo raccolto; dalle Commedie di Plauto rileviamo che il traffico dell'olio non era esercitato soltanto dai veri commercianti, ma anche da coloro i quali, trovandosi indebitati e a corto di risorse, comperavano la merce a credito e la rivendevano in contanti per realizzare con tale espediente le somme di cui avevano bisogno.
Nelle circostanze, assai frequenti, delle distribuzioni gratuite, fatte dagli Imperatori romani al popolo, l'olio raggiungeva prezzi addirittura favolosi, come si verificò nel 773 a Roma, quando vi fu tale carenza che per una misura di olio si giunse a pagare ben seimila denari, mentre nei tempi normali i prezzi erano generalmente molto bassi.
Diocleziano, nell'Editto che calmierava i prezzi alimentari (alle soglie del IV secolo) fissava i prezzi precisi per le varie denominazioni di olio, che variavano dai 12 denari fino ai 40 denari al sestario (
5-6-7-8).

5 - Tenendo presente che un sestario, cioè 1/6 di congio, era pari a poco più di mezzo litro e che un denaro romano di quell'epoca aveva un valore paragonabile ad alcuni centesimi di curo, possiamo stimare che il prezzo di un litro d'olio romano, convertito nella nostra moneta corrente, doveva essere nell'ordine di 2 euro circa.
6 - Questa stima non ci sorprende più di tanto, anzi ci conferma il concetto, già espresso in precedenza, secondo il quale l'olio d'oliva ha conservato il suo valore, e quindi il suo prezzò, praticamente immutato nei secoli. La cosa sorprendente è l'attualità della legge romana in difesa del consumatore. Infatti, se oggi fosse in vigore l'Editto di Diocleziano, varato nel 301 d. C. (Edictum de pretiis venalium rerum), fatti salvi gli arrotondamenti e gli aggiornamenti del caso, avremmo una "disciplina commerciale" sui prezzi di consumo dell'olio d'oliva, con un minimo di 2 euro circa ed un massimo di io euro/litro. Il che sarebbe molto prossimo ad un'equa realtà, eliminando l'attuale arbitrio e confusione sui nomi e sui prezzi.
7 - A proposito del prezzo, se facciamo un ulteriore passo indietro nel tempo, di quasi 2000 anni prima di Diocleziano, possiamo affermare che, dai reperti archeologici dell'antica città di Mari in Mesopotamia (fra l'attuale Irak e la Siria) alcuni testi dimostrano che l'olio d'oliva veniva scambiato ad un prezzo che era cinque volte superiore a quello del vino e due volte e mezzo superiore a quello dell'olio di semi di quell'epoca, che era di sesamo o di lino. Per noi estimatori del vero olio d'oliva questo antichissimo rapporto dei valori dovrebbe essere ancora valido (come grosso modo lo è ancora nella piccola economia rurale), ma dobbiamo ammettere che il mercato moderno, per le produzioni di tipo industriale, stabilisce un rapporto molto diverso, a tutto svantaggio dell'olio d'oliva.
8 - Venendo ai giorni nostri (XXI secolo d. C.) ed osservando la grande varietà di prodotti, che attualmente sono messi sul mercato con le più svariate denominazioni, si potrebbe concludere che il moderno consumatore di olio d'oliva potrebbe sentirsi meno protetto di quanto non lo fosse un antico romano. In realtà, le norme sulla classificazione ci sono, ma è probabile che il consumatore medio non le abbia ancora recepite e non sia in grado di servirsene per difendersi dalle frodi.
9 - Corrispondente a 2 euro circa al litro.

Dal calmiere di Diocleziano, infatti, rileviamo che per l'olio di prima qualità, evidentemente l' "oleum acerbum", quello che si estraeva delle olive verdi e perciò in minore quantità, era fissato il prezzo di 40 denari al sestario (9), per quello di seconda qualità, ottenuto dalle olive semiacerbe, il prezzo massimo era di 24 denari al sestario,, per il terzo, prodotto dalle olive completamente mature, 12 denari al sestario.
Come ben si vede la differenza tra le diverse qualità era assai rilevante e tale differenza, come abbiamo accennato, si spiega facilmente, non tanto per il processo di lavorazione, quanto per la qualità delle olive impiegate e per il rendimento che se ne otteneva, oltre che per la finezza ed il gusto dell'olio ricavato, essendo il primo, a differenza del terzo, di sapore assai più delicato.
Il Calmiere di Diocleziano non contempla, a quanto pare, il prezzo della quarta qualità, quella cioè ottenuta dalle olive guaste e fermentate, dalle quali si estraeva, come abbiamo detto, l'olio consumato dagli schiavi, che evidentemente era venduto ad un prezzo molto basso e, perciò, forse non era commercialmente neppure considerato. Comunque sia, per la verità storica, dobbiamo ricordare che tale Calmiere, sebbene giudicato perfetto e completo in ogni sua parte, in quanto contemplava e disciplinava non soltanto i prezzi di tutti i prodotti, ma anche di qualsiasi prestazione di opera, sia manuale che intellettuale, nella sua applicazione pratica si rivelò insufficiente e irrealizzabile; e perciò finì ben presto per essere abolito, anche perché la vastità dell'Impero e le diverse condizioni locali non potevano essere governate da una norma generale.
Non per questo però il commercio dell'olio andò esente da vincoli e da restrizioni, perché malgrado il primo esperimento generale, tentato da Diocleziano, di disciplinare i prezzi, riuscisse insufficiente, per non dire inutile, pure molti dopo di lui vollero ripeterne la prova; gli innumerevoli calmieri, emanati dal Governo pontificio, per quanto tutelati da molte e severe sanzioni, finirono tutti per naufragare contro gli insuperabili scogli della realtà, né raggiunsero altro scopo all'infuori di quello di ostacolare il libero movimento commerciale.
 

COMMERCIO E MARKETING

Nonostante l'ulivo vegetasse facilmente in tutti i paesi bagnati dal Mediterraneo, tuttavia la coltivazione di esso variò notevolmente da un luogo all'altro per le circostanze più o meno favorevoli a tale coltura, come pure variarono i diversi sistemi, più o meno perfezionati, per la produzione dell'olio. Da ciò trasse origine il commercio o meglio la necessità dei primi scambi, che si intensificarono e divennero sempre più attivi e più estesi man mano che il consumo dell'olio andò assumendo più vaste proporzioni per i molteplici usi cui venne adibito. Non soltanto la quantità, ma anche la qualità dei prodotti influì a dar vita ed incremento al commercio: dall'Africa veniva esportato l'olio di uso comune per il consumo dei poveri, l'Italia e l'Attica producevano ed esportavano oli molto rinomati per la loro finezza e limpidezza (i popoli orientali si specializzarono nella fabbricazione e nella vendita degli oli aromatici e dei profumi).
I vasi, le bottiglie e le minuscole anfore di alabastro, che contenevano le preziose essenze, stemperate nell'olio e spesso destinate a viaggiare per lungo tempo ed in paesi assai lontani, uscivano dai laboratori della Fenicia, dove il commercio dei profumi era già assai sviluppato fin dai tempi omerici, e dove continuò a rimanere e a conservare la sua rinomanza anche ai tempi dell'impero romano. In Grecia i mercanti che esercitavano il traffico dell'olio trasportavano la loro merce dai luoghi di produzione a quelli di vendita entro grandi anfore di terracotta, stampigliate e spesso decorate di disegni o pitture; il considerevole numero di questi vasi greci, rinvenuti per ogni dove, anche nei paesi più lontani, è prova molto evidente della grande estensione del commercio oleario del mondo ellenico. Le marche di fabbrica, impresse su questi recipienti, ci fanno conoscere la provenienza esatta del loro contenuto: mentre Corinto esportava soprattutto piccoli vasi di profumi, o meglio unguenti ed oli profumati, gli abitanti di Calcide e di Atene spedivano oltre mare le grandi anfore piene d'olio o di vino, essendo questi i prodotti che costituivano le principali ricchezze naturali di quei luoghi; come del pari sulle anse di altre anfore si leggono i nomi di Rodi, Cnido e Tapso.
Anche le decorazioni pittoriche, di cui erano ornate le anfore, contribuiscono in qualche modo a farci conoscere curiosi particolari relativi alla storia del commercio oleario: un'anfora rinvenuta a Ceri in Etruria, ed oggi esistente nel Museo Vaticano, ci presenta in due quadri la scena caratteristica di un contratto d'olio (le iscrizioni, segnate presso i due contraenti, ci dicono le riflessioni di essi). Da un lato si vedono due uomini, seduti di fronte a destra e a sinistra di un ulivo, ed innanzi a ciascuno un'anfora posata a terra: l'uno versa olio in una ampolla, l'altro ha un bastone nella mano destra e stende la sinistra verso un cane che gli sta di fronte e lo guarda, tra le due persone si leggono le parole: "O Giove, possa io arricchirmi".
Sull'altro lato si vede un uomo seduto che con la destra indica un' anfora e con le dita della sinistra vicine al viso è in atto di contare; di fronte a lui sta un altro uomo in piedi, appoggiato ad un bastone, con una mano distesa e con il solito cane vicino. Tra i due individui corre la scritta: "Il vaso è pieno e trabocca". All'infuori dell'Attica, i migliori oli del mondo ellenico erano quelli di Sicione nel Peloponneso, di Tiborea nella Focide, dell'Eubea, di Cipro e di Cirene ed in quanto ai prezzi di vendita, già riportati, sappiamo che lo stato percepiva un discreto diritto di dazio; questi prezzi però variavano considerevolmente da un paese all'altro, anche in relazione al tempo.
In quanto ai paesi occidentali il primato fu incontestabilmente tenuto dall'Italia,
dove l'olio più stimato e che godeva la preferenza su tutti gli altri era l' "oleum Licinianum" del territorio di Venafro, in secondo luogo veniva l'olio dell'Istria e quello della Spagna. Verso la fine della Repubblica, in seguito alla trasformazione dei terreni ed alle numerose piantagioni di uliveti, la produzione dell'olio in Italia fu talmente abbondante che non solo se ne poté fornire a tutte le province, ma con soli pochi centesimi si poteva averne anche una dozzina di libbre. Per quanto concerne il commercio al minuto, negli scavi di Pompei, come abbiamo già detto, è tornata alla luce nella "Strada Stabiana", la bottega di un commerciante d'olio dove, sul bancone di argilla, con la faccia rivolta sulla via e ricoperto da una lastra di cipollino, erano interrati otto vasi di terracotta che, al momento della scoperta, contenevano ancora qualche residuo d'olio e d'olive; una "taverna" — bottega — analoga si vede raffigurata su un bassorilievo del Museo Vaticano. Una delle pitture murali della celebre casa dei Vetti ci presenta la scena di un torchio da olio, manovrato da alcuni Amorini, mentre altri sono intenti a pesare e a vendere l'olio.
A cominciare dal secondo secolo dell'impero, cessa l'esportazione dell'olio dall'Italia e ne incomincia l'importazione e ciò a causa del continuo accentuarsi dell'abbandono dei campi, il cui lavoro, affidato unicamente agli schiavi, finì per essere del tutto trascurato, determinando così la disastrosa mancanza dei cereali, dell'olio e degli altri prodotti agricoli in genere. Poiché, in particolar modo in quell'epoca, Roma sentì il bisogno di una maggiore quantità di olio per fronteggiare le distribuzioni gratuite, fatte dagli imperatori e che si moltiplicavano senza misura, fu necessario rivolgersi alle province ed in particolare modo alla Spagna e all'Africa, come si rileva dai nomi dei paesi di provenienza delle anfore, i cui frammenti, raccolti sul monte Testaccio (
10) in Roma, portano i nomi di Leptis in Tripolitania, di Tupusuchu in Mauritania, di Sagunto, di Cordova ecc. e se molte anfore non sono contrassegnate con nomi spagnoli, tuttavia la loro conformazione e la loro struttura ne attestano egualmente la provenienza. Del florido commercio dell'olio nell'antichità ci sono state tramandate notizie dagli scrittori greci e latini: ma, in tempi ancora più remoti, esso era già esercitato nei paesi orientali, perché il famoso codice babilonese di Hammurabi, il più antico che si conosca e che risale al 2300 avanti Cristo, all'articolo 104 parla di tale commercio e detta le norme per regolare i rapporti tra negoziante e commissionario per il collocamento dei prodotti.

10 - Testaccio si trovava in prossimità del porto fluviale del Tevere, dove venivano scaricate e svuotate le anfore che trasportavano liquidi (vini, oli, ecc.); quelle che si rompevano durante lo scarico venivano lasciate come rifiuti: nel corso degli anni se ne accumularono tanti da costituire un monte che recava il nome di Testaccio.

