Pasquale Totaro-Ziella

 

 

Francesco Bellusci

 

L’uomo alla luce del folklore in Vent’Anni di Poesia

 

Abitare la terra, lottare insieme per la vita, solidarizzare contro la morte.

Non è facile maneggiare una nozione complessa e controversa come è quella di “civiltà contadina”. Non solo essa incrocia la polisemia del termine civiltà (a seconda che la s’intenda come uno spazio fisico-antropologico o come un’organizzazione economico-sociale o come una mentalità collettiva), ponendosi forse in attrito col rigore “scientifico” di tale polisemia; ma anche allorquando si tenti di aggirare il suo incerto statuto e di darne una definizione sintetica e, per così dire, “strutturale”, ricorrendo all’accezione etnografica che l’ipostatizza nella descrizione del complesso degli “usi e tradizioni popolari” o alla visione gramsciana del folklore come “cultura subalterna” in conflitto con la “cultura egemone”, inteso a sua volta come articolazione del più ampio conflitto di classe, essa non si rende definitivamente perspicua.

La civiltà contadina rimanda piuttosto ad uno iato temporale e culturale più ampio e profondo, ad un lungo capitolo della filogenesi umana, al cui interno appare custodita e drammatizzata continuamente un’interrogazione metafisica sul destino umano, la cui eco ci giunge ormai da una distanza sempre più remota e quasi mitica.

E’ ciò che sembra voler suggerire l’esperienza poetica di Pasquale Totaro-Ziella, che nasce con la disposizione a raccogliere e conferire riverbero a quell’eco, attraverso un duplice atteggiamento estetico e psicologico: la descrizione sehnsuchtvoll di un mondo perduto insieme con la fanciullezza (A canne a pietre a posti fatati); l’incapacità, vissuta nevroticamente, di uscire da quel mondo accettandone il rovesciamento moderno dei valori (Spaesamento), dall’altro. Nella prima opera (Solamente questo paese), i due atteggiamenti si trovano non a caso fusi, proprio perché il poeta deve innanzitutto sperimentare la dolorosa scissione tra “paese” e “uomo”, per recuperarne il nesso simbiotico nel paesaggio memoriale della fanciullezza e ricomporne l’integrità nella figura estetica del “paesuomo”.

Abitare la terra, stringere un’alleanza nella lotta per l’esistenza e la dignità, socializzare l’evento singolare della morte per farne una fonte nuova di speranza e di solidarietà: sono i temi con cui la civiltà contadina, ancor prima di rappresentare se stessa, ha appagato l’incessante ricerca di un’immagine dell’uomo nello specchio mobile del tempo e di un senso corale entro cui racchiudere il compimento del destino umano.

Totaro-Ziella ci assorbe nell’Einfuhlung agitata e viscerale con cui rivive questi temi, propria di chi è impaziente di recuperare e preservare una verità minacciata nel suo stesso fondamento linguistico, non mancando di metterne in luce la dissonanza “antropologica” con la modernità che sradica e isola gli individui, abolisce illusoriamente la morte e la memoria, “funzionalizza” il modo di vivere:

 

Ed ecco l’uomo nostro

 

Ci siamo fusi con coscienza tecnologica.

 

Ed ecco l'uomo nostro

fucinato

ricotto

profilato

temprato

rinvenuto

affilato

da uomo d'acciaio.

(da: Autocritica di un uomo)

 

L’interesse principale di Totaro-Ziella è tuttavia intimamente rivolto a quell’aspetto “riflessivo” della civiltà contadina ancora osservabile in una vasta gamma di riti folkloristici e a cui si sono accostate, in particolare, le analisi fenomenologiche di De Martino sulle “apocalissi culturali”. Nella misura in cui, infatti, il riscatto umano è incompleto e il mondo resta pervaso da dolore, penuria e morte, tutta l’“arte” teatrale e letteraria contadina si condensa nel racconto epico degli sforzi umani di civilizzazione, della condivisione di uno spazio di operosità e di moralità sociale, costantemente minacciato dalla regressione alla soddisfazione immediata delle pulsioni erotiche e aggressive.

Ogni aspetto della cultura contadina sembra ruotare intorno ad una coscienza oscura e, per così dire, pre-scientifica del conflitto tra “principio della realtà” e “principio del piacere”, ovvero intorno alla necessità di orchestrare in ogni momento della vita la vittoria del primo, con la consapevolezza “tragica” dell’impossibilità di trascendere definitivamente l’attrazione verso il secondo.

E’ significativo come siano proprio le poesie dedicate alla madre e al padre a riflettere, meglio di altre, lo stato psicologico di questa lacerazione culturale tra ordine e caos, operosità e rinuncia, eros civilizzato (la famiglia) e istinto di morte:

 

Mio padre

 

Alla tua mente padre a che serve questo figlio

m’hai inventato padre ai giorni sudati

nessuno mi scoprirà padre alla tua vita

ai tuoi piccoli occhi ho appeso sconfitte.

Quella sera d’amore t’ha mortificato tuo figlio.

Ti volevo somigliare alla goccia

alla mia bocca mi ritrovo la tua gola

mi sorprendo al tuo gesto inventato

a questa vita smemorata mi sento tua carne

alle tue braccia m’arrendo mortificato.

(da: Autocritica di un uomo)

 

 

 

Porsia

 

(...)

Mia madre inserta fichi spaccati alla speranza

di trovarmi una vita perfetta alla sua

e non s’accorge che m’avvicina la morte.

(...)

(da: Solamente questo paese)

 

Allo stesso modo, A canne a pietre a posti fatati c’introduce appassionatamente in quell’immenso armamentario “magico” allestito dalla cultura contadina per poter domesticare sin dalla fanciullezza la vita e la morte, lenire l’irruzione dei fantasmi interiori e assecondare il lato benigno della natura.

Nella difesa e coltivazione degli spazi di “fabbricazione” del senso, contro il caos degli istinti e il vuoto della morte, risiede la possibilità di umanizzarsi:

 

Alla Vena Sciarappa

 

Come posso scordare la mia fanciullezza

con i miei compagni mutavamo alla Vena Sciarappa

alle sottane alzate la voce grossa alle vergogne

nascondevamo allo sguardo scoperto le voglie ai pioppi

alla terra scoprivamo la gente al ginepraio.

Sgranavamo alle notti di cenere il cuore alle granate

alla canna travata ricontavamo gli alveari al sonno

sputavamo alla bocca il seme seccato ai giorni corti

alle libellule sognavamo gli amori agli acquitrini

ritornavamo ai grandi le storie sentite al perastro.