Un' altra circostanza particolare, che merita di essere qui ricordata, ce la fornisce il filosofo Platone, il quale, mentre si manifestò apertamente ostile ad ogni attività commerciale, dichiarando che "la professione del commerciante non è né onesta né onorata, poiché quelli che vi si dedicano non conoscono alcun limite nella ricerca del guadagno", d'altra parte, egli, approfittando dello speciale permesso accordato da Solone per il commercio dell'olio tra la Grecia e gli altri paesi, allorché fece un viaggio in Egitto, colse la propizia occasione per portare con sé un carico di olio per venderlo a vantaggiose condizioni, sapendo che tale prodotto era ivi molto ricercato.
Oltre ad essere oggetto di scambi commerciali, l'olio, per la sua importanza e per il suo pregio, fu anche oggetto di transazioni fiscali, sia sotto forma di decime e tributi normali, sia sotto forma di contribuzioni straordinarie, imposte dai vincitori in guerra.
 

IL TRASPORTO

Peri! trasporto dell'olio si costruivano le «marciliane» apposite navi a fondo piatto, larghe otto metri e lunghe diciotto, capaci di trasportare fino a 5.000 botti di olio di oliva.
Ai tempi dei Romani la maggior parte delle navi che solcavano i mari erano navi olearie, cariche di anfore ripiene del prezioso liquido fino all'inverosimile: quel carico eccessivo fu causa, talvolta, di naufragi col mare grosso. Il carico era spesso misto; si trasportavano anche blocchi di marmo o di granito o plinti di colonne, ma nella stiva c'erano quasi sempre, ben allineate (e così sono state ritrovate), centinaia di anfore piene di olio d'oliva. I reperti di Giannutri, Miseno, Taormina, Marzameni, Isola delle Correnti, Pantano Longarini, Gallipoli e altri parlano molto chiaro: d'altronde, la produzione dell'olio d'oliva nell'antichità era molto diffusa e Plutarco, nel lodare Cesare, segnalò che egli aveva procurato tante terre a Roma da ricavarvi 3 milioni di litri d'olio all'anno.
 

UTILIZZO DELL'OLIO E DEL LEGNO D'ULIVO

Per chi abitava in Palestina, l'ulivo era veramente una fonte di ricchezza, perché non soltanto si consumavano i suoi frutti, ma anche il suo olio eccellente. Ancora oggi l'olio d'oliva è abbondantemente usato nella cucina del Vicino Oriente — dove rimpiazza il grasso e il burro -, ma è anche largamente impiegato nell'igiene personale e nella preparazione di prodotti di bellezza. L'olio era d'uso normale in medicina, nelle "unzioni" dei sovrani e dei potenti (ricordiamo che la parola ehristos, usata come appellativo di Gesù, non significa altro che "unto"); ogni sacrificio alimentare doveva essere accompagnato da una libagione d'olio, cioè il liquido veniva fatto colare sulla pietra del santuario.
Il legno d'ulivo, giallastro venato di bruno, era resistente, suscettibile di una buona politura e quindi molto ricercato; le statue dei cherubini nel Tempio di Salomone a Gerusalemme erano di ulivo selvatico che servì anche alla costruzione delle porte dell'edificio (così si afferma nel libro dei "Re"). L'ulivo era coltivato nel territorio palestinese sia in pianura sia in montagna; chi se ne occupava sapeva che le piantagioni non necessitavano di grandi cure, se non per difenderle dagli infestanti. Nel "Talmud" (la raccolta delle discussioni degli antichi rabbini) sta scritto che è più facile far crescere un uliveto che allevare un figlio di Israele.
Né mancano esempi dell'olio adibito ad usi industriali nella fabbricazione di certi tessuti di lino per renderli più morbidi e per garantirne la conservazione, come pure è noto che i tintori e fulloni greci rinfrescavano con l'olio a Susa nel 331 a. C. stoffe di porpora, tessute da oltre centonovanta anni e che tuttavia avevano l'aspetto di nuovissime, come se fossero state lavorate allora, perché erano state da poco immerse in una miscela di miele e d'olio.
 

L'OLIO NELL'ALIMENTAZIONE. GENERALITÀ

I pastori latini si nutrivano con il puls, una polentina a base di orzo, farro, verdure cotte, cipolle, aglio, il tutto frullato nell'olio di oliva. Il rancio dei soldati romani, il moretum, era una piccantissima insalata composta da erba ruta, sedano, formaggi di capra, aglio, cipolla, ed olio di oliva.
I legionari romani venivano inoltre retribuiti giornalmente con il sale, i cereali, una testa d'aglio, cipolle e molte olive. Orzo, pesce, cipolle, fichi e olive era il compenso dei lavoratori egiziani alle piramidi. Ed anche, agli inizi del 1800, un contadino pugliese riceveva come vitto, quotidianamente, un rotolo ed un terzo di pane che mangiava con acqua, sale ed olio.
Oltre a ciò l'olio d'oliva, come sostanza alimentare, fu con l'aceto, col sale e col pepe uno dei condimenti di maggior consumo: già nell'epoca classica era adoperato per cucinare il frumento, il miglio, i legumi, il pesce e la carne non soltanto nelle case private, ma anche negli alberghi e nelle cucine pubbliche.
 

L'OLIO NELLA CUCINA GRECA

Quale e quanta fosse la venerazione degli antichi Greci per l'olivo è facile rilevarlo dal fatto che la coltivazione di esso era affidata unicamente alle vergini e agli uomini puri; in alcuni distretti dell'Attica si esigeva anche un giuramento di castità da parte di coloro i quali si occupavano della raccolta delle olive. L'ulivo non fu per i Greci un semplice albero ornamentale, essi, infatti, non tardarono a trarne notevoli vantaggi nel campo della vita pratica e dell'economia domestica, principalmente per quanto riguarda l'alimentazione: al pari della farina e del vino, l'olio, infatti, si annoverava, fin dai tempi più remoti, tra i generi indispensabili alla vita; sul reale valore pratico ed i pregi di questi elementi o meglio alimenti, sono pienamente concordi tutti gli scrittori dell'antichità.
L'olio d'oliva fu il condimento più largamente usato dagli antichi Greci; una delle salse più comuni, adoperate in Atene, per condire il pesce lesso, si componeva di olio di oliva, di rosso d'uovo, di porri, di aglio e di formaggio: forse una specie dell'attuale maionese, con l'aggiunta degli altri ingredienti per renderla più piccante e più gradita ai loro gusti, che furono, senza dubbio, assai diversi dai nostri.
Tra i vari cibi, raccomandati dai medici ai malati, ai convalescenti ed ai deboli di stomaco, troviamo: una specie di focaccia molto sottile, impastata di farina e miele, cotta su un ferro caldo e mangiata con olio, lenticchie lessate e condite con sale e con olio, alcune verdure lessate e condite parimenti con olio. I lassativi blandi erano preparati con una specie di purè molto liquido, fatto di farina di fave con formaggio e con olio d'oliva; questo veniva anche adoperato per tutte le varie fritture, perché la cucina greca, in quanto a fritture, non fece uso di altre sostanze all'infuori dell'olio.
A questo proposito va ricordato che gli antichi medici non disdegnavano di occuparsi anche di gastronomia; e se non esercitarono direttamente e personalmente in cucina il mestiere del cuoco, raccolsero nelle loro opere e nei loro trattati di medicina le più accreditate norme culinarie allora in uso. Infatti il celebre Oribasio, che tra i suoi innumerevoli clienti ebbe non soltanto i più illustri personaggi del suo tempo, ma anche gli stessi imperatori, ci ha tramandato con le varie ricette di medicina, anche le opportune istruzioni per preparare e cucinare delle squisite fritture, come è dimostrato in alcuni passi delle sue opere.
 

L'OLIO NELLA CUCINA ROMANA

Il primo uso che gli antichi Romani fecero dell'olio fu senza dubbio per la cucina; al pari degli altri popoli dell'antichità e già da allora, uno dei condimenti più comuni per le diverse verdure commestibili fu rappresentato dall'olio associato con l'aceto. I due liquidi erano tenuti in due apposite ampolline, non molto diverse dalle attuali, come si rileva dagli esemplari pervenuti fino a noi, con la semplice differenza che tali ampolline non erano staccate e indipendenti l'una dall'altra, ma formavano un corpo unico, per cui il versamento del contenuto di esse doveva avvenire contemporaneamente ed in parti uguali, a meno che gli orifizi dei due recipienti fossero di diverse dimensioni, oppure che, all'atto del versamento, venissero chiusi alternativamente. Di questa specie di condimento si trova più volte menzione negli scritti di molti antichi autori, tra cui il poeta Orazio, che, da vero buongustaio, poneva la massima diligenza affinché l'olio della sua cucina fosse di ottima qualità, sia per l'insalata, sia per le fritture, né mancò di dare anche delle ricette in materia gastronomica.
L'olio, ottenuto per spremitura, fu uno degli alimenti principali, e pian piano entrò a far parte della cucina romana, come ripetutamente confermano le ricette lasciateci da Apicio nel suo "De re coquinaria" — l'autore antico raccomanda l'olio liburnico (della Dalmazia), descrive metodi per conservare verdi le olive o come mescolare salsa di pesce, ruta e olio. L'olio era usato nella cottura di molte vivande e come condimento delle pappe di farro e di miglio insieme al sale (ci viene in mente il "filo d'olio" che i Toscani versano nelle minestre di fagioli e di verdura). Tuttavia, l'olio, come il vino, del resto, rimase pur sempre un alimento raro e raffinato che non tutti potevano permettersi.
Gli scrittori di epoca imperiale romana (ed anche quelli più tardi) ci riferiscono che, nelle regioni settentrionali d'Italia (la cosiddetta Gallia Cisalpina, cioè l'attuale pianura Padana), l'olio d'oliva era consumato soltanto dai ricchi. La gente dei campi, i lavoratori e gli artigiani della città consumavano olio di semi di ravizzone, olio di colza e olio di lentischio, insieme al grasso di bue e al lardo di maiale. Il burro — come già detto — era tenuto in scarsissima considerazione, ma nonostante ciò veniva prodotto dai campagnoli in sempre maggiori quantità, sebbene il suo prezzo risultasse troppo alto per la gente comune — e per questo non raggiunse la loro tavola se non molto più tardi.
Un uso curioso che si fece dell'olio d'oliva fu il suo impiego per la preparazione del sapone (
11).

11 - La parola antica sapo fu usata da Plinio per descrivere una pomata inventata dai Galli: in un primo tempo essa veniva preparata con grassi animali, ma presentava un odore molto sgradevole; si ovviò a questo inconveniente con la scoperta che si poteva usare l'olio d'oliva. Da quel momento gran parte del commercio del sapone passò alla Spagna e ai territori del Mediterraneo occidentale.
12 -Gli oli medicati saranno oggetto di una prossima pubblicazione.

L'OLIO IN MEDICINA

L'olio d'oliva, adoperato come farmaco, sia da solo, sia combinato con altri ingredienti, ebbe nell'antica medicina un consumo assai più vasto di quanto oggi si possa immaginare, non solo per la complessa farmacopea fin d'allora in uso, ma anche per la mancanza di oli e di lubrificanti minerali, di cui oggi disponiamo. Esso fu usato largamente dagli antichi come medicina, sia al suo stato naturale, sia associato con altre sostanze (oli medicati (12)), sia come parte integrale di più o meno complesse composizioni.
L'olio d'oliva era inoltre ritenuto come un eccellente controveleno e, assunto con l'acqua addolcita con miele, o mediante un decotto di fichi secchi, neutralizzava ogni sorta di veleno, come pure preso assoluto, e poi vomitato, annientava gli effetti nocivi di varie sostanze velenose.
Un'idea più completa del largo uso dell'olio nella antica farmacopea ce la fornisce il vasto e complesso laboratorio farmaceutico, istituito in Roma dal celebre medico Ila che, per soddisfare le molteplici richieste della sua numerosa clientela, aveva raccolto nei suoi magazzini un ricchissimo assortimento di erbe e droghe medicinali d'ogni genere, capaci di soddisfare alle esigenze dei casi più disparati e disperati. Il vasto Stabilimento Farmacologico di Ila, non soltanto poteva contenere tutto il complesso armamentario di medicinali occorrenti, ma anche accogliere tutti i malati e le donnicciole che, ogni mattina, vi affluivano per consultare l'autorevole discepolo di Esculapio e per confabulare delle notizie del giorno e della politica, nonché per sparlare del prossimo (una vera farmacia, adibita alla vendita dei medicinali ed a luogo di convegno degli sfaccendati). L'edificio si componeva di due ambienti principali: il laboratorio ed il magazzino, il quale, per l'enorme quantità e per le innumerevoli qualità di olio che vi si trovavano accumulate nelle anfore di colossali dimensioni, addossate alle pareti, si presentava come una vasta cella olearia. In un cortile, uno stagno artificiale conteneva ranocchi, tartarughe e lumache; una grande gabbia racchiudeva topi d'Africa e sorci grigi, i quali saltellavano senza tregua; entro un boccale sonnecchiavano un groviglio di vipere; e due volpi, imprigionate entro una botte, chiusa sul davanti da una inferriata, seguivano instancabilmente con gli occhi i movimenti dei passi di tutte le persone che andavano e venivano.
I vasi esposti nel magazzino erano allineati, con un certo ordine, su apposite assi e divisi a seconda del loro contenuto e cioè: ceneri ottenute dalla cremazione di rettili di varie specie, ceneri di teste di cani morti di idrofobia, di escrementi di cane, di teste di pesci, di lombrichi, di donnole bruciate vive ecc. Seguiva a fianco lo scompartimento degli escrementi sia disseccati, sia conservati nell'olio d'oliva: escrementi di polli, di piccioni, di vitelli, di porci, di cani, di asini ecc. e dopo di essi un ricchissimo assortimento di prodotti minerali e vegetali. Tutte le mattine i numerosi fornitori abituali portavano dalla campagna latte di donna, di pecora e di capra, urine fresche di varie qualità e piante necessarie per le molteplici ricette della giornata, che venivano preparate nell'apposito laboratorio dal numeroso personale ivi adibito.
Tutti i prodotti elaborati nello Stabilimento Farmacologico di ha erano a base di olio, che non soltanto entrava a far parte nella composizione dei cataplasmi, delle unzioni, dei rimedi propinati per bocca, ma veniva anche adoperato in quantità rilevanti per la preparazione dei bagni.
Senza passare in rassegna tutto il suo ricchissimo e complicato ricettario, possiamo in una parola dire che la intera farmacopea di Ila era a base di olio, sia associato con foglie e fiori vegetali, sia con i più svariati prodotti animali, sia terresti che acquatici, oppure combinato con le feci stesse, ridotte in cenere o allo stato naturale e diligentemente custodite sotto olio entro appositi vasi. Desta ripugnanza pensare che queste sostanze venissero adoperate per la preparazione di cataplasmi, di unguenti e cose simili: ma l'incredibile è che gli antichi, sebbene di gusto tanto raffinato in fatto di gastronomia, non esitassero ad ingoiarle tranquillamente.
Democrito di Abdera, il quale visse in ottima salute più che centenario, soleva ripetere che per stare bene e arrivare alla sua età bisognava nutrirsi di miele ed ungersi di olio; Pollione, alla domanda rivoltagli da Augusto con quale mezzo si potesse vivere a lungo in salute e raggiungere una invidiabile vecchiaia, diede una risposta analoga con le parole: "intus mulso, foris oleo" cioè facendo uso internamente di vino condito con miele (mulsum) ed esternamente di olio. Il grande naturalista Plinio fu dello stesso parere, perché, a suo giudizio, la vigna e l'ulivo forniscono all'uomo i due liquori più deliziosi: l'uno per uso interno, l'altro per l'esterno; anzi l'olio è ancor più necessario del vino, perché di esso non è possibile fare a meno.
 

LE VIRTÙ TERAPEUTICHE DELL'OLIO E DELLA PIANTA DELL'ULIVO

L'olivo coltivato, non meno di quello selvatico, ha le sue notevoli virtù curative, perché, secondo lo stesso Plinio, le foglie sono astringenti e purgative al massimo grado; masticate ed applicate sulle ulcere, le raddolciscono: mescolate con olio, calmano i dolori di testa; il decotto di tali foglie, mescolato con miele, è eccellente per curare le parti cauterizzate e le infiammazioni delle gengive, o anche per arrestare le emorragie; mentre il succo è usato a scopo terapeutico per le ulcere, per le pustole rosse degli occhi e per la lacrimazione cronica.
I fiori — sosteneva lo stesso Plinio — posseggono virtù non meno efficaci delle foglie e la cenere, ottenuta dalla combustione dei giovani rami ed aspersa di vino, si applica con molto giovamento sugli ascessi e sui tumori; mescolata con farina di polenta è un buon cataplasma per gli occhi.
Oggi si denominano i vari cultivar dell'ulivo con nomi diversi e Plinio, da parte sua, tratta l'argomento dopo aver parlato a lungo del vino, perché riconosce all'ulivo un'importanza seconda soltanto a quella del quasi miracoloso succo dell'uva. Fin dal principio afferma che le foglie dell'ulivo sono cicatrizzanti, depurative e astringenti; che in decotto, con aggiunta di miele, curano le parti cauterizzate dai medici; che con le ceneri ottenute da fiori e foglie si suppurano le piaghe; che l'olio è efficace come collutorio e contro il mal di denti; che con la scorza abrasa dalla radice di un albero d'ulivo giovane si curano l'emottisi e le espettorazioni. Plinio si dilunga molto sui benefici che sia le olive, sia l'olio da esse estratto, procurano.
Afferma che le olive verdi giovano allo stomaco (con mare grosso è opportuno mangiare olive e acciughe per vincere la nausea - questo lo sappiamo anche noi, oggi-); che l'olio d'oliva, mescolato con vino, cura non solo le affezioni della bocca, ma anche quelle delle orecchie. In un passo successivo l'antico naturalista dice che l'olio deve essere giovane, fine, odoroso ma non aspro: l'olio molto giovane manterrebbe addirittura bianchi i denti. Se riscaldato e con una manciata di ruta in aggiunta, calma le coliche e distrugge i dannosi parassiti intestinali. Un'ultima considerazione, tratta sempre da Plinio, potrebbe riscaldare il cuore di chi è oppresso e stressato per la caduta dei capelli: uno shampoo con germogli giovani, cotti e trattati con miele, arresterebbe la caduta dei capelli e rinforzerebbe i superstiti.
A prescindere dalle esagerazioni nelle quali incorsero gli antichi medici, è innegabile che il tannino abbonda in tutte le parti dell'ulivo e ciò basta per assicurargli un posto nel campo della medicina moderna rigorosamente scientifica. Né ciò è tutto perché, come dimostrò nel XIX secolo il dottor De Luca, professore di Chimica presso l'Università di Napoli, le foglie ed i fiori dell'ulivo contengono in abbondanza la mannite, che si estrae per mezzo dell'alcool dai fiori prima della fecondazione, perché dopo scompare, mentre cresce nelle foglie fino al momento del loro perfetto sviluppo per poi diminuire.
Le proprietà febbrifughe delle foglie di ulivo avevano richiamato già da lungo tempo l'attenzione degli empirici; ed i medici spagnoli di provincia, nelle le febbri intermittenti, che erano endemiche, le impiegavano in polvere, somministrandole quotidianamente in varie dosi, a seconda delle circostanze.
Parimenti il dott. Faucher propose come febbrifugo l'estratto idro — alcolico di foglie d'ulivo; il dott. Hoste compose con foglie di ulivo selvatico un estratto idro — acido — "oleasterium" — che egli preconizzò come succedaneo del solfato di chinina; in Provenza spesso si faceva uso di gargarismi astringenti, preparati essi pure con foglie di ulivo.
Le foglie e la corteccia dell' ulivo, in estratto idroalcolico, in cui si trova il glucoside oleuropeina, erano usate, con azione molto dubbia, come febbrifughe. La W Edizione della Farmacopea Italiana, riporta il linimento oleo-calcareo (acqua di calce e olio di oliva in parti uguali) usato per la frizione nelle parti dolenti per lenire il dolore.
 

I VARI CULTIVAR DELL'ULIVO

Gaio Plinio Secondo nella sua "Naturalis Historia" affermava che esistono quindici specie di ulivo, e ne elencava pregi e difetti, mentre altri scrittori antichi parlavano genericamente di olea calabrica, cioè di quella pianta che cresceva in Calabria, e di callistephanos, con tutta probabilità per indicare quella pianta che produceva le grosse olive di provenienza greca, così popolari a Roma.
 

L'OLIO PER L'IGIENE DEL CORPO (UNZIONE)

Nelle preparazioni cosmetiche troviamo con grande frequenza l'impiego di olio di oliva. Gli oli al basilico, al garofano, irto e salvia erano usati come deodoranti. Un portentoso unguento, utilizzato per la nutrizione della pelle e principalmente come antirughe, era a base di olio, vino bianco e rossi d'uovo e l'olio emulsionato al rosmarino, in estratto acquoso, fungeva da antiforfora e contro la caduta dei capelli.
Per comprendere l'enorme consumo di olio fatto dagli antichi, occorre tener conto che non solo essi lo usarono come condimento e come medicinale, che se ne servirono a profusione per le unzioni e per i massaggi nelle palestre, nei bagni, sui campi di battaglia o nei viaggi, ma che tali unzioni furono un'abitudine, anzi una vera necessità quotidiana, alla quale nessuno avrebbe potuto rinunziare, la cui privazione equivaleva presso a poco alla mancanza del pane.
Le unzioni non potevano praticarsi ad arbitrio di ognuno, ma dovevano essere disciplinate da apposite regole, a seconda del sesso, dell'età e del temperamento delle varie persone. Così alle donne venivano prescritte le frizioni moderate, fatte dall'alto in basso; ed anche quelle preparatorie per le loro esercitazioni ginniche dovevano essere praticate con moderazione; in quanto poi alle donne incinte, durante il primo periodo di gravidanza, era prescritto di sostituire ai bagni le unzioni ed i leggeri massaggi. Il bambino appena nato veniva sottoposto ad un'unzione oleosa condita con sale ed il giorno successivo era unto di olio dolce, con delicate frizioni sulle diverse parti del corpo; in seguito tali frizioni erano fatte allorché si destava. Quando più tardi il fanciullo incominciava a correre e a trastullarsi, doveva, prima di ricevere il vitto, essere sottoposto al massaggio oleoso e successivamente al bagno; tale pratica durava fino al quattordicesimo anno.
Unzioni ristoratrici furono designate dagli antichi medici con il nome di "Apoterapia", che, come sistema di cura, non solo preventiva, dissipava la stanchezza e, come allora si diceva, smaltiva gli umori superflui che, dopo esservi riscaldati e alterati, rimanevano ancora nell'organismo. Allorché un viaggiatore, dopo lungo cammino, arrivava ad un albergo, il primo dovere di ospitalità dell'albergatore era di fargli una unzione di olio per ristorarlo dalla stanchezza del viaggio.
Ulisse e Diomede, secondo la narrazione omerica (Iliade X), di ritorno dal campo dei Troiani, dove erano penetrati di nascosto a scopo di spionaggio, per rendersi conto delle forze dei nemici e dei loro segreti di difesa, abbattuti per l'emozione dei pericoli corsi e sfiniti per la stanchezza, prima ancora di ristorarsi col cibo, pensarono a lavarsi ed ungersi di olio e poi si posero a mensa; ciò dimostra che già fin d'allora le unzioni ed i massaggi con olio erano ben conosciuti per fortificare e rinfrancare le stanche membra.
 

CURA DEL CORPO CON L'OLIO

Si è già detto che nell'antichità era buona norma, dopo un bagno ristoratore o prima di una gara atletica, farsi massaggiare con olio misto ad altre sostanze "essenziali"; questo per rinvigorire e, nello stesso tempo, per rilassare i muscoli. Anche oggi, seppure in poche località e consigliato da pochi medici, viene praticato quello che può ben chiamarsi il "metodo aromaterapico" per la salute e la bellezza del corpo. Sono necessarie, tuttavia, alcune pratiche complementari: i) il massaggio con oli essenziali (essenza delle foglie e dei frutti dell'ulivo, mescolata, di volta in volta, e secondo i pareri del medico, con estratto di bergamotto, basilico, camomilla, canfora, eucalipto, ginepro, lavanda, melissa, menta piperita, rosa, rosmarino, sandalo e altro); 2) bagni, inalazioni e vapori; 3) uso delle erbe in cucina e negli infusi o nel tè. In questo tipo di massaggio l'olio viene applicato sulla pelle e fatto penetrare nel corpo usando le tecniche neuromuscolari, che si accentrano sul sistema nervoso e sugli invisibili canali di energia, chiamati "meridiani" dai medici e i guaritori orientali. Quando la pelle risponde a questo tipo di massaggio, le terminazioni nervose comunicano con gli organi interni, le ghiandole, i nervi e il sistema circolatorio che è connesso con parti vitali del cervello, con quelle destinate a controllare il battito cardiaco, la pressione del sangue, la respirazione, il comportamento riproduttivo e la reazione agli stress. Gli oli puri — perfino con l'aggiunta di sola acqua — stimolano la pelle, rilassano e forniscono energia; gli amanti dei rimedi naturali considerano, infatti, l'olio extravergine d'oliva non soltanto come un alimento. Le insalatiere di legno, ad esempio, vanno lavate in acqua tiepida senza detersivo e quindi unte leggermente di olio: perfino pedule e scarponi possono essere ammorbiditi e impermeabilizzati con un batuffolo di cotone intriso d'olio; le padelle di ferro, in cui si cuoce il cibo, andrebbero sempre unte d'olio prima di riporle. Ma si può aggiungere olio all'acqua calda per un bagno rilassante (semmai mescolandovi estratto di lavanda o camomilla): chi ha le unghie fragili può rafforzarle tenendo la punta delle dita immerse in olio tiepido. Massaggi di olio d'oliva leniscono anche i dolori artritici.
 