Alle gambe allargate voltavamo la faccia all'arco maligno

guardavamo sfrontati al lampo il segno sacrilego al cielo

alla creta impastavamo la mano fattiva alla paglia

innalzavamo alle casette accannate i muri a piombo

all'ira simulata prendevamo i santi a bestemmie.

Seguivamo ai giri indifferenti la posa alla megera

al morto prossimo sapevamo la casa annerata al volo

spiavamo al trapasso l'anima all'ultimo sospiro

a cannate dai nostri tetti cacciavamo le ali alla morte

i morti nostri non erano mai pronti alle trecce sciolte.

(da: A canne a pietre a posti fatati)

 

Dall’“umanità lucente” alla “mineralita”

Con la percezione drammatica della perenne tensione tra “civiltà” e “natura”, tra apollineo e dionisiaco, e con la coscienza oscura delle opposte direzioni che gli istinti fondamentali di vita e di morte possono imboccare, si distende il gesto quasi titanico della cultura contadina a riassumere il senso di quella vicenda stratificata e millenaria che è l’uomo ovvero a “sciogliere” il grumo geologico, biologico e storico che l’uomo convoglia dentro di se.

Senza comprendere la maniera viscerale con cui Totaro-Ziella scopre e s’appropria di questa tensione metafisica “vissuta” all’interno della cultura contadina, rimarrebbe altresì misterioso il processo creativo che conduce alla figuratività cosmica, transrazionale ed emotiva di Autocritica di un uomo.

L’“umanità lucente” e la “mineralità” simboleggiano i poli estremi dell’arco che fissa diversi stati (umanità, animalità, vegetalità, mineralità) le possibilità ontologiche della condizione umana.

Il fatto che il poeta li ripercorra a ritroso non è casuale. La tensione a sublimare gli istinti primari (sessuali e distruttivi) nell’epos della civilizzazione, con la conquista progressiva della natura esterna e con la moralizzazione della natura interna, è sempre contrastata, infatti, dalla tendenza regressiva e “inerziale" della vita organica a restaurare uno stato di cose precedente, fino a giungere allo stato di materia inanimata. Quella tendenza la cui scoperta sconvolse lo stesso Freud, portandolo ad ipotizzare suggestivamente che solo una serie di fattori esogeni condussero il giovane “organismo” a cercare vie indirette e diverse dal ritorno alla condizione inorganica, allo scopo di liberarsi dalla “tensione” che contrassegna, sin dalla nascita, ciò che è vivo. E solo su questa via gli impulsi erotici hanno potuto prender corpo e attuare la loro opera “conservatrice” ed espansiva e combattere, in questo modo, la primordiale manifestazione della pulsione di morte dell’organismo.

La confessa incapacità del poeta, apparentemente individuale, di aderire univocamente ad una sola dimensione, si traduce, in verità, nella denuncia generale dell’impossibilità per l’uomo (anche civilizzato) di uscire dal contrasto di forze psichiche opposte e di fissare il momento in cui l’una riesca a soggiogare e strumentalizzare definitivamente l’altra:

 

I

 

Potrei anche arrendermi all'umanità lucente

e arrestarmi sacrilego a un'anima

agli occhi spiritizzati trasuomo agli scalamori

so già che sarei sconfortato alla dannazione.

 

1

 

Potrei anche annusarmi all’animalità

e cecitare la planazione alla ferinità

al ventre tremante a chimera vampante

so già il lamento alla forza sfracellato.

 

I

 

Potrei anche annestare alla vegetalità

e vanirmi il destino amaro dell’immobile

al salice dolce della terra sfibrata

so già che fiorireste alla debolezza.

 

1

 

Potrei anche ammassare scorie alla mineralità

e infecondare a un idolo tribale l’ambra

alla tundra salata dell’insensibilità

so già che non sedimenterebe l’organismo.

(da: Autocritica di un uomo)

 

E’ il sentimento tragico e cosmico di questa “psycomachia” che Totaro-Ziella ritrova e apprende dalle manifestazioni folkloriche e dallo Zeitgeist della civiltà contadina meridionale. L’uomo di Totaro-Ziella è sempre oscillante tra l’essere rapito dalla naturalezza della cultura (rimanendo, nel contempo, recalcitrante di fronte alle richieste di ascesi mondana, di una vita razionale e “lucente”, imposte dal Super-Io) e l’essere rapito dalla naturalezza della natura (rimanendo, nel contempo, recalcitrante di fronte alla prospettiva del Nirvana, di un annientamento “vegetale” o “minerale” della volontà e dei desideri, di una rinuncia, cioè, alla propria tensione produttiva e plastica).

Da qui ha origine l’atteggiamento critico e sarcastico nei confronti del cristianesimo e del suo progetto velleitario di voler “disincarnare” l’uomo. Ma essa non ha luogo per contrapporvi l’ideale estetico e “orfico” di una vita edonistica, sensuale, ludica, solare, che un certo clichè letterario del Nord-Europa ha sempre proiettato nostalgicamente verso i lidi del Mediterraneo (si pensi ad a Soleil et Chair di Rimbaud), dimenticando, invece, a detta dello stesso Valèry, quale stupefacente “macchina per fare civiltà” sia stato il Mediterraneo, nonché fucina di quell’inquietudine onnivora che appartiene alla fisiologia dell’uomo moderno.

Lo scopo di Totaro-Ziella è invece di rivendicare il “dissidio” eterno dell’uomo, l’Abgrund multiforme della psiche umana:

 

Uomo puro

 

Quell’uomo che cerco

è venuto duemila anni fa

ma ha fatto fiasco.

 

Anche se depuro i miei istinti

anche se cristallizzo il mio essere

ho la profondità di un mistero.

 

In questa bara d’uomo

sepolto come un gesucristo

aspetto la mia resurrezione.

(da: Solamente questo paese)

 

Randagio

 

(...)

Mi ritrovo a sera

rivelato

una coscienza notturna

 

uomo.

(da: Solamente questo paese)

 

Ma l’irrisione, anche amara e sofferta, dell’utopia cristiana dell’“uomo puro”, della morale del perfezionamento, in nome di quell’“umano, troppo umano”, che lo stesso folklore accondiscendeva con i suoi retaggi vitalistici e pagani, non impedisce al poeta di prendere disgustato le distanze dalla secolarizzazione volgare e ipocrita che accompagna il trionfo della piccola borghesia e del consumismo. Ed ecco, così, la notte di Natale rovesciarsi nella “notte per gozzovigliare con Giuda”:

 

(...)

Ma chi t’aspetta più

Cosa sei venuto a fare

Non vedi che hai guastato la nostra festa

La nostra festa così sacra

Così egoistica

Così patetica

Che facciamo morire anche i poveri.