LAMPADE AD OLIO

A parte per l'alimentazione, per la medicina e per la cosmesi, oltre che per la liturgia, sappiamo che l'olio d'oliva era largamente usato per l'illuminazione e le chiese cristiane ne sono state grandi consumatrici. Durante il Medioevo, ogni residenza importante, come ogni comunità religiosa, disponeva di propri uliveti con lo scopo primario di assicurarsi non solo un componente essenziale della dieta, ma l'elemento base per i propri sistemi d'illuminazione.
Quanto all'uso per illuminazione, possiamo ricordare che la prima e più solenne descrizione di una lampada ad olio è riportata nell'Esodo, secondo libro del Pentateuco, quando Dio incaricò Mosè di fabbricare un candelabro a sette bracci d'oro (il sacro Menorah degli Ebrei), e di utilizzare l'olio d'oliva più puro per accenderlo. Da questo episodio, che si colloca nel periodo storico stimato nella seconda metà del secondo millennio a. C., fino al secolo scorso, le lampade ad olio hanno assunto le forme e gli stili più diversi che tutti conosciamo, da quelle povere in terracotta a quelle sontuose in bronzo.
Mentre la "lux perpetua" funziona quasi automaticamente, purché si paghi alla scadenza la relativa quota di consumo, senza neppure il bisogno di visitare la tomba sulla quale arde, la lucerna ad olio, per essere perennemente alimentata, ha bisogno dell'assistenza quotidiana; e questo, è superfluo rilevarlo, richiede un'assiduità di pensiero di cui nell'altro caso non vi è affatto bisogno. In altri termini, di fronte al culto dei morti, se la "lux perpetua" risponde ai diversi requisiti formali di eleganza, di economia di tempo e di modernità, il modesto lumicino ad olio, per quanto fumoso e untuoso, ha il requisito sostanziale di un più elevato sentimento, e questo potrebbe fargli perdonare il suo sistema troppo antiquato e anche il fumo e l'odore non sempre gradevole. La storia ultra millenaria della semplice, ma pur meravigliosa invenzione della lampada ad olio, potrebbe fornire ampia materia per un grandioso poema, se per un attimo si pensi che essa è stata per lunghi secoli muta testimone di tutte le gioie e di tutti i dolori della vita umana, che ha visto nascere e morire milioni di uomini, che ha rischiarato le notti insonni e le veglie affannose dei filosofi immortali e dei grandi pensatori, i quali, al lume di essa, nel silenzio della notte, hanno meditato e risolto i più difficili problemi, hanno indagato e scoperto le più astruse verità. Sebbene i personaggi dei tempi omerici per rischiarare le tenebre durante la notte si servissero della fiamma delle legna o delle torce resinose, non conoscendo ancora le lampade ad olio, tuttavia queste furono conosciute e adoperate dagli Egiziani, i quali, come scrive Erodoto, mettevano sale e olio nelle scodelle e lo facevano bruciare per l'illuminazione; furono però i Fenici i primi a far conoscere le lampade di argilla o di bronzo ai Greci, dai quali l'uso passò nelle colonie dell'Italia meridionale e successivamente a Roma, dove, come si rileva dagli innumerevoli esemplari rinvenuti, l'uso della lucerna ad olio dal lucignolo fumoso fu assai comune.
Se dobbiamo credere a ciò che scrive S. Clemente Alessandrino, le lampade ad olio sarebbero state inventate dagli Egiziani, i quali, come narra Erodoto (lib. II), festeggiavano la ricorrenza di alcune solennità, con grandi luminarie notturne, preparate mediante innumerevoli vasi ripieni di olio e sale e muniti del relativo lucignolo; è opportuno però rilevare che nessuna lampada di questo genere è stata fino ad ora scoperta in Egitto; e perciò la notizia tramandataci dal "padre della storia" rimane sempre in attesa di una positiva conferma. Furono però senza dubbio i Fenici che portarono dall'Africa in Europa e per primi in Grecia l'uso della lampada ad olio, la quale in seguito, attraverso le colonie greche dell'Italia meridionale, giunse a Roma e si diffuse in tutto il mondo romano; che la priorità dell'invenzione spetti ai Fenici è dimostrato anche dalla scoperta di numerose lampade in forma di scodelle o di conchiglie, sia nei paesi che essi abitarono, sia in quelli da essi colonizzati, come Cartagine, Cipro, la Sardegna.
Per indicare l'ora vespertina, ossia quando incominciano a calare le tenebre, Erodoto spesso fa uso dell'espressione: "al momento in cui si accendono le lampade"; e questa frase, malgrado il volgere di tanti secoli, è giunta, come tutti sanno, integra e completa fino a noi. A Roma, come in Grecia, l'uso della lampada entrò relativamente tardi; in precedenza, gli antichi Romani non avevano conosciuto altro che la "candela"; e secondo Varrone il vocabolo "lucerna" venne adottato posteriormente a quello di "candelabrum"; a tal proposito è bene rilevare che prima della parola "lucerna" i Romani adoperarono il vocabolo greco "lychnus"; termine che si trova più volte ripetuto dai poeti latini anche in tempi posteriori. Le scoperte archeologiche confermano quanto abbiamo accennato; infatti le più antiche lampade, fino ad ora rinvenute a Roma, sono quelle trovate nella necropoli dell'Esquilino e, a giudizio degli archeologi, non risalgono al di là del V secolo avanti Cristo. Una volta introdotte a Roma, le lampade ad olio si diffusero rapidamente in tutto il mondo romano; ai tempi dell'impero le troviamo usate ovunque, come è dimostrato dall'enorme quantità di lampade in terracotta dell'epoca imperiale, rinvenute in ogni regione. Astraendo dalla varietà dei dettagli e dai diversi motivi di decorazione, le antiche lampade orientali, greche o romane, erano formate da un serbatoio, destinato a contenere una maggiore o minore quantità di olio, e di uno o più becchi, dai quali spuntava il lucignolo unico o i lucignoli multipli, che, imbevuti di olio, producevano la fiammella. Generalmente il becco, o i becchi, si trovavano sullo stesso piano orizzontale del serbatoio, il quale a volte era scoperto, a volte coperto; in questo caso la faccia superiore era forata con uno o più orifizi di varie dimensioni, attraverso i quali veniva versato l'olio; altre volte, invece di questi orifizi, la parte superiore era provvista di un coperchio mobile. Un sottilissimo foro era spesso praticato nella parete superiore del recipiente: è probabile che questo foro servisse a lasciar passare nella lampada l'aria quando l'orifizio, per il quale si versava l'olio, era chiuso.
Di solito alla lampada era adattato un manico oppure un'ansa in forma di anello; in quanto alla denominazione delle varie parti, i Romani che in origine, come abbiamo detto, chiamarono l'insieme "lychnus" e poi "lucerna", denominarono "nostrum" o "myxus" il becco e "ellychnium" il lucignolo; tali vocaboli non furono altro che la latinizzazione delle corrispondenti parole greche.
 

DALLE LAMPADE AD OLIO A QUELLE ELETTRICHE

La prescrizione dell'uso dell'olio per le lampade dedicate al culto non si è mai affievolita nel tempo: nonostante la scoperta di tanti nuovi combustibili, quali il petrolio, il gas, i numerosi prodotti ottenuti dai vari semi oleosi, e naturalmente la luce elettrica, la fioca luce della lampada ad olio di oliva continua tuttora ad ardere innanzi agli altari, dove si conservano le reliquie più sante e più venerate, come arse pallida e silenziosa nei santuari dell'epoca biblica. È vero che in questi ultimi tempi anche le chiese cattoliche hanno di buon grado spalancate le porte alla luce elettrica, la quale, specie nella ricorrenza di grandi solennità, inonda i "sacri recinti" non solo al di fuori ma anche nell'interno, e soffoca in certo modo il fioco lume delle candele e delle lampade ad olio; è altrettanto vero che, mentre quello sfolgorio straordinario ed abbagliante è di breve durata, come una fugace e clamorosa manifestazione di gioia, la modesta luce della lampada rimane solitaria e silenziosa a diradare le dense ombre notturne anche quando la turba dei fedeli si allontana ed il tempio resta vuoto e silenzioso. Dal momento che abbiamo parlato delle lampade ad olio, alimentate dalla devozione dei fedeli nelle chiese per onorare le sacre immagini o le reliquie dei santi, ci sia consentito di aggiungere ancora poche parole per ricordare, o meglio per far conoscere a chi lo ignora, che precisamente da questo sentimento religioso, di accendere le lampade innanzi alle sacre immagini, ha tratto origine l'illuminazione notturna delle vie e delle piazze delle nostre grandi città e particolarmente di Roma e di Napoli.
Al principio del Secolo XIX Roma, di notte, era ancora completamente al buio; nel 1838 non aveva più di 1500 fanali ad olio; e bisogna proprio riconoscere che quei fiochi lumicini dovevano essere assai povera cosa, perché si potesse parlare di una vera e propria illuminazione.
Allorché verso la metà del XVIII secolo il Governo pontificio, avendo concepito il disegno di illuminare la città eterna, tentò l'introduzione dei fanali, i buoni Quiriti protestarono energicamente, perché ritennero tale innovazione un grave attentato alla libertà notturna fino allora goduta. Per non urtare la suscettibilità dei nottambuli, interessati a mantenere l'incognito, durante le avventurose peregrinazioni al chiaro di luna, fu necessario ricorrere ad un espediente che, senza provocare proteste, potesse tuttavia contribuire a diradare, sia pure in misura quasi insensibile, le tenebre; e l'espediente fu ben presto trovato. Esistevano già in poche vie di Roma alcune minuscole lampade ad olio, che la pietà dei fedeli accendeva devotamente alla sera per richiamare l'attenzione dei passanti sulle sacre immagini ivi poste; il governo pontificio, insinuando e provocando la moltiplicazione di quelle immagini, particolarmente nei crocevia, ben presto raggiunse lo scopo desiderato di vedere aumentate le lampade e, nello stesso tempo, ebbe la singolare soddisfazione di ottenere dalla pietà dei fedeli il contributo spontaneo per realizzare quella parvenza di illuminazione.
Fatto il primo passo, non fu difficile, come si può bene comprendere, intensificare il numero e la potenzialità delle lampade per cui, allorquando l'amministrazione francese, agli inizi del i800, iniziò un vero sistema di illuminazione delle principali vie di Roma con mille lampioni, sospesi a mezzo di fili di ferro nel centro delle strade, non altrimenti di quanto si praticò con il collocamento delle prime lampade elettriche, l'innovazione, a differenza di quanto era accaduto circa un secolo e mezzo innanzi, non suscitò proteste e contrarietà.
I modesti lumicini dei secoli scorsi cedettero il posto alle potenti e luminose lampade elettriche, le quali rischiarono le case, le piazze e le vie, ma ciò non diminuì il merito dell'olio, che fornì il primo combustibile per l'illuminazione pubblica e privata, rischiarando con il fioco lume di una modesta e "fumosa lucerna" le notti insonni e laboriose di tanti filosofi, di tanti immortali scrittori.
 