Non ti accorgi che sei fuori tempo

Che il nostro dio è la Macchina

E il nostro santo il Ventisette.

...

Questa notte abbiamo gozzovigliato

Ci siamo fatti uscire il vino a torrentaccio

Per brindare ancora una volta

Con queste facce da betlemme

Al nostro compare Giuda.

 

(da: Autocritica di un uomo)

 

Le polivalenze del Paesuomo

Sarebbe facile e apparentemente incontrovertibile interpretare l’immagine del “paesuomo” come il risvolto poetico di un feticismo “contadino” delle radici, della terra, come la condensazione estetica di una propensione ideologica al ruralismo. Ora che la pervasività della retorica meridionalistica e, con essa, l’abitudine manichea a dividere tra “arcaicizzanti” e “modernizzanti”, “romantici” e “illuministi”, sono sensibilmente incrinate, si comprende quanto sarebbe superficiale indulgere in questa stereotipia esegetica a proposito della poesia di Totaro-Ziella.

A guardar bene, il paesuomo non rimane rinserrato nella sua dimora terrestre, ma leva lo sguardo “amorosamente” all’infinito del cielo e del mare, cercando una “misura” e una “pienezza” esistenziali (si vedano i componimenti raccolti nella sezione Quasi un madrigale di tutte le opere). Ma se il cielo e il mare tracciano una linea di un cammino verso l’indistinto, il polimorfo e l’illimitato, il paesuomo sta lì a ricordarci il bisogno insopprimibile di ridiscendere a valle o di riportarsi nelle zone interne, per ritrovare il calore della comunità, la certezza di abitudini e consuetudini, la possibilità di una comunicazione immediata e intima.

Il paesuomo è, cioè, il modo attraverso il quale s’incarna, si rende particolare e naturale (a partire dal medium del linguaggio quotidiano) quella condizione di “umanità” che la civiltà contadina, nelle sue manifestazioni folkloriche, ci ha insegnato essere sempre un punto d’arrivo e mai di partenza e che non può sopravvivere allo stato puro, universale, “lucente” (non era forse anche questa, d’altronde, la critica più pungente di Hegel all’etica razionale kantiana e alla presunzione “livellatrice” della modernità?). La stessa tenacia con cui le culture e le tradizioni locali resistono all’espansione “spaesante” del Global Village è la più chiara conferma della verità metastorica del paesuomo, perché, come dice un noto antropologo americano, è nella dimensione locale che s’incontra l’uomo “faccia a faccia”.

D’altra parte, se si assumesse univocamente una siffatta interpretazione, si rischierebbe di far velo sulla valenza polemico-simbolica con cui Totaro-Ziella propone il concetto di paesuomo come chiave di decifrazione della sua poetica ovvero come il “luogo” del suo “poema unico” (per riprendere un’immagine di Heidegger riferita al poeta austriaco Gorg Trakl, in uno dei saggi di Unterwegs zur Sprache). Sebbene, infatti, la metafora del paesuomo sia utilizzabile nell’ambito del discorso filosofico attuale che ripensa criticamente il Moderno e che segue non a caso alla crisi dell’industrialismo e delle “grandi narrazioni” ideologiche che collimavano in un’idea escatologica, “progressiva” e astratta della storia e dell’uomo; essa conserva, con Spaesamento, il suo significato ortodossamente polemico contro la ybris modernizzatrice che massifica, anonimizza, omogeneizza, deterritorializza, deculturalizza.

Donde l’insistenza di Totaro-Ziella nel riguardare affettivamente al “paese” che ha segnato la sua infanzia e il rifiuto istintivo a rimettere in comunicazione passato e presente, modernità e tradizione. Qui incontriamo, forse, il “limite” (nel senso letterale) della poesia totaro-zielliana, il confine al di là del quale sarebbe vano attenderlo:

 

Finche sarò petto d’amore e di morti

Io tornerò sempre a paesuomo sconsolato

Con le ginocchia infangate e le braccia piegate

A cigliare quest’uomo di meraviglia

Che si germoglia alla radice e alla polvere

Per seminarmi al tempo della luna

Nell’ardore del fuoco e della cenere

A incantare quest’uomo di storie

Nei solchi più profondi e nei ventri più pieni

Che hanno sradicato la lingua e il cervello

Per interrarmi il disumano e il disamore

A fiorire quest’uomo d’innocenza

Che prende la cicala e la canna

Per acquietarmi la tristizia e lo scontento

Nello spavento e nello spaesamento.

(da: Spaesamento)

 

La nostalgia del linguaggio

Se, però, fin qui abbiamo saputo avvicinarci all’intensità e alla profondità del Nacherleben totaro-zielliano rispetto alla civiltà contadina (nel senso diltheyiano della possibilità “attuale” di rivivere/ricordare un’epoca passata), tutto questo non può risospingerci a pensare ancora una volta che il paesuomo sia il sintomo di una nostalgia “politica”, ma semmai della nostalgia per un modo di “dire” la verità tragica dell’uomo e la sua precarietà culturale per gli “uomini della speranza” che la sfidavano, analoga a quella che i romantici tedeschi provavano per gli eroi della tragedia greca e il mondo classico “abitato” dagli dèi.

Tant’è che la stessa “costruzione” poetica di Totaro-Ziella (nel senso formalistico che Sklovskij dà al termine) si dispiega nella mimesi della struttura linguistica della cultura orale folklorica. Quest’operazione di mimesi culmina, per parafrasare il Roland Barthes degli Essais critiques, in una “coscienza paradigmatica del segno” estremamente sviluppata e raffinata. Il significato è sempre subordinato alla ricerca di collegamenti virtuali tra significanti, allo stesso tempo affini e distinti, esplorati e combinati su diversi piani: fonetico, semantico, sintattico, fino a coinvolgere la struttura globale dell’opera, oltre che a informare l’ars versificandi di Totaro-Ziella.

Quel che a questo punto dà a pensare, è l’incoerenza tra i contenuti profondi e simbolici della cultura folklorica (e, quindi, della poesia di Pasquale Totaro-Ziella) e il privilegiamento della dimensione paradigmatica del linguaggio con i suoi risvolti immaginativi necessariamente “formali” (ripetizioni, parallelismi, omologie).

Certamente, questa “letterarietà” del folklore è in parte il risultato di un processo spontaneo, “difensivo”, connesso alla consapevolezza della fragilità del proprio strumento di circolazione e trasmissione: l’oralità. Ma è, forse, soprattutto la maniera di esorcizzare, nell’atto stesso il cui la si nomina, quell’alterità negativa che gli uomini incontrano nell’edificazione e preservazione della condizione “umana” e “civile”: l’istinto indomito, la morte, e, soprattutto, l’assenza di Parola, giacché solo il linguaggio rende possibile agli uomini riconoscersi come tali, abitare la terra, lottare insieme per la vita, solidarizzare con la morte.

 

Francesco Bellusci       

 

 

 

 

Recensione a: A canne a pietre a posti fatati di Pasquale Totaro-Ziella

A dieci anni dalla pubblicazione e in occasione dell'edizione integrale

 

Accade che di fronte ai segni confusi della modernità, alle incertezze e ai disagi che provocano i mutamenti repentini di valori, gesti e conoscenze, il poeta rifluisce nelle pieghe del tempo e della memoria, insegue il mito dell'armonia recisa, tramuta il passato in èpos, vagheggia una 'età dell'oro' perduta. Balzano alla mente Lucrezio, Virgilio e la natura abbandonata e inviolata, Ariosto e i cavalieri e le dame, Leopardi e la 'poesia ingenua' degli antichi, Holderlin e la Grecia classica, Pasolini e la giovinezza di Casarsa. Non è una corrente, ma un atteggiamento, un'inflessione dell'esperienza poetica. Aggiungerei, allora, Totaro-Ziella e la fanciullezza, la fanciullezza-simbolo di una civiltà umana scomparsa e di una vitalità dissipata, introvabile, di A canne a pietre a posti fatati. L'opera è, a nostro avviso, uno dei più importanti eventi della poesia italiana contemporanea e, nella fattispecie, meridionale. Nella fiumara di divertissements linguistici degli ultimi due decenni, grevi di teoresi letterarie e testuali, essa si distingue per la rara densità di storia, di vita, di lingua, che si avvicina al valore di un documento. Nel racconto torrenziale di abitudini campestri, luoghi magici, creazioni ludiche, si annida un tema cruciale: l'uomo e la vita, il farsi uomo come insenatura della vita. Gli eventi narrativi ricadono dalla superficie lucente, intimistica del ricordo, attirando su di sé l'ombra del tempo che muta, cancella. Una venatura di melanconia solca le righe di queste poesie, sin dal "Come posso scordare la mia fanciullezza" che apre i venti testi. Il poeta segue la vita dei fanciulli nel suo farsi astratto e concreto. Si 'astrae? nelle leggende, nelle favole popolari, nelle superstizioni che popolano l'immaginazione dei fanciulli, alimentando sogni e paure; si fa concreta nel rapporto osmotico, totemico con oggetti, animali, fenomeni naturali.

Le "canne" e "pietre" sono gli strumenti di una appropriazione continua della vita; di una vita che, come il fiume eracliteo, non conosce argini, non si rifrange mai. Ma contemplando la libellula negli acquitrini e inseguendo la farfalla, i fanciulli si aprono allo sfinimento dei sentimenti e ad una crescente consapevolezza della morte. La vita si arena, perde la sua floridezza. Libellula e farfalla, simboli di amore e morte, rappresentano una sorta di "stadio dello specchio" di lacaniana memoria, il momento in cui si coglie la propria identità. Ci si scopre uomini quando la paura dell'infelicità e la coscienza della morte stendono un velo di inessenzialità sulla vita. Alla 'religione' panteistica, animistica dei fanciulli fa seguito l'inattingibilità metafisica di Dio, misura della finitezza dell'uomo e di un mondo insensato: "Quando un fanciullo muore/un uomo nasce nella sua croce".

Molte poesie della sezione "Lettera per l'uomo" testimoniano un rapporto complesso, tormentato con l'"antropologia" cristiana.

Così l'amore che abita ineluttabilmente nelle regioni insabbiate della memoria, riproduce l'originaria dissonanza tra vita e morte, è come investito dalla morte stessa: "Come sei stanco amore passato/solo nel cuore la morte ti canta/adesso seppellisci quegli occhi/negli estranei porti lontani/che i tramonti si fanno albe" (Quasi un madrigale, da Solamente questo paese). Forse vi è un pessimismo di fondo nell'opera di Totaro-Ziella. Non siamo, comunque, di fronte al pessimismo di specie leopardiana, quel pessimismo che insorge nell'osservare il movimento contraddittorio della vita che si realizza nella creazione di forme e nel loro trapassare, vanificando e rivelando l'illusorietà della morale, della religione, delle opere umane. Se pessimismo vi è, esso discende da quella logica assurda, da quella "anomalia" intrinseca alla vita, per la quale la coscienza della morte, che è pur sempre un "dato" della vita, ci espropria della vita stessa, imponendoci la ricerca di un senso che non può esserci. I due pessimismi, l'uno di fattezza storicistica, l'altro fenomenologico-esistenziale, si incontrano, tuttavia, nel risultato: la vita si riduce al nulla o tutt'al più ad un meccanicismo. E' probabile che le prossime opere di Totaro-Ziella varchino più decisamente le soglie di questo strisciante nichilismo.

 

Francesco Bellusci      

 

 

 

 

Il poeta: animale simbolico

 

L'estetica della Sehnsucht

La fisionomia letteraria di Pasquale Totaro-Ziella ha radici complesse, avviluppate. Una operazione critica che tendesse a "regionalizzarne" la produzione, come sovente accade, se da un lato renderebbe ragione di un ineliminabile sostrato sociale e linguistico, dall'altro si rivelerebbe angusta per cogliere richiami culturali profondi, lo spessore fenomenologico del suo universo poetico. L'insecuritas dell'uomo moderno, la sua presunzione prometeica di abolire la propria storicità, di sradicarsi dal passato e dalle tradizioni, la sua frammentazione etico-politica, la sua inconsistenza, evanescenza ontologica (1) concorrono a definire la matrice ideologica di una poesia che, nel contempo, guarda a se stessa, alla sua fattualità, alle sue potenzialità discorsive, al suo valore empirico.

'Poesia' e 'uomo': Totaro-Ziella avverte la complementarietà storica e radicale dei due termini, ma anche l'impossibilità di ritrascriverla nella funzione edificante, catartica di stagioni letterarie ormai trapassate. Un tempo, infatti, il poeta ricomponeva le schegge della fragile e vulnerabile identità dell'uomo, rinsaldandola in una visione morale del mondo che raggirasse le insidie dell'infelicità o delle illusioni. E, tuttavia, sarebbe erroneo considerare il poeta lucano un neodecadente o ravvisarvi suggestioni montaliane: gli è estraneo il sogno di una lirica pura, la fissazione individualistica e sublimante di una condizione esistenziale, la costruzione di un microcosmo stilisticamente compiuto, la deprivazione della 'parola' di ogni significazione storica, sociale. Per Totaro-Ziella la poesia (ma potremmo dire l''estetico' in generale) è apertura al mondo e ai suoi significati, è tensione ermeneutica, colloquio tra presente e passato, il "luogo" di quell'esperienza essenziale che è l'interrogazione di se stesso e dell'uomo.