LA SOPRAVVIVENZA DELLA COLTURA DELL'ULIVO NELLA PENISOLA E NEI MONASTERI

Gli uliveti ripresero a diffondersi per tutta l'Italia e Firenze divenne un centro importante per la coltivazione dell'ulivo ed il commercio dell'olio. Mentre Venezia e Genova rivaleggiano per il controllo del commercio delle derrate alimentari, Firenze, che dispone di incerti sbocchi al mare, spinge al massimo la coltura dell'ulivo nelle proprie terre per non dipendere dalle costose importazioni, come avvenne per l'Arte della lana che nel 1347 importò 7.143 orcio- li di olio d'oliva per 15.936 fiorini, dando vita ad una massiccia esportazione delle sue preziose derrate, il vino e l'olio d'oliva, verso il nord Europa. Firenze gestisce la produzione e la commercializzazione con norme drastiche: è assolutamente vietato vendere olio di oliva senza l'apposita licenza; nessun venditore può tenere più di quattro orci di olio così come è vietato trasportare fuori dal contado olio di oliva senza una precisa autorizzazione.
Nel 1559 Parafran de Rivera, viceré spagnolo, fece costruire una strada che collegava Napoli alla Puglia, alla Calabria e all'Abruzzo per agevolare il trasporto dell'olio. Un altro viceré spagnolo, Juan Vivas, nel 1624 sviluppò l'olivocoltura in Sardegna, concedendo la proprietà degli ulivi a chi li innestava e facendo arrivare sull'isola cinquanta maestri innestatori da Palma di Maiorca, a ciascuno dei quali affidò dieci allievi. In questa epoca le tecniche di coltivazione e lavorazione in Spagna erano particolarmente affinate grazie anche all'illuminato indirizzo dato dagli arabi durante la loro dominazione. Nel solo distretto della Siviglia musulmana funzionavano trentamila frantoi.
Nel 1830 una notificazione di Pio VII (
13) garantiva un premio in denaro, un paolo, pari al compenso di una giornata lavorativa di un bracciante, per ogni ulivo piantato e curato sino a diciotto mesi. In Umbria, allora facente parte dello Stato Pontificio, dal 1830 al 1840 furono piantati ben 38.000 ulivi. Sempre il Governo pontificio, sul cui territorio abbonda la produzione dell'olio di oliva, stabilisce che le eccedenze degli anni di abbondanza non siano del tutto vendute o esportate, ma immagazzinate presso monasteri, abbazie e sedi pubbliche e dà l'esempio conservando il prodotto necessario alla corte pontificia, in enormi anfore situate in Caste' Sant'Angelo a Roma.

13 - Il pontefice Pio VII nel 1820 emanò una serie di provvedimenti allo scopo di far risorgere nello stato pontificio l'agricoltura; giudicò necessario, tra le altre cose, di incoraggiare in particolar modo la coltivazione degli ulivi ed a tale scopo dispose un premio di un paolo - cioè cinquanta centesimi oro - per ogni nuovo albero di ulivo che fosse stato piantato; in seguito a tale disposizione, ben presto l'Agro romano si arricchì di oltre duecentomila nuove piante di ulivi.

Gran parte del merito di aver fatto sopravvivere per tutto il Medioevo la coltura dell'ulivo in Italia e la pratica attività dei frantoi, si deve ad alcuni Ordini religiosi, fra cui, in particolare, i Benedettini e i Cistercensi. I primi seguivano la Regola dettata da San Benedetto da Norcia, che aveva fondato comunità che si ispiravano ai principi evangelici, ma che trovarono anche nel codice del monaco umbro lo strumento più efficace per l'edificazione di una "repubblica cristiana", fondata sulla preghiera e sul lavoro. Contadini e operai agricoli tendevano ad abbandonare le terre che avevano lavorato per secoli; Benedetto e i suoi seguaci li persuasero a dedicarsi a colture redditizie, come appunto quella dell'ulivo, che li avrebbero riscattati dalla povertà. La Regola di San Benedetto trovò applicazioni pratiche a Camaldoli, a Vallombrosa, a Montecassino, a Montefano di Macerata, a Monteolivero (il nome è già indicativo) in provincia di Siena. In questi monasteri le ore del giorno erano equamente suddivise fra i turni di preghiera e i turni di lavoro: i monaci non disdegnavano di impugnare la zappa per migliorare lo stato dei terreni calcarei sotto le mareggiate di ulivi argentei: in alcune località ci sono ancora campi e terrazzamenti di ulivi che risalgono al lavoro dei monaci, specialmente nell'Italia centro — meridionale, come in Basilicata. Non si videro forse mai tanti uliveti e vigne come dal Mille al Quattrocento — gli anni d'oro dei monasteri benedettini e cistercensi.
Spetta soprattutto ai monaci il merito di aver fatto praticamente sopravvivere l'ulivo. Seguendo le indicazioni di San Benedetto da Norcia, monasteri e conventi furono cinti di grandi uliveti, consentendo così il rilancio del prodotto. Da una memoria del monastero di Bobbio, presso Piacenza, si apprende che il reddito tratto dalla vendita di olio serviva per acquistare "vestamenta e ferro". Nell'area salentina furono i monaci Basiliani all'inizio del XIII secolo ad impiantare estese colture di ulivi. Negli archivi di Gallipoli si trova un diploma del 1327 del Re Roberto D'Angiò, che concede alla città la riscossione di tutti i tributi per la molitura delle olive. Nell'Archivio di Stato di Lecce si trovano conservate le autorizzazioni reali del 1371 per l'attracco negli orti di Gallipoli e di Brindisi di navi ragusane per il carico di olio di oliva, conservato in otri di pelle di capra, contro lo scarico di spezie e di tele di lino.
Successivamente furono i conventi che ricrearono uliveti di grandi dimensioni, dati in gestione a contadini con contratto «ad laborandum», secondo cui il proprietario dell'uliveto riceveva parte del raccolto e alcune giornate di lavoro nelle proprie terre. Più tardi, nel XII secolo, vennero stipulati contratti «ad infinitum», cioè senza limiti di tempo, per cui i contadini si impegnavano alla coltivazione in cambio di un fitto, sovente pagato in olio.
Nel secolo XV, ad opera dei frati Cistercensi ed Olivetani, le ampie zone boscose di Capo Leuca furono messe a coltura e per ottenere una pronta resa vennero risparmiati solo gli olivastri cresciuti spontaneamente ed innestati ad ulivi. Nello stesso tempo periodo la Puglia divevne un enorme uliveto e gli ulivi vennero piantati anche in Calabria, in Basilicata, in Abruzzo, in Campania e in Sicilia.
 

L'OLIO D'OLIVA: UN ALIMENTO PREZIOSO

Ai giorni nostri, l'olio d'oliva è il Re dei condimenti, conservando una posizione privilegiata, nonostante l'aggressivo avanzare di numerosi prodotti alternativi. Gli oli vegetali appaiono ricchi di grassi "insaturi", indispensabili all'organismo, in quanto rappresentano un fattore di crescita e permettono al tessuto di assimilare altre sostanze di cui il nostro organismo ha bisogno; per assumere la quantità ottimale di acidi grassi insaturi, è bene consumare almeno 4 cucchiaini di olio d'oliva al giorno.
L'utilizzo dell'olio crudo non ha controindicazioni; anzi, l'acido linoleico, contenuto nell'olio vegetale, se assunto nella giusta quantità, contribuisce a prevenire disturbi circolatori e l'aterosclerosi.
È cosa fondamentale per il consumatore scegliere l'olio adatto ai diversi tipi di condimento o di cottura: infatti, durante la cottura avvengono nell'olio profonde alterazioni per effetto della presenza dell' ossigeno e del calore: gli acidi linoleico e linolenico vengono trasformati in polimeri e ossipolimeri, che sono dannosi per la salute. Per questa ragione, ad esempio, quando si usa l'olio per friggere, è necessario (e salutare) osservare alcune regole generali:
- la fiamma non deve mai essere troppo alta;
- l'olio non deve stare al fuoco per più di una ventina di minuti;
- l'olio non deve mai essere usato più di una volta.

L'olio d'oliva extravergine è il migliore e il più sano, perché viene estratto per semplice pressione di olive mature e successivamente filtrato. Le differenze di sapore e di colore fra i vari oli di oliva dipendono dai rispettivi luoghi di origine, quindi, dal clima, dal tipo di terreno, dalla temperatura dell'aria, dalla vicinanza o meno del mare, dall'età delle piante e dalla loro esposizione al sole.
Sotto il profilo dietetico l'olio d'oliva extravergine è un alimento preziosissimo, ricco di clorofilla, di carotene (che protegge il liquido dall'ossidazione e dall'irrancidimento), di lecitina (antiossidante naturale che stimola il metabolismo dei grassi, degli zuccheri e delle proteine), di polifenoli (anch'essi antiossidanti) e di vitamine A e D. L'olio d'oliva extravergine regge bene anche alle altre temperature.
 

VALORE ALIMENTARE DELL'OLIO D'OLIVA

Malgrado una campagna di disinformazione basata soprattutto su una pubblicità non adeguata ai nostri tempi, l'olio ottenuto dalla spremitura delle olive è in assoluto il miglior tipo di grasso in campo alimentare. Perfino gli Americani (che non ne hanno una produzione importante) riconoscono il suo valore alimentare e terapeutico: nel 1977 il professor Angel Keys, dell'Università del Minnesota, riconobbe dopo lunghi studi l'efficacia dell'olio d'oliva nella prevenzione dell'aterosclerosi e dell'infarto. Egli fu, dunque, il primo — nei nostri tempi — ad affermare il valore della "dieta mediterranea", nella quale l'olio d'oliva gioca un ruolo primario. Innanzitutto l'olio d'oliva è l'unico olio ad essere prodotto dalla semplice pressione di un frutto, senza manipolazioni fisiche, né chimiche. Gli oli di semi, ad esempio, sono prodotti per estrazione, con l'impiego fisico e quindi traumatico di apparecchiature speciali e di materie chimiche come butano, propano ed esano. I grassi sono necessari al nostro corpo per fargli mantenere una buona temperatura (valutata intorno ai 379, ma tali grassi dovrebbero essere neutri; in realtà, sono leggermente acidi; quelli per noi più essenziali sono l'acido oleico, l'acido linoleico e l'arachidonico. Un tempo si affermò la superiorità dell'olio di semi sull'olio di oliva per la maggior presenza in esso di acido linoleico; recenti studi, però, hanno rilevato che il corpo umano non può assimilare più del io — 12% di acido linoleico; inoltre, l'olio d'oliva è monoinsaturo, mentre gli oli di semi sono più ricchi di grassi polinsaturi — fatto essenziale nella cottura e frittura degli oli, perché, portati ad alte temperature, gli acidi grassi insaturi assumono ossigeno e recano danno all'organismo.
In breve, l'olio d'oliva resiste a più alte temperature prima di deteriorarsi; non aumenta il tasso di colesterolo, anzi, l'acido dell'oliva ha la proprietà di diminuire il contenuto del colesterolo LDL, che è dannoso, e di conservare intatto il colesterolo HDL, che fa diminuire il rischio di occlusione delle arterie. Non solo, l'olio d'oliva riduce l'acidità gastrica e agisce favorevolmente sulla bile e quindi diminuisce il rischio di calcoli: favorisce perfino la normale crescita ossea nei più giovani.
Solo negli ultimi decenni del secolo passato, dal 1970 in poi, l'olio di oliva è stato preso nella giusta considerazione, quasi fosse un vero e proprio farmaco, da medici e nutrizionisti, con attente e documentate ricerche, come vedremo in seguito. L'olio di oliva, con la sua composizione equilibrata, che si oppone allo stress ossidativo responsabile dell'invecchiamento, sarà forse uno degli elementi che consentirà alla popolazione di assicurarsi questo primato.
Publio Viola a riguardo dice: «L'Italia si appresta a battere il primato di longevità. Sarà forse l'olio di oliva che ci consentirà di arrivare primi a questo ambito traguardo? Certamente non è l'unico fattore, ma accanto a tante regole che ci costringono a vivere male per morire bene, questo prezioso grasso vegetale è l'unico alimento che ci consente di commettere un peccato di gola senza temere le conseguenze».
I grassi rappresentano un principio nutritivo indispensabile alla nutrizione dell'uomo. Oltre a contribuire, come abbiamo detto, all'apporto energetico della razione alimentare, esplicano altre importanti funzioni. Sono, infatti, tra i costituenti delle strutture cellulari, veicolano le vitamine liposolubili, sono fonti di grassi essenziali, sia per la struttura delle cellule che per la formazione delle prostaglandine, sostanze dalle multiformi attività per il nostro organismo; in fine agiscono sul livello dei lipidi aromatici.
Il preoccupante aumento delle malattie metaboliche, quali l'obesità ed il diabete, e delle patologie dell'apparato cardiovascolare, coronaropatie ed aterosclerosi, riconosce come fattore causale un eccesso alimentare, il più delle volte globale, ma spesso legato ad una introduzione troppo elevata di lipidi.
In Italia, come nelle società ad alta industrializzazione, si è verificato un profondo mutamento delle abitudini alimentari, cosicché mentre lo sviluppo tecnologico ed industriale ha ridotto il dispendio energetico, con le migliori condizioni socio-economiche sono notevolmente aumentati i consumi di alcuni alimenti ed in particolare quello dei grassi, che, rispetto a quello dell'inizio dello scorso secolo, si è quassi triplicato. Riferendoci ad una pratica, anche se non soddisfacente, classificazione che suddivide i grassi alimentari in grassi visibili ed invisibili, essendo questi ultimi quelli non estratti dalle loro fonti originarie e pertanto consumati come componenti dei tessuti, l'apporto energetico dei grassi visibili alla razione alimentare giornaliera è andato via via aumentando nel corso degli ultimi quaranta anni. Essi rappresentano infatti circa il 20% dell'energia, mentre circa il 12% deriva dai grassi invisibili e tra questi una vasta partecipazione è data dai grassi animali.
Numerosi studi condotti in diversi Paesi hanno confermato l'esistenza di una stretta correlazione tra il tasso di colesterolo totale del plasma sanguigno ed il rischio di infarto coronarico. Sono infatti circa 80.000 ogni anno in Italia i nuovi casi di infarto ed i decessi per malattie cardiovascolari rappresentano il 48% della mortalità totale. Gli studi epidemiologici hanno appurato che la coronaropatia si associa a caratteristiche personali come l'aumento della pressione arteriosa, della glicemia, del peso corporeo, ad abitudini di vita come il fumo di sigarette, la mancanza di esercizio fisico, il tipo di alimentazione e soprattutto l'aumento di colesterolo nel sangue.
 