Ma il punto sta proprio qui (o meglio, a questo risultato approda la ricerca poetica di Totaro-Ziella), nella scoperta "autocritica" dell'improponibilità attuale della poesia come modalità della conoscenza umana e del suo rappresentarsi in un reticolo sensibile e immaginativo, del condensarsi, se il paradosso concettuale è consentito, in una energia ludica, simbolica, polisemica. Un'idea dinamica di libertà, di creatività allora emerge progressivamente, emancipandosi da un iniziale orientamento pragmatico, 'umanistico', esistenzialistico, nel segno di un raffinamento della profonda vocazione romantica di Totaro-Ziella (la genesi e la forma delle ultime sillogi: Corale accorato corale e Clena, attesterebbero questa linea di svolgimento della poetica). La sottile e complessa dialettica uomo/poeta che sostanzia l'opera del poeta si chiarifica, così, nella misura in cui Totaro-Ziella prende consapevolezza del fatto che per restare poeta, deve rinunciare a farsi uomo. Ma questo, dicevamo, è un dato della sensibilità moderna, è una distorsione che "abita" nell'uomo moderno. Come le due facce della stessa medaglia, l'uomo moderno non fa la sua comparsa solo con il famoso "dubbio" cartesiano, riconvertito surrettiziamente nella certezza dogmatica di essere soggetto mente e ordine del mondo, ma anche e soprattutto con l'eresia irrazionalistica, con la Sehnsucht romantica. Sehnsucht, letteralmente "dipendenza dal sentire", il desiderio inappagabile di un quid indeterminato, sottratto al pensiero, cavità sentimentale e onirica, un disagio interiore che dischiude la coscienza di sé come essere-nel-mondo, come sentirsi-già-immersi nell'esperienza e nel linguaggio. E tuttavia, la poesia nella sua tensione creativa, nel suo poièin che è operare metaforico e fantastico, è superamento di questo malessere, occasione di evasione, scava un vuoto intorno a sé, è, come si diceva nel Settecento, "arte bella"("Io nel pensier mi fingo" scriveva Leopardi, dove 'fingo' si riconnette all'area semantica del fingere latino. La scienza moderna, ponendosi come criterio assoluto di spiegazione della realtà, come condizione necessaria e univoca di leggibilità del mondo, mette in crisi la teoria classica dell'arte come mimesis, finzione verosimile, realtà simbolizzata secondo il canone dell'archetipicità delle situazioni umane e della poesia come imitazione verbale della natura. Interviene nei processi formativi ed estetici dell'arte occidentale, nonché nei modi di categorizzarla (pensiamo alle riflessioni di Kant, Schiller), un mutamento epocale, una vera e propria "rottura epistemologica" che farà parlare Hegel di "morte dell'arte". Se l'arte (e la poesia è assunta come emblematica) non ci consegna più la rappresentazione familiare, intemporale di un Oreste o un Don Chisciotte, ma diventa commozione viscerale, densità sentimentale e confidenziale, autobiografia interiore, realtà idealizzata, essa non è più arte, ne denota semmai il superamento.

A scandalizzare non è la 'soggettività' del poeta, che pure aveva il suo riconoscimento nell'ambito di una "legalità" compositiva, quanto il profilarsi inedito e violento di una frattura fra 'senso' e 'sapere' (ma potremmo dire anche, ottocentescamente, 'sentimento' e 'ragione') e il conseguente problema della socializzazione del nuovo oggetto estetico, della peculiare — per dirla sulla base dell'attuale teoria della comunicazione — funzione emotiva che riveste. Il poeta moderno reagisce alla saturazione scientifica della realtà, espande o dirada il sapere delle cose di senso, le rende ipertrofiche, dissonanti, magmatiche, manipolando e potenziando la struttura fonica, semantica, lessicale della parola. Precedentemente senso e sapere, poesia e scienza facevano tutt'uno, commisurandosi nella rappresentazione edificante dei fondamenti esistenziali dell'uomo: Lucrezio e Dante sono sotto quest'aspetto altamente emblematici, anche se sullo sfondo non agisce la Fisica moderna, ma quella aristotelica o epicurea. Quando questa separazione di senso e sapere, di vitalità e razionalità, si fa interna alla poesia, essa si problematizza sul piano della felicità e integrità dell'uomo: in questo senso il 'nucleo poetico' di Totaro-Ziella non è lontano da quello di un Foscolo o di un Leopardi, non a caso scevri dal narcisismo romantico dei tedeschi.

Ma lungo il suo percorso poetico, lo ripetiamo, Totaro-Ziella tende a riscattarsi (o più probabilmente è una tensione irrisolta) da questa problematica per la sussistenza stessa della poesia secondo lo statuto romantico. Una strana anfibologia prende corpo nella poetica di Totaro-Ziella: se l'uomo pretende di essere solo razionalità, non può dimenticare la condizione sentimentale della sua vita senza andare incontro ad una mancanza di senso, all'incomunicabilità, alla frustrazione, all'alienazione e allora si rivela indispensabile una dimensione 'estetica' dell'esistenza, l'espressione poetica; ma l'uomo può restare soprattutto, catturato dal sentimento, senza pervenire alla catarsi della conoscenza, dei contrasti interiori, del dialettico "ritorno in sé", rinchiudendosi nella Sehnsucht senza la possibilità di uscire dalla poesia. Così in Autocritica di un uomo (1981), Totaro-Ziella mette a nudo la sua natura di homo poeticus, di animale simbolico, di unità vuota di plurivoche e plurisignificanti dimensioni. Umanità, animalità, vegetalità, mineralità designano condizioni umane (già metaforizzate del resto) che nella attività poetica restano variabili indipendenti, mai fuse o suscettibili di adesioni univoche.

 

Anche se depuro i miei istinti

anche se cristallizzo il mio essere

ho la profondità di un mistero.

 

I versi si collocano in una poesia che ironizza sulla scelta religiosa, sull'ipotesi ascetica che trova un riscontro confermativo in Autocritica di un uomo:

 

Potrei anche adorarmi a un cristo disumano

e addolorarmi profanato a un sacrario

alle labbra spirituate trasanto alle litanie

so già che sarei sconfessato alla religione.

 

E accanto alla religiosità, secondo il principio medesimo di inclusione/esclusione, compaiono l'erotismo, il sensismo, il razionalismo, il naturalismo nella duplice e ambivalente modalità di piani esistenziali e habitus letterari, quasi in una prospettiva meta-poetica in cui vita e poesia si presentano già confuse, e che abolisce il tempo. Ritorna qui il motivo della Sehnsucht, di una poetica precettiva e sentimentale, nella sua essenzialità programmatica, teorica, nel momento in cui l'essere del poeta sfugge a qualsiasi determinazione o oggettivazione, secondo una esigenza tipica della razionalità scientifica, dilatandosi a dismisura in tutta la sua ricchezza storica, evocativa, linguistica. E' interessante rilevare come le articolazioni poetiche della figura del Verba, delineata da Totaro-Ziella negli Appunti di poetica, convergono nelle celebri immagini heideggerriane del poeta come pastore dell'essere e della poesia come ascolto dell'essere. In Solamente questo paese l'io poetico si spazializza, si proietta nella figura totalizzante del Paesuomo, la piazza, le case, le strade, gli elementi della natura sono cifre dell'essere; il poeta fa parlare i luoghi, la loro memoria:

 

Forafosso

 

 

In queste sporte di erba ti sei immiserito

appena spaso e stravolto in fila ciarliero.

 

A tutte queste schiantate stinte di nero

avvampi bestemmie alle vene stentate del tuo cuore

affannate a queste mani rivoltate di sangue

si rivendicano altere alla storia matriarcale.

E rancori pieni ai foraterra umiliati di serpi

smemori ai tuoi archicantine affumicate

che hanno scordato alle mezzelune rami d'ulivo

e coltelli di vino sgrottati alla giornata.

 

Nemmeno tu Forafosso affamato di vendette

mi tolleri l'orecchio insensato alla tua gola.

T'ho ricalcato alla tua mano di foraterra

stasera di sconsolazioni il mio palmo esatto.

 

Tra serte d'agli e di peperoni forti

non ti so odorare paese disumano di pietra.

 

La Sehnsucht di Totaro-Ziella si precisa come senso e contrappunto alla consumazione, all'incomunicabilità, che in ragione del rapporto osmotico tra uomo e paese, assume i caratteri di franamento, di rarefazione, di friabilità. La forza che spinge il poeta all'investigazione-inchiesta di quel singolare territorio, che è l'uomo, è l'amore, esacerbato sino al feticismo, al parossismo, per il suo imbattersi in un uomo arido, annichilito nell'acquiescenza positivistica alla realtà, "insensibile", "indolente", "impassibile", "pietrificato", "disumano". In questa eromachia moderna tra uomo e poeta si manifesta un retaggio dantesco (accertato che Dante ha un posto importante, se non alla stregua di un Ungaretti o di un Prévert, nella formazione poetica di Totaro-Ziella). Lì dove, infatti, Dante si disincaglia dalla razionalizzazione tomistica e in generale medievale dell'opera d'arte, egli metafisicizza l'amore, ne fa un'energia cosmica, la fonte di bellezza spirituale, addirittura l'afflato della scrittura poetica stessa, la conditio sine qua non di ogni esperienza estetica, come ci suggeriscono i famosi versi del Paradiso (XIII, 79-80). Ecco riaffiorare nitido, levigato l'animus romantico di Totaro-Ziella: l'amore è il contraltare alla figura scabra ed esangue del Paesuomo, è allucinazione dell'Altro (la donna), densità comunicativa, divinità immanente, rigoglio panteistico, è la Parola stessa:

 

Sei l'acqua

la farfalla

sei il petalo da rosa

sei la dorata

la levigata

sei la terra

sei la luna da sogno

sei la nuvola

la pietra da fiume

sei l'amore vellutata.

 

Sei la felice

la gioiosa

sei il sogno fatto

gli occhi

sei la vita

sei la colomba odorosa

sei il tormento

l'attesa

sei l'assenza disastrosa

sei l'amore mio disperato.

 

Sei il fiore

la montagna

sei il pianto pietoso

sei l'erba

il cielo

sei la presenza amorosa

sei il vento

l'arena

sei il sole ardente

sei il canto da cuore.

 

Sei l'immenso

la dea

sei la danza voluttuosa

sei l'eternità

la foglia

sei la morte preziosa

sei la cenere

l'alloro

sei segni in amore

sei la verginità perduta.

 

Sei la vita

il fiume

sei la barbara vandalosa

sei il nido

la polvere

sei l'amante focosa

sei l'azzurro

il dio

sei l'immagine dominante

sei l'amore.

 

L'anacoluto della vita

Il mito antropomorfico della Poetica classica, la compatezza morale e marmorea del suo uomo, si dissolvono nella poetica della Sehnsucht, la quale altro non è che il correlato della frantumazione di una cultura antropocentrica, del dissipamento di una partecipazione mistica, sentimentale al mondo materiale, di un universo simbolico ed orale: è questo il modo sostanziale in cui Totaro-Ziella avverte e trascrive il tramonto della civiltà contadina lucana e la sua poesia attinge la possibilità nell'assenza, in un diaframma storico-temporale, nel chiaroscuro di un crepuscolo umano. L'uomo è oggi un simulacro, pulviscolo, flusso molecolare, è un essere devitalizzato, reificato:

 

Ci siamo fusi con coscienza tecnologica.

 

Ed ecco l'uomo nostro

fucinato

ricotto

profilato

temprato

rinvenuto

affilato

da uomo d'acciaio.

 

La dimensione umana del poeta non è plastica, ma vitalistica ( in questo senso va letta la dichiarazione di a/poli-morfismo contenuta in Autocritica di un uomo), si apre al senso, alla storicità dell'esistenza, alla iscrizione diacronica di questa nella lingua, nell'oralità, non ad una razionalità storica (che sarebbe comunque metastorica) ma al fiume della vita, al ristagno dei sogni e delle magie, agli intrecci umani, alle espressioni di forza e di debolezza, alla fascinazione simbolica. Ecco dischiudersi il mondo dell'infanzia, l'ambiente sociale e materiale che lo circonda, di A canne a pietre a posti fatati. Il corpo del poeta è impresso di storia, è stratificazione della memoria (di memoria che contemporaneamente devasta, erode il corpo non trovando un riscontro nella realtà, come ci suggeriscono i versi di Solamente questo paese), sinergia di sentimenti, istinti, ricordi, di lotte, la sua ontogenesi è già filogenesi; quando il corpo così materiato si congiunge alla Parola originaria, sfocia nel linguaggio, diventa poesia, che si configura come esperienza più autentica per Nacherleben (rivivere/ricordare) il vissuto infantile, il passato. Ha qui luogo quell'eruzione e dissociazione dell'io poetico che Totaro-Ziella confessa retrospettivamente in Autocritica di un uomo. La mimica bellica dei fanciulli in lotta, le armi forgiate, il dispiegamento del mondo vegetale in tutta la sua ricchezza cromatica, le medicine naturali, le abitudini alimentari religiosamente coltivate, la mitologia zoologica, lo spirito aggregativo e amalgamato, l'inventività ludica, la voce del turbamento nel silenzio del sesso, collettivizzato nella scoperta del rito autoerotico, la riconversione simbolica della natura: il poeta teatralizza il Lebenswelt (mondo vitale) dell'infanzia e del suo sfondo popolare contadino, fluidifica una vita arenata ormai nelle secche della ratio