LA COLTIVAZIONE MODERNA DELL'ULIVO E LA PRODUZIONE DELL'OLIO DOC

Riportiamo, per inciso, che i Greci ebbero una speciale considerazione per l'ulivo, che, secondo la tradizione, fu loro donato direttamente dalla dea Atena.
Pare che, quando i Persiani incendiarono Atene, si salvò solo il "sacro ulivo", il che sarebbe come dire che, salvato l'ulivo, non tutto era perduto e la città riprese ci vivere nello stesso posto.
 

ATTECCHIMENTO, VARIETA' PROPAGAZIONE E DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA

a) ATTECCHIMENTO

L'ulivo predilige terreni sciolti o di medio impasto, con reazione alcalina; questa pianta, che la botanica definisce Olea europea, ha una grande adattabilità ai diversi tipi di terreno, purché si tratti di zone temperate ed asciutte. La fascia di attecchimento è compresa fra 30 e 45 gradi di latitudine e perché lo sviluppo della pianta dell'ulivo sia regolare è necessario che avvenga alle seguenti fasce di temperatura: 15 - 18° C per la fioritura; 20 - 22° C per allegagione (trasformazione da fiore a frutto); 15° C per l'invaiatura (comparsa della polpa oleosa); 5° C per la maturazione. La temperatura minima di sopravvivenza è di 7 - 8 gradi centigradi sotto lo zero.
Notoriamente l'ulivo ha una elevata resistenza alla siccità, tollerando la piovosità media delle regioni italiane, espressa in mm/anno: ricordiamo in proposito che la piovosità media delle regioni italiane, espressa in mm! anno, varia da un minimo di circa 5oo per la Puglia, ad un massimo di circa 1500 per il Veneto. Le condizioni climatiche per l'attecchimento ed il benessere dell'ulivo, come si evince da quanto detto, sono ancora più specifiche di quanto non possano esprimere i gradi di latitudine, tanto è vero che abbiamo degli ottimi uliveti anche in Italia del Nord, attorno al lago di Garda, che certamente non appartiene all'area mediterranea.
Al Centro e al Sud dell'Italia, come nel resto dell'area mediterranea, le condizioni climatiche sono naturalmente ideali per l'attecchimento e la propagazione dell'ulivo. Ciò è avvenuto per secoli, anche su terreni impervi e sassosi, dato che l'olivicoltura non poteva essere altro che manuale, ed i terreni più comodi (spesso più umidi) venivano tipicamente riservati ad altre colture. Durante l'ultimo secolo molti vecchi uliveti collinari (
14) e montani sono stati abbandonati, sia per lo scarso reddito, che per le difficoltà di accesso alle macchine agricole ed oggi non è raro trovare monti boscosi dove i vecchi ulivi convivono incolti con il resto della vegetazione spontanea. Possiamo anche ammirare molti nuovi impianti, razionalmente coltivati e produttivi, che caratterizzano il paesaggio collinare delle nostre terre.

14 - Nella provincia di Lucca una piantagione di oltre 3000 piante d' ulivo, in parte giacente e coltivato su terrazzi naturali ed artificiali, è stata abbandonata per l'alto costo della manodopera.

b) VARIETÀ
Nelle famiglie degli ulivi esiste un vasto numero di cultivar che si è andato affermando nel tempo, in funzione delle aree geografiche e del frutto che si vuole ottenere; dal punto di vista pratico, a seconda dell'attitudine delle drupe, possono essere: da olio, da mensa o a duplice attitudine.
Fra le cultivar delle olive da olio, tanto per citarne alcune, le più comuni sono: il Frantoio, il Leccino, la Carbonella, il Pendolino, la Rosciola, la Coratina, la Ogliarola barese, la Ogliarola messinese, la Maiatica.
Fra le cultivar da mensa abbiamo la ben nota Ascolana, la Santagostino e la Gordal che, oltre alla Spagna ed al Nord Africa, si è affermata anche negli USA. Per la duplice attitudine, figurano la stessa Ascolana e la Gordal, oltre che la Tonda Iblea, la Nocellara e l'Oliva di Cerignola, che ha un contenuto di olio più basso delle altre.
Le cultivar appena elencate sono solo le più conosciute ed esse rappresentano solo una parte delle centinaia attualmente classificate con vari nomi in Italia e negli altri Paesi di coltivazione.

c) PROPAGAZIONE E DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA
La pianta dell'ulivo si riproduce e si propaga per via sia gamica che agamica. Durante gli anni, le tecniche per la riproduzione e l'allevamento di questa pianta si sono evolute e raffinate, sia per selezionare il prodotto che per aumentare la produttività dell'impianto. La giovane pianta di allevamento può provenire da innesto su una base ottenuta dalla semina del nocciolo oppure per talea prelevata dalla pianta che si vuole riprodurre. La crescita e la produzione vanno assistite con l'apporto di sostanze essenziali alla specie, preferibilmente quelle organiche del letame ( la produzione di loo Kg di olive richiede l'apporto di circa 900 g di azoto e un ettaro di uliveto ne preleva dal suolo oltre 50 Kg per ogni anno). La potatura deve seguire i criteri botanici, per assecondare la fisiologia della specie, ed i metodi pratici, per consentire la meccanizzazione delle operazioni colturali. La meccanizzazione, in questo caso, non ha ancora trovato una standardizzazione che sia accettata da tutti. A seconda delle zone e degli usi locali, possiamo infatti ammirare eccellenti uliveti produttivi con potature molto diverse da caso a caso. Le potature più diffuse sono con albero a vaso policonico (detto anche a candelabro), a cespuglio, o a monocono.
Rivolgendo l'attenzione alla distribuzione geografica dell'ulivo, torniamo dunque alla cultura (più che alla coltura). La migrazione dei popoli ha portato, fra l'altro, un certo grado di propagazione verso terre lontane dalla zona d'origine e, di fatto, esso è oggi presente in tutti i continenti, sia per ornamento che per produzione, ovunque le condizioni climatiche lo abbiano consentito (l'America, con i promettenti impianti della California, la Nuova Zelanda, l'Australia, il Sud Africa ed anche l'Asia Orientale) e questi territori, che, dal punto di vista olivi- colo, possiamo definire emergenti, rappresentano tutti assieme una frazione del 2 - 3 per cento dell'intera produzione mondiale di olio di oliva (che è di oltre 2 milioni di tonnellate/anno), la quale rimane concentrata nell'area mediterranea. Storicamente l'Italia è stato il primo produttore in assoluto, seguito dalla Spagna e dalla Grecia. Venivano poi le regioni del Medio Oriente, con in testa la Siria, poi il Nord Africa, con l'Egitto ed il Magreb. Con il nuovo millennio il primato è passato alla Spagna, seguita da Italia, Grecia, Medio Oriente, Tunisia e Marocco. La distribuzione olivicola in Italia è predominante in Puglia, seguita nell'ordine da Toscana, Sicilia, Liguria, Lazio, Umbria e, in misura minore, da tutte le altre Regioni, fatta eccezione di Piemonte, Lombardia e Valle d'Aosta, dove è totalmente assente. Per motivi diversi l'olivicoltura recente presenta delle mutazioni geografiche, sia all'interno dell'area mediterranea (come già detto dall'Italia verso la Spagna), che verso nuove e remote zone di coltura (che abbiamo definito territori emergenti). Potremmo dissertare sui diversi motivi che determinano gli spostamenti geografici di questa coltura, a partire dalle condizioni sociali degli addetti al settore, alle politiche agrarie dei Governi, dalle dimensioni aziendali al livello di meccanizzazione. Il motivo principale della migrazione, limitandoci a due considerazioni elementari, è certamente quello economico, perché, come avviene per ogni altro settore, la produzione si sposta inevitabilmente verso i luoghi e le condizioni che minimizzano i costi; il secondo motivo è dato dal consumatore (cioè dal mercato), perché il consumo dell'olio d'oliva non è più un fatto regionale, ma si sta avviando ad essere planetario.
 

A) I PRODOTTI DELL'ULIVO

a) IL LEGNO DELL'ULIVO
Molte sono le essenze pregiate che l'uomo ha selezionato nei secoli per costruire i suoi manufatti; classico è il cedro del Libano, maestoso e possente, da cui si ottenevano le grandi travi per l'edilizia e l'alberatura dei navigli. La quercia è sempre stata la materia prima più compatta e resistente per eccellenza; con il suo legno si alzavano palizzate contro il nemico, si sagomavano i rostri e si centinavano le corazzature delle navi da battaglia, si gettavano architravi al posto del granito.
La foresta mediterranea ha iniziato la sua decadenza con il nascere dei cantieri navali sulle sponde del Mare Nostrum e per il fatto che le nostre strade ferrate poggiano, alcune ancora oggi, ma la maggior parte non più, su molte migliaia di traversine di legno di quercia, per cui il taglio è continuato fino a tempi recenti.
Altra essenza legnosa di maggiore utilizzazione è stato il castagno, molto adatto alle palificazioni perché resistente all'umidità del terreno, e l'acero, molto docile alla lavorazione; quando però si parla di manufatti pregiati per arredi e decorazioni, tipicamente si fa riferimento ai legni esotici, come il mogano e l'ebano, o ai nostri legni speciali, come il noce, per la sua compattezza e la bellezza delle venature, ed in modo particolare all'ulivo, che è raro e pregiato allo stesso tempo.
Esso è raro perché un albero d'ulivo di regola non si abbatte e, quand'anche ciò avvenga, la sua struttura consente una pezzatura molto limitata rispetto alle altre essenze; è pregiato perché presenta una grande ricchezza di venature e può essere agevolmente lavorato e scolpito, anche se compatto e duro come marmo. Le caratteristiche fisiche, unite al valore mitico dell'ulivo, rendono obiettivamente pregiato ogni oggetto o manufatto che sia realizzato con legno d'ulivo.
Se poi dovessimo riferirci all'uso più vile che viene fatto del legno, dovremmo aggiungere che l'ulivo, grazie alla sua essenza oleosa, è il migliore combustibile per il nostro camino: facile accensione, lunga durata di fiamma pura, alto potere calorifico (fino a 4.000 Cal/Kg), minimo residuo di ceneri.

b) LE BACCHE
Le bacche, cioè le drupe, possono essere nere, verdi o violacee; hanno la forma ovoidale oppure tonda, quasi sferica, con dimensioni molto variabili che vanno all'incirca da 8 a 24 mm ed un peso che può variare da 1 a io grammi. Tutte hanno un nocciolo durissimo ed una polpa turgida, coperta da una pellicola lucida (il pericarpo) e naturalmente tutte contengono olio, anche se in percentuali diverse. Le diverse varietà di olive, e quindi delle piante di ulivo, cioè delle cultivar, di cui si è già fatto cenno, hanno determinato nel tempo una spiccata specializzazione agricola, con impianti destinati alla produzione di olive da mensa oppure da olio.
Le olive sono un frutto invernale che cresce singolo, o in piccoli grappoli, sui rami teneri di un ulivo; esse decorano le chiome degli alberi luccicando con la rugiada; se mosse dal vento, hanno un aspetto appetibile, ma non sono commestibili allo stato naturale, perché sarebbero troppo amare. Opportunamente trattate, le olive costituiscono un gradevole alimento energetico, molto apprezzato dai tempi remoti fino ai giorni nostri.
Molti sono i tipi di trattamento che si sono tramandati nelle varie zone dell'area mediterranea per ottenere le olive da mensa che oggi sono disponibili su tutti i mercati del mondo; le possiamo avere affumicate, farcite con spezie varie o semplicemente salate. L'uso certamente meno antico (forse anche meno nobile) che tutti conoscono è quello di guarnire un aperitivo con una turgida oliva verde (
15).

15 - La consuetudine è largamente diffusa in ogni continente ed in un contesto totalmente estraneo al mondo agricolo, tanto estraneo che un anglosassone, urbanizzato e di media cultura, potrebbe facilmente pensare che l'impianto di un uliveto serva solo per alimentare una fabbrica di Martini.