etnologica dell'uomo contemporaneo. Indubbia la dovizia simbologica e la relativa pregnanza antropologica: il sole designa gli organi sessuali, le trecce sciolte e la farfalla indicano la morte, e così via:

 

Alla Vena Sciarappa

 

Come posso scordare la mia fanciullezza

con i miei compagni mutavamo alla Vena Sciarappa

alle sottane alzate la voce grossa alle vergogne

nascondevamo allo sguardo scoperto le voglie ai pioppi

alla terra scoprivamo la gente al ginepraio.

Sgranavamo alle notti di cenere il cuore alle granate

alla canna travata ricontavamo gli alveari al sonno

sputavamo alla bocca il seme seccato ai giorni corti

alle libellule sognavamo gli amori agli acquitrini

ritornavamo ai grandi le storie sentite al perastro.

Alle gambe allargate voltavamo la faccia all'arco maligno

guardavamo sfrontati al lampo il segno sacrilego al cielo

alla creta impastavamo la mano fattiva alla paglia

innalzavamo alle casette accannate i muri a piombo

all'ira simulata prendevamo i santi a bestemmie.

Seguivamo ai giri indifferenti la posa alla megera

al morto prossimo sapevamo la casa annerata al volo

spiavamo al trapasso l'anima all'ultimo sospiro

a cannate dai nostri tetti cacciavamo le ali alla morte

i morti nostri non erano mai pronti alle trecce sciolte.

 

L'odissea del fanciullo giunge all'epilogo. Egli è irretito nell'estasi, è rapito dal sogno, dal vago (ricompare la Sehnsucht), si contorce nella riflessione, incontra un'oggettività non più manipolabile con l'uso delle canne e delle pietre, inafferrabile nella sua 'trascendenza': il fanciullo scopre, infatti, il sentimento d'amore e l'ineluttabilità della morte. Il pensiero della morte irrompe alla coscienza spezzando come un anacoluto il fraseggio denso e scorrevole. Morte e vita si stringono in una assurda tautologia: il poeta rifiuta le rassicurazioni materialistiche dell'uomo moderno, il disincantamento di weberiana memoria, ma anche la speranza escatologica di una continuità spirituale, dietro cui si annida la chimera della verità religiosa (e la divergenza è tanto con una forma mentis della civiltà contadina, come una poetica delle illusioni di ascendenza foscoliana), e non rinuncia a vedere la morte nella filigrana della vita:

 

(...)

Mia madre inserta fichi spaccati alla Speranza

di trovarmi una vita perfetta alla sua

e non s'accorge che m'avvicina la morte.

(...)

 

La madre del poeta non s'avvede, offuscata com'è dalla speranza, della contemporaneità della morte alla vita, di quella tendenza costitutiva e autentica della vita che è l'essere-per-la-morte. Al senso vitalistico, organico, memoriale del corpo fa seguito quello tanatologico della filiazione:

 

(...)

Alla tua mente padre a che serve questo figlio

m'hai inventato padre ai giorni sudati

nessuno mi scoprirà padre alla tua vita

ai tuoi piccoli occhi ho appeso sconfitte.

Quella sera d'amore ti ha mortificato questo figlio.

Ti volevo somigliare fino alla goccia

alla mia bocca mi ritrovo la tua gola

mi sorprendo al tuo gesto inventato

a questa vita smemorata mi sento tua carne

alle tue braccia m'arrendo mortificato alla morte.

 

In quanto evento violento e incorporeo, forza immateriale e alienante nel ricordo, anche l'amore contiene la morte. L'amore di Totaro-Ziella ci appare fortemente dialettizzato come alternanza o concomitanza di unificazione e separazione, leggerezza e oppressione, epifania di felicità e "schiantazione"; pure quando erompe in corporeità "selvaggia", si sessualizza, si deve constatare la labilità dell'acme, l'impossibilità di un possesso totale e imperituro, la vocazione del corpo all'obsolescenza, alla morte. La radice del discorso poetico trova nuova linfa nell'esemplificazione dell'amore come tensione di eros e thanatos, desiderio e assenza, come Sehnsucht. La verità dell'uomo (ciò che certamente saremo) è la morte, se una verità il poeta ha ancora l'obbligo di comunicarci e non piuttosto questa verità, la demistificazione degli idola, la spoliazione delle infinite placente metafisiche, ideologiche o positivistiche in cui l'uomo per secoli si è avvolto, vorremmo che il poeta ci tenesse lontana. Come rilevò Heidegger, "verità", dal greco alètheia, significa "non-nascondimento", e il conflitto moderno tra uomo e poeta, tra l'uomo che ammanta e il poeta che spia sotto la coltre degli stratagemmi umani, è la lotta tra la verità e illusione, tra coraggio e oblio. Strana e singolare evoluzione della modernità, davvero questa, per la quale, non il poeta, ma l'uomo comune, nel caso della morte, fa letteratura, dalle cui ceneri si leva la sconsolazione terrificante, ammaliante del poeta.

 

Il vuoto della parola

Nello Jone Platone ratifica l'inaccessibilità della poesia divinizzando l'atto creativo che la origine (così come nella Repubblica, la stigmatizza in quanto corruttrice delle virtù politiche, esercizio specioso, fatuo e mistificante, inaugurando un atteggiamento ambivalente di ammirazione e ostilità verso la poesia, che ha attraversato i secoli). Agli inizi del secolo, i celebri Circoli linguistici di Praga e di Copenaghen hanno avviato, sulla base degli studi di strutturale, una vera e propria "secolarizzazione" del manufatto poetico, svestendolo della fascinazione creativa. La ricezione della lezione strutturalistica è ampiamente rinvenibile nei testi di Totaro-Ziella come dimensione regolatrice dell'attività poetica e nel senso marcato di una "competenza" del poeta. Ad esempio, il principio dello "straniamento", che abbiamo già, in parte, rintracciato nella dimensione simbolizzatrice (e che consiste in un procedimento di sottrazione del linguaggio all'automatizzazione/banalizzazione quotidiana), si radicalizza, nelle poesie di A canne a pietre a posti fatati, nella forma di un ribaltamento della realtà:

 

Come posso scordare la mia fanciullezza

con i miei compagni ruotavamo ai cerchioni

ai vicoli scavati la giornata dannati alla sete.

Scappavamo alle madri sgolate i gridi alle chiamate

a lucciole rischiaravamo le mani chiuse al volo

misuravamo ai piedi di rospi la luna alle stelle

alla brachetta strappavamo i bottoni alla frenesia.

(...)

 

L'ideale del formalismo russo dello zaum , di un'espressività transrazionale è decisamente applicato negli aforismi di Autocritica di un uomo:

 

Potrei anche annibbiarmi al tarlo del pensiero

e incechire la cerebrazione alla mostralità

al nido razionale a idra razziale

so già il sibilo alla follia sfrenato.

 

L'alogismo e la figuratività non oggettuale (ma si tratta di una intenzionale virulenza iconoclastica) di queste poesie costituiscono il correlato della mancanza di una soggettività significante univoca, in un mulinello di plenitudo/vacuitas che caratterizzerebbe la condizione umana del poeta. Proprio, infatti, nella dissoluzione di ogni ipotesi semantica (ovvero di ogni ipotesi esistenziale) il poeta attua la sussunzione dell'intero reale, contrapponendosi all'atteggiamento di intellettualizzazione, parcellizzazione, distruttività del reale dell'uomo moderno. Nessun luogo o possibilità della prassi poetica sfugge alla frequentazione di Totaro-Ziella: il poeta è un animale simbolico onnivoro, effettua prelievi in tutti i territori della lingua, formalizzata, dialettale o popolare, imprimendo, a volte, persino una forzatura neologistica. La parola di Totaro-Ziella si muove liberamente nella storia, percorre il tempo in tutte le direzioni, attingendo il suo paludamento, la sua significazione, incontrando e incorporando il simbolo. Lo statuto del simbolo per Hegel, nonché la condizione della sua artisticità, è dato da un'ambiguità insondabile che stringe la forma e il contenuto, il significante e il significato del simbolo stesso (il leone denota il coraggio, ma avrebbe potuto simboleggiare la forza o qualcos'altro, mentre la bandiera indica una nazione, senza alcun legame reciproco, perché così abbiamo convenzionalmente stabilito e, dunque, è un segno, non un simbolo). Quest'enigmaticità del simbolo, che affonda nelle maglie vitali della cultura popolare, e la riconversione poetica di essa nella similitudine, nella metafora, interessa alla sensibilità poetica di Totaro-Ziella: si dispiega, così, il caleidoscopio simbolico di A canne a pietre a posti fatati, la "lingua di vipera" come sintomo di ira; le pallide rigature di sole nel cielo durante la pioggia associate all'accoppiamento delle volpi; le lucertole con due code auspici di una fortuna immensa e, dunque, da custodire gelosamente nell'involucro delle canne e infornandole; gli stratagemmi pedagogici del "Mommo" e dello "sckorciauagnuni" per ammansire i bambini. Nell'Estetica Hegel, adducendo l'interrogarsi del bambino sui cerchi prodotti dall'impatto del sasso con l'acqua dello stagno e il modo di agghindarsi delle donne orientali, dimostra come la prima organizzazione della realtà sia estetica, come l'uomo meravigliato dalle cose naturali conferisce loro un senso, le simbolizza, le rappresenta. Analogamente la fenomenologia vitale dei fanciulli di A canne a pietre a posti fatati si evolve secondo un distacco progressivo da un rapporto immediato, strumentale (l'uso delle "canne" e delle "pietre"), feticistico con le cose naturali sino a concepire la possibilità della dissolvenza fabulosa del mondo naturale (i "posti fatati"), del nulla, della morte e a scoprire, per contrasto, diventandone coscienti, la propria "natura" spirituale, sensibile, onirica, la propria tendenza a significare il mondo. La fanciullezza si trasfigura nell'immaginario del poeta come uno stadio di pre-arte, come la sua gestazione, la gestazione della poesia. Il movimento che segue la parola di Totaro-Ziella è il movimento del poeta che si mira nell'altro termine di se stesso (l'infanzia, la cultura contadina), che si protende all'ascolto di voci lontane, negli anfratti e nei vicoli della memoria, che interroga i segni del suo corpo, che approda in un'ansa riconoscibile del tempo, per comprendere cosa sia, ritrovare il suo volto. Ma se il senso di questa parola non è più visibile nella sfera dei gesti e dei significati attuali (se la "farfalla" non è più il simbolo della morte), se il suo principio di decifrazione risale ad una lingua inesistente, diventando autoenunciativa, allora una minaccia di vuoto incombe su di essa. Quasi avvertendo il contraccolpo 'stilistico' di questo status poetico incerto, fragile, le poesie di Totaro-Ziella, e paradigmatica in prospettiva è Clena, regrediscono, parafrasando una felice immagine di Sklovskij, ad una condizione proteiforme, in cui i versi sono "macchie sonore" che non assurgono all'espressione, ad un "linguaggio-costruzione" appagato da una accuratezza formale (il criterio di scelta della parola non è più semantico-simbolico ma fonetico, o meglio si riduce a quest'ultimo):

 

Cicala

di stridore di frenesie

e di follia

cicala.

Cicala

accecata.

 

Scimmia

di tenerezza di pazzie

e di risata

scimmia.

Scimmia

sciocca.

 

A prescindere da queste "derive", l'ombra di vuoto che accompagna la figura poetica di Totaro-Ziella tocca il cuore stesso, le fibre intime delle sue poesie, il valore delle sue motivazioni. L'uomo che cerca la sua immagine nello specchio del tempo, che dissotterra gli strati della sua lingua, l'Ulisse che nel mare della vita cerca incessantemente se stesso, il suo scopo, è già morto nel linguaggio, nelle sue viscere buie e labirintiche (oltre che nelle case, nelle vie di Solamente questo paese). La scrittura di Totaro-Ziella, nel riportare alla luce, alla parola un universo simbolico ormai dissipato, conosce il pericolo di un "grado zero", come direbbe Barthes; ma il poeta lo fronteggia, gli resiste, la sua scrittura è l'ideologia, implicitamente riscattatrice, del vuoto della parola.

 

Francesco Bellusci         

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