C) LA COLTIVAZIONE NEI SECOLI

a) IL PRODOTTO
L'olio d'oliva è l'unico prodotto al mondo per il quale le fasi di lavorazione sono rimaste praticamente immutate negli ultimi 2000 anni e si potrebbe obiettare che tutta l'agricoltura in generale rappresenta il settore produttivo più antico dell'uomo, il quale, da quando è divenuto stanziale, non ha mai cessato di lavorare il terreno per ottenerne i raccolti.
La singolarità del settore olivicolo è basata sul fatto che riteniamo sia stato l'unico a rimanere quasi immune dalla straordinaria evoluzione tecnologica che si è verificata nei tempi moderni. Un solo uomo, manovrando una mietitrebbia, può raccogliere oltre 20 tonnellate di cereali al giorno, mentre lo stesso uomo, in un giorno, può raccogliere dai 100 ai 150 Kg di olive (non considerando la meccanizzazione ancora sperimentale).
L'estrazione dell'olio si è certamente evoluta col tempo, non fosse altro che per la forza motrice, ma occorre ammettere che la frangitura delle drupe, per convertirle in pasta olearia, e la separazione dell'olio dalla sansa e dalle acque vegetali costituiscono un ciclo lavorativo stagionale (le olive non sono stoccabili come i cereali), che non è mai cambiato nel tempo.

b) LA MECCANIZZAZIONE
Accenniamo alla meccanizzazione agricola ed al progresso tecnologico che le conoscenze botaniche hanno messo a disposizione dell'olivicoltura.
La preparazione del terreno per un nuovo impianto richiede uno scasso totale o parziale ad una profondità di circa un metro, che viene eseguito con aratri e trattrici di elevata potenza.
Ti mantenimento dell'impianto richiede vari tipi di lavorazioni sul terreno, che vanno dal diserbo all'aratura superficiale, regolarmente eseguite con trattore e relativi accessori.
La concimazione del terreno può essere definita come l'apporto artificiale al terreno (si tratta dunque di una pura e semplice "alimentazione" delle piante) di determinate sostanze allo scopo di restituire quelle asportate dalle piante che vi sono coltivate. Fertilizzazione vuol dire includere non solo l'apporto di sostanze che equilibrano e potenziano la fertilità del suolo coltivato, ma anche l'aggiunta di sostanze correttive che modificano le caratteristiche fisiche e chimiche del terreno (troppo acido con PH inferiore a 6 oppure troppo alcalino con PH superiore a 8,5, o semplicemente carente di alcuni elementi chimici necessari alla fertilità, pregiudicando il buon esito di una coltura).
Si capisce che, per l'agricoltura moderna, la pratica di fertilizzare un terreno non può essere empirica, ma deve partire da una base scientifica che tiene conto dell'analisi del suolo e della pianta. Gli elementi principali per la fertilità sono l'Azoto, il Fosforo ed il Potassio, i quali sono normalmente presenti in quasi tutti i concimi destinati alla olivicoltura.
La concimazione meccanizzata è largamente diffusa, sia per concimi sintetici, con contenitori centrifughi a fondo rotante, che per letame o liquami, con carrelli spanditori abbinati al trattore.
Un'altra operazione meccanizzata, complementare alla concimazione, è l'irrorazione delle piante, sia a scopo antiparassitario, che a scopo nutritivo, con concimi fogliari.
La potatura degli ulivi è un'operazione complessa e costosa, che richiede competenza e manualità nell'operazione. La classica pianta a vaso policonico viene potata quasi esclusivamente a mano e possiamo stimare che, in una giornata lavorativa, si lavorano dalle 15 alle 30 piante, a seconda dello stato e delle dimensioni delle piante stesse.
Molte sono le proposte di potatura meccanica, da eseguire con lame, dischi o coltelli rotanti, montati su bracci meccanici a comando oleodinamico, sia in abbinamento con trattori convenzionali, che con macchine progettate ad hoc. Questo tipo di potatura, certamente più rapido di quello manuale, tende a mantenere la chioma dell'albero entro i confini ottimali, che assicurano aria, luce e nutrimento per tutti i rami, eliminando sia i rami superflui che quelli di fuga. Poiché la forma geometrica che meglio si adatta ad un trattamento di questo genere è il cono, abbiamo appunto la potatura a monocono, che fa somigliare un ulivo ad un cipresso ribassato.

D) RACCOLTA DELLE OLIVE
La raccolta delle olive è un'operazione che ancora persiste nell'essere manuale, nonostante le diverse proposte di meccanizzazione, e non ha subito molte varianti nella storia. Prima si raggiungevano le singole drupe per essere manualmente prelevate dai rami (
16) e raccolte in panieri da tenere a tracolla, poi si è accelerato il processo con la bacchiatura delle drupe, tramite lunghe aste, provocandone la caduta a terra, da cui comodamente (e sempre manualmente) si raccoglievano. Questo metodo, con le due varianti di bacchiatura, oppure di brucatura manuale, è tuttora largamente usato e si è perfezionato con l'adozione di grandi teli disposti alla base delle piante, accelerando di gran lunga la fase di raccolta a terra.
La raccolta meccanizzata parte dal concetto manuale di provocare la caduta delle drupe entro un telo raccoglitore.
C'è chi propone di scuotere l'intera pianta (
17) con un braccio meccanico abbinato al trattore che fornisce l'energia per la vibrazione, altri suggeriscono di agitare le sole chiome, con rastrelli oscillanti montati su aste meccaniche, alimentate ad aria compressa. Allo stato attuale, questi ultimi sembrano prevalere sui primi ed il rendimento per ogni addetto alla raccolta delle olive si è più che raddoppiato, rispetto ai metodi tradizionali, passando a 300 — 400 Kg di raccolto per giorno — uomo.
L'efficienza dei due tipi di abbinamento, uomo — macchina e macchina — albero, dipende naturalmente dalle dimensioni e dalla forma degli alberi su cui si lavora.

16 - Le raccoglitrici di olive di un tempo erano pagate o a giornata più le spese (colazione e pranzo) o con la divisione del prodotto raccolto nella giornata.
17 - Trattata preventivamente con sostanze che rendono possibile il distacco e l'allontanamento del frutto dal ramo.

E) IL FRANTOIO

a) IL FRANTOIO NELL'ANTICHITA'
Per le olive che non sono da mensa la destinazione esclusiva è il frantoio, che rappresenta il punto chiave nel mondo olivicolo, in cui, da novembre a gennaio, si lavora 24 ore al giorno; esso è il luogo del raccolto finale, dove si misura e si assapora il frutto di un duro e paziente lavoro, è anche il luogo d'incontro fra gli addetti del settore: produttori, estimatori, commercianti ed i consumatori più esigenti che provvedono alle scorte domestiche.
Negli ultimi 2000 anni poco è cambiato nel mondo dell'olio d'oliva.
Tutti conoscono la macina di pietra e il torchio, o pressa a vite; è altrettanto noto che l'olio è più leggero delle acque vegetali contenute nelle drupe e basta dunque pressare la pasta olearia, raccogliere il liquido che ne viene estratto ed attendere che l'olio "affiori" verso l'altro, mentre le acque scendono verso il fondo di un bacino con i residui solidi di sedimentazione.
Questo è l'olio d'oliva, detto anche il "fiore", che l'uomo produce da millenni per i suoi molteplici usi. La separazione dell'olio per gravità non può essere così netta, come avviene per l'acqua di un ruscello che si separa dai ciottoli che riposano sul fondo. La miscela di olio con le acque ed i residui legnosi si dispone in verticale dal basso verso l'alto, in modo direttamente proporzionale al peso specifico dei diversi componenti, dando luogo ad una spontanea graduatoria di leggerezza e di purezza che parte dall'alto. Ecco dunque il concetto di prima scelta che si riferiva all'olio raccolto per "sfioritura" dal bacino di raccolta della massa liquida, ottenuta dalla pressa.
Tutte le operazioni fino ad ora descritte erano basate sul lavoro manuale, con il solo apporto di lavoro animale, oppure di energia idraulica (
18), per quanto riguarda la rotazione delle pesantissime macine, che erano appunto dei macigni. L'arrivo dell'energia elettrica ha naturalmente rivoluzionato le cose anche nel frantoio, ammodernando le fasi fondamentali di lavorazione che sono rimaste le stesse: frangitura (o molitura), pressatura e separazione.

18 - In un trappeto, posseduto da mia madre ultracentenaria, di recente scomparsa, e di proprietà dei Camodeca de' Coroney di Castroregio (Cosenza), nobile famiglia albanese, proprietaria, in contrada "Frangile", di un uliveto con oltre 2000 piante, il torchio era mosso da una macchina a vapore ricavata da una locomotiva ed adattata all'impianto.

Le nuove macine di granito, normalmente in montaggio multiplo di due o tre elementi, ruotano entro un bacino di acciaio e possono smaltire fino a io quintali di drupe l'ora. Tramite paratoia, si preleva dal bacino la pasta olearia, che viene disposta, tramite un dosatore, in strati sovrapposti fra diaframmi filtranti (fiscoli) e dischi di acciaio, fino a formare una torre alta circa un metro e mezzo poggiata su di un carrello. La torre viene applicata ad una super pressa idraulica, la quale porta in pochi minuti i circa due quintali di pasta olearia a 400 atmosfere. Il risultato della spremitura passa poi ad una macchina centrifuga che ha brillantemente superato l'antica separazione per gravità, erogando, in modo rapido e sicuro, un ottimo olio di prima scelta, che non ha nulla da invidiare al vecchio "fiore". Si tratta del ben noto "olio extra vergine" di oliva.

b) FRANTOI MODERNI
Abbiamo con ciò per sommi capi descritto un moderno frantoio di tipo tradizionale. Solo sommariamente, perché bisognerebbe accennare al preventivo lavaggio e alla ventilazione delle drupe, come, del resto, occorrerebbe parlare della gramolatura, che è un'importante fase intermedia, fra la macchina e la pressa, in cui la pasta olearia viene amalgamata ed omogeneizzata da una sorta di impastatrice, allo scopo di liberare l'olio, eliminando l'emulsione acqua — olio.

c) RESA IN OLIO
Occorre, infine, fare cenno alla resa in olio delle olive conferite all'impianto: fatte le dovute distinzioni, per la qualità delle olive, il terreno di provenienza e lo stato di maturazione, possiamo considerare una resa media che è dell'ordine dei 20 Kg di olio per 100 Kg di olive. Sono frequenti le basse rese del 12%, come possiamo registrare delle ottime rese che raggiungono il 25%.
 

F) QUALITÀ, CONTENUTI E DENOMINAZIONI

a) QUALITA'
Per definire il concetto base di qualità dell'olio d'oliva, dobbiamo rifarei alla chimica e alla biochimica.
Passeremo brevemente in rassegna le varie classificazioni merceologiche, con l'intento di dare un contributo di chiarezza, sia a vantaggio dei consumatori che dei produttori di questo prodotto.
Allo stato attuale della conoscenza e della normativa, possiamo affermare che l'olio d'oliva è una nobile fonte di grassi pregiati che arricchiscono e valorizzano la nostra dieta, e ciò è dovuto alla presenza in esso di uno straordinario equilibrio naturale fra acidi grassi, che da soli potrebbero soddisfare il fabbisogno umano, con le seguenti proporzioni:
- monoinsaturi: 80%
- polinsaturi: 10%
- saturi: 10%

Ai grassi si accompagnano inoltre vitamine antiossidanti, fitoestrogeni, che ne esaltano le proprietà dietetiche e salutari, nonché aromi e fragranze, che lo rendono estremamente gradevole al gusto e all'olfatto. Va inoltre sottolineata la stabilità nel tempo dei componenti dell'olio d'oliva. Possiamo dunque dedurre che una equilibrata e peculiare composizione chimica, connessa con le proprietà dietetiche, la gradevolezza del gusto e la fragranza dell'aroma, determinano la "qualità dell'olio d'oliva".
Occorre tuttavia precisare che alla qualità dell'olio contribuiscono diversi fattori che non si limitano alla tipologia dell'ulivo, alla zona di coltivazione, allo stato di maturazione e conservazione delle drupe, ma comprendono tutte le operazioni che si svolgono a partire dall'albero fino al frantoio, ivi inclusa la raccolta, la manipolazione ed il trasporto, la molitura e l'estrazione finale.
Ognuna di queste fasi contribuisce alla qualità del prodotto finito.

b) CONTENUTI
Per definire i contenuti presenti nell'olio d'oliva bisogna far riferimento alle normative emanate di recente.
Molti sono i tipi di olio, tutti definibili come olio d'oliva, ma profondamente diversi l'uno dall'altro.
Per il consumatore mediamente informato, si tende ad identificare come unico e vero olio extra vergine d'oliva, il prodotto estratto dalla pasta olearia, con puro trattamento meccanico (separatore, oppure pressa, sedimentazione e centrifuga), con grado di acidità inferiore al limite massimo di 1%, senza alcun processo termico o chimico, e senza l'aggiunta di sostanze che siano estranee alle drupe d'oliva. Questa definizione, sia pure generica, non è lontana dalla classificazione ufficiale, ma la conoscenza media del consumatore (e quindi l'informazione diffusa) rimane ancora piuttosto carente.
Quanto alla difesa del consumatore, pensiamo sia utile dare qualche ulteriore notizia sulle falsificazioni accennate sopra, confermando la deplorevole presenza di fraudolente sofisticazioni del prodotto, che potrebbero ancora sfuggire ai severi controlli che pure esistono e sono efficaci. Possiamo citare le falsificazioni, che potremmo definire "poco dannose"e che consistono nella miscelazione di vari oli vegetali, riducendo drasticamente il costo all'origine di un prodotto che viene ingannevolmente posto in commercio come olio d'oliva. Della stessa natura sono le manipolazioni per simulare un olio fresco e genuino, partendo da un olio d'oliva "lampante" (con acidità che va oltre il 3%) oppure da un olio rancido, sottoponendo i prodotti di partenza a severi riscaldamenti, al fine di saponificare e separare le parti indesiderate, oppure ricorrendo alla distillazione sotto vuoto. Seguono poi le vere e proprie adulterazioni, che, oltre alla frode commerciale, investono l'area del crimine penale vero e proprio, ponendo in commercio dei prodotti dannosi alla salute. Siamo nei deplorevoli casi di esterificazione di grassi animali, colorazione con clorofilla, insaporendo con betacarotene.
Le frodi e le adulterazioni sono naturalmente proibite dalla legge e solo una vigilanza costante può fornire un'adeguata protezione del consumatore. Dal momento che la qualità del prodotto finale dipende anche dal tipo e dalla qualità delle olive di partenza, sarebbe molto opportuno caratterizzare l'olio d'oliva specificando il luogo di coltivazione dell'ulivo e della raccolta delle drupe, e non la località del confezionamento del prodotto finale, come normalmente si legge sulle bottiglie al consumo.

c) DENOMINAZIONI
Per quanto riguarda le denominazioni dell'olio d'oliva è stato introdotto il concetto di Denominazione di Origine Protetta (DOP) anche per l'olio d'oliva ed abbiamo una normativa che fa riferimento a dei parametri, che sono tecnicamente riscontrabili e misurabili.
A difesa della qualità possiamo oggi disporre di metodologie di analisi chimica, per lo più legate a sofisticate tecniche strumentali, che consentono di rilevare la reale composizione di un olio di oliva, gli eventuali additivi, le miscelazioni, fino ad arrivare, con l'impiego di particolari sperimentazioni, a determinare il
suolo e la zona di coltivazione degli ulivi dalle cui drupe è stato prodotto l'olio in esame. Occorre infine notare che la normativa attuale prevede anche la valutazione organolettica degli oli vergini di oliva attraverso il "Panel Test". Tale valutazione conferisce un punteggio organolettico che è correlato con il tipo di olio di oliva sottoposto al test.
La disponibilità di sofisticate tecniche analitiche ha permesso di avere un'esauriente conoscenza della composizione chimica dell'olio d'oliva e di definirne le diverse caratteristiche ed i vari parametri chimici, ponendoci in grado di classificare ed identificare le diverse frazioni di cui è composto.
 

G) CLASSIFICAZIONE MERCEOLOGICA

La normativa vigente sull'olio d'oliva fa riferimento al Regolamento CEE N. 2568/91 (aggiornato di recente), il quale ha classificato le diverse tipologie merceologiche dell'olio d'oliva e ne ha fissato i requisiti chimici per il loro riconoscimento ed il loro controllo sul mercato.
In questo capitolo viene riportata la classificazione merceologica degli oli di oliva in commercio, secondo quanto previsto dal suddetto regolamento, specificando le definizione tecnica delle varie frazioni con i limiti dei parametri chimici che le caratterizzano e ne permettono il controllo sul mercato.
Una prima classificazione è basata sulla tecnica di produzione dell'olio d'oliva; le due grandi categorie sono:
a) - oli prodotti per solo pressione meccanica: Oli Vergini
b) - oli prodotti per raffinazione chimica di frazioni derivanti dalla spremitura: Oli Raffinati

A - GLI OLI VERGINI
Nel passato gli oli ottenuti per sola spremitura meccanica erano gli unici oli di oliva che venivano commercializzati e la loro qualità veniva classificata sulla base della loro acidità. Tale parametro, per un olio di sola spremitura, costituisce infatti un buon indice generale della qualità.
Ad un basso grado di acidità solitamente si associano i parametri di gusto, di odore e di trasparenza, mentre ad un alto grado di acidità i parametri caratteristici risultano più scadenti, sia dal punto di vista organolettico che della composizione chimica.
Attualmente i parametri di qualità degli oli di pressione sono molteplici e si basano su diverse caratteristiche chimiche che si diversificano a seconda del tipo e della qualità delle olive di partenza, del tipo di processo adottato per la produzione e dei trattamenti subiti dalla pasta olearia

Gli oli vergini sono classificati come segue (19)
A1) - Olio d'oliva extra vergine
A2) - Olio d'oliva vergine
A3) - Olio d'oliva vergine corrente
A4) - Olio d'oliva vergine lampante

19 -  Nel passato si avevano cinque gradi di qualità per gli oli vergini: extra vergine, sopraffino vergine, fino vergine, vergine, vergine lampante. I primi quattro venivano commercializzati come oli commestibili, mentre il quinto non veniva classificato commestibile ed era normalmente destinato ad usi domestici poveri o per illuminazione (per le lampade, da cui lampante), con una possibilità di commercializzazione sempre meno rilevante.

A1 — L'olio d'oliva extra vergine è un olio superiore, di alta qualità, che viene prodotto da olive mature e integre, che ha un tasso di acidità inferiore all' 1%, espresso come acido oleico. Viene confezionato per il diretto consumo. L'olio extra vergine di oliva mantiene il suo naturale sapore, il suo aroma e tutte le componenti chimiche altamente pregiate dal punto di vista dietetico. Esso ha un aspetto viscoso con colorazione gialla o verde scuro e presenta un punteggio organolettico maggiore di 6,5.
A2 — L'olio d'oliva vergine viene prodotto con gli stessi criteri dell'extra vergine, ma i suoi parametri di qualità sono inferiori, sia per la tipologia delle olive di partenza, che per le modalità di raccolta e conservazione delle stesse. Il suo grado di acidità è inferiore al 2%. Si tratta dunque di un prodotto meno pregiato dell'extra vergine, ma che presenta ottime proprietà dietetiche. Esso viene confezionato per il diretto consumo ed ha un punteggio organolettico superiore a 5,5.
A3 — L'olio d'oliva vergine corrente viene prodotto analogamente ai precedenti, utilizzando olive di qualità più scadente, in relazione anche al trattamento subito. E' un prodotto commestibile di gusto buono, ma con parametri di qualità più bassi dei precedenti, che non sono considerati sufficienti a garantire il soddisfacimento del consumatore. Presenta un tasso di acidità inferiore al 3% ed un punteggio organolettico superiore a 3,5. Esso non è ammesso al confezionamento per il diretto consumo, ma può essere commercializzato a livello industriale per essere utilizzato per la miscelazione con altri oli, ivi compresi i raffinati.
A4 — L'olio d'oliva vergine lampante viene prodotto con metodi simili a quelli per il vergine corrente, ma presenta parametri di qualità molto scadenti. Il tasso di acidità supera il 3,3%, ed il punteggio organolettico è inferiore a 3,5. Esso non è commestibile, si presenta solitamente torbido e maleodorante, di pessimo gusto. Viene commercializzato come materia prima per la produzione di oli raffinati.

B - GLI OLI DI RAFFINAZIONE
Gli oli di raffinazione si ottengono per trattamento chimico e fisico delle frazioni meno pregiate del processo di spremitura. Essi si classificano come segue:
B1 - oli da raffinazione di oli di oliva vergini non commestibili (oli di oliva lampanti)
B2 - oli da raffinazione degli estratti dalla sansa

B1 - Oli da raffinazione di oli d'oliva vergine lampante
L'olio d'oliva vergine lampante viene trattato chimicamente, attraverso processi di neutralizzazione dell'eccesso di acidità con soda caustica, e mediante trattamenti fisici di riscaldamento con aria calda e filtraggio su terre decoloranti e/o carbone attivo, con eventuali processi di raffreddamento per la eliminazione delle frazioni più pesanti (cere).
Si ottiene così un prodotto neutro, incolore, insapore ed inodore, chiamato "olio d'oliva raffinato". Questo prodotto è commestibile, ma non può essere confezionato per la vendita al consumo diretto in quanto è considerato un prodotto semilavorato, quindi intermedio, che, per essere commerciabile, deve essere miscelato con olio vergine, che gli fornisce i parametri necessari a definirsi "olio d'oliva".
Attualmente questi oli d'oliva vengono fortemente pubblicizzati come "Oli light", di cui si esaltano le caratteristiche di "neutralità" e di "leggerezza", tacendo il fatto che in quest'olio "leggero" mancano tutti i componenti più pregiati dell'olio d'oliva, perché perduti durante la raffinazione.

B2 - Oli da raffinazione di oli di sansa
La sansa è il residuo solido proveniente dalla spremitura delle olive; è un materiale ancora ricco di olio, non ottenibile convenientemente per ulteriore spremitura, anche se condotta ad alta temperatura.
Nel passato la sansa veniva utilizzata come combustibile o come integratore dei mangimi per gli animali. Attualmente essa viene trattata a caldo con opportuni solventi, che permettono di estrarne l'olio residuo. L'estratto che ne risulta (solvente + olio) viene distillato per separare il solvente e recuperare l'olio, che si definisce "olio greggio di sansa". Questo prodotto viene poi purificato con le stesse tecniche già descritte per l'olio vergine lampante, ma le caratteristiche chimiche ed organolettiche che ne risultano sono peggiori e costringono il produttore ad utilizzare trattamenti tecnologici più drastici. In particolare dall'olio greggio di sansa bisogna eliminare le cere, grassi ad alto peso molecolare con struttura microcristallina, che intorbidirebbero stabilmente il prodotto raffinato.
Si ottiene così il prodotto denominato "Olio di sansa raffinato", molto simile all'olio "di oliva raffinato", anche se di caratteristiche diverse. Il prodotto ottenuto con il processo appena descritto non è destinato al consumo diretto, perché dichiarato non commerciabile. Se miscelato con olio d'oliva vergine, esso diviene commerciabile con la denominazione di "Olio di sansa di oliva".
I diversi tipi di olio d'oliva, che abbiamo appena elencati, sono riportati nella tabella che segue, unitamente alle rispettive caratteristiche ed ai parametri chimici previsti dalla normativa vigente (Reg. CEE 2568/91), che si applicano ad ogni classe merceologica di prodotti provenienti dal trattamento delle olive.
Lo stesso Regolamento CEE 2568/91 annovera fra le determinazioni analitiche per la classificazione degli oli d'oliva vergini anche il "Panel Test", cioè una valutazione organolettica fatta da un gruppo di esperti (da 8 a 12 persone) selezionati ed addestrati a tale valutazione. La valutazione del "Panel Test" viene espressa in punteggio organolettico, il quale varia a seconda della tipologia merceologica dell'olio da maggiore di 6,5 (per l'extra vergine) a minore di 3,5 (per l'olio lampante).

SCHEMA RIASSUNTIVO DEGLI OLI D'OLIVA COME PREVISTO DALLA NORMATIVA VIGENTE
1. Olio d'oliva extra vergine, Commestibile e Commercializzabile direttamente
2. Olio d'oliva vergine, Commestibile e Commercializzabile direttamente
3. Olio d'oliva vergine corrente, Commestibile, non Commercializzabile in confezione per il consumo
4. Olio d'oliva vergine lampante, non Commestibile, non Commercializzabile in confezione per il consumo.
5. Olio d'oliva raffinato da olio lampante, Commestibile, non Commercializzabile in confezione al consumo
6. Olio d'oliva (ottenuto da 3 + 5), Commestibile e Commercializzabile al consumo
7. Olio di sansa di greggio, non Commestibile, non Commercializzabile in confezione al consumo
8. Olio di sansa raffinato, Commestibile e non Commercializzabile in confezione al consumo
9. Olio di sansa d'oliva (ottenuto da 3 + 8), Commestibile e Commercializzabile in confezione al consumo.
 


BIBLIOGRAFIA

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