Pasquale
Totaro-Ziella
L’uomo alla Luce del Folklore
Abitare la terra, lottare insieme per la vita, solidarizzare contro la morte. Non è facile maneggiare una nozione complessa e controversa come è quella di “civiltà contadina”. Non solo essa incrocia la polisemia del termine civiltà (a seconda che la si intenda come uno spazio fisico-antropologico o come un’organizzazione economico-sociale o come una mentalità collettiva), ponendosi forse in attrito col rigore scientifico di tale polisemia; ma anche allorquando si tenti di aggirare il suo incerto statuto e di darne una definizione sintetica e, per così dire, strutturale, ricorrendo all’accezione etnografica che l’ipostatizza nella descrizione del complesso degli “usi e tradizioni popolari” o alla visione gramsciana del folklore come “cultura subalterna” in conflitto con la “cultura egemone”, inteso a sua volta come articolazione del più ampio conflitto di classe, essa non si rende definitivamente perspicua. La civiltà contadina rimanda piuttosto ad uno iato temporale e culturale più ampio e profondo, a un lungo capitolo della filogenesi umana, al cui interno appare custodita e drammatizzata continuamente un’interrogazione metafisica sul destino umano, la cui eco ci giunge ormai da una distanza sempre più remota e quasi mitica. E’ ciò che sembra voler suggerire l’esperienza poetica di Pasquale Totaro-Ziella, che nasce con la disposizione a raccogliere e conferire riverbero a quell’eco, attraverso un duplice atteggiamento estetico e psicologico: la descrizione sehnsuchtvoll di un mondo perduto insieme con la fanciullezza (A canne a pietre a posti fatati); l’incapacità, vissuta nevroticamente, di uscire da quel mondo accettandone il rovesciamento moderno dei valori (Spaesamento), dall’altro. Nella prima opera (Solamente questo paese), i due atteggiamenti si trovano non a caso fusi, proprio perché il poeta deve prima di tutto sperimentare la dolorosa scissione tra “paese” e “uomo”, per recuperarne il nesso simbiotico nel paesaggio memoriale della fanciullezza e ricomporne l’integrità nella figura estetica del “paesuomo”. Abitare la terra, stringere un’alleanza nella lotta per l’esistenza e la dignità, socializzare l’evento singolare della morte per farne una fonte nuova di speranza e di solidarietà: sono i temi con cui la civiltà contadina, ancor prima di rappresentare se stessa, ha appagato l’incessante ricerca di un’immagine dell’uomo nello specchio mobile del tempo e di un senso corale entro cui racchiudere il compimento del destino umano. Totaro-Ziella ci assorbe nell’Einfühlung agitata e viscerale con cui rivive questi temi, propria di chi è impaziente di recuperare e preservare una verità minacciata nel suo stesso fondamento linguistico, non mancando di metterne in luce la dissonanza “antropologica” con la modernità che sradica e isola gli individui, abolisce illusoriamente la morte e la memoria, funzionalizza il modo di vivere:
Ed ecco l’uomo nostro
Ci siamo fusi con coscienza tecnologica. Ed ecco l’uomo nostro fucinato ricotto profilato temprato rinvenuto affilato da uomo d’acciaio.
(da: Autocritica di un uomo)
L’interesse primario di Totaro-Ziella è tuttavia intimamente rivolto a quell’aspetto “riflessivo” della civiltà contadina ancora osservabile in una vasta gamma di riti folkloristici e a cui si sono accostate, in particolare, le analisi fenomenologiche di De Martino sulle “apocalissi culturali”. Nella misura in cui, infatti, il riscatto umano è incompleto e il mondo resta pervaso da dolore, penuria e morte, tutta l’“arte” teatrale e letteraria contadina si condensa nel racconto epico degli sforzi umani di civilizzazione, della condivisione di uno spazio di operosità e di moralità sociale, costantemente minacciato dalla regressione alla soddisfazione immediata delle pulsioni erotiche e aggressive. Ogni aspetto della cultura contadina sembra ruotare intorno ad una coscienza oscura e, per così dire, prescientifica del conflitto tra principio della realtà e principio del piacere, ovvero intorno alla necessità di orchestrare in ogni momento della vita la vittoria del primo, con la consapevolezza “tragica” dell’impossibilità di trascendere definitivamente l’attrazione verso il secondo. E’ significativo come siano proprio le poesie dedicate alla madre e al padre a riflettere, meglio di altre, lo stato psicologico di questa lacerazione culturale tra ordine e caos, operosità e rinuncia, eros civilizzato (la famiglia) e istinto di morte:
Mio padre
Alla tua mente padre a che serve questo figlio m’hai inventato padre ai giorni sudati nessuno mi scoprirà padre alla tua vita ai tuoi piccoli occhi ho appeso sconfitte. Quella sera d’amore t’ha mortificato tuo figlio. Ti volevo somigliare alla goccia alla mia bocca mi ritrovo la tua gola mi sorprendo al tuo gesto inventato a questa vita smemorata mi sento tua carne alle tue braccia m’arrendo mortificato.
(da: Autocritica di un uomo)
Porsia
(...) Mia madre inserta fichi spaccati alla speranza di trovarmi una vita perfetta alla sua e non s’accorge che m’avvicina la morte. (...)
(da: Solamente questo paese)
Allo stesso modo, A canne a pietre a posti fatati ci introduce appassionatamente nell’immenso armamentario “magico” allestito dalla cultura contadina per domesticare sin dalla fanciullezza la vita e la morte, lenire l’irruzione dei fantasmi interiori e assecondare il lato benigno della natura. Nella difesa e coltivazione degli spazi di “fabbricazione” del senso, contro il caos degli istinti e il vuoto della morte, risiede la possibilità di umanizzarsi:
Alla Vena Sciarappa
Come posso scordare la mia fanciullezza con i miei compagni mutavamo alla Vena Sciarappa alle sottane alzate la voce grossa alle vergogne nascondevamo allo sguardo scoperto le voglie ai pioppi alla terra scoprivamo la gente al ginepraio. Sgranavamo alle notti di cenere il cuore alle granate alla canna travata ricontavamo gli alveari al sonno sputavamo alla bocca il seme seccato ai giorni corti alle libellule sognavamo gli amori agli acquitrini ritornavamo ai grandi le storie sentite al perastro. Alle gambe allargate voltavamo la faccia all’arco maligno guardavamo sfrontati al lampo il segno sacrilego al cielo alla creta impastavamo la mano fattiva alla paglia innalzavamo alle casette accannate i muri a piombo all’ira simulata prendevamo i santi a bestemmie. Seguivamo ai giri indifferenti la posa alla megera al morto prossimo sapevamo la casa annerata al volo spiavamo al trapasso l’anima all’ultimo sospiro a cannate dai nostri tetti cacciavamo le ali alla morte i morti nostri non erano mai pronti alle trecce sciolte.
(da: A canne a pietre a posti fatati)
Dall’“umanità lucente” alla “mineralità”
Con la percezione drammatica della perenne tensione tra “ civiltà” e “natura”, tra apollineo e dionisiaco, e con la coscienza oscura delle opposte direzioni che gli istinti fondamentali di vita e di morte possono imboccare, si distende il gesto quasi titanico della cultura contadina a riassumere il senso di quella vicenda stratificata e millenaria che è l’uomo ovvero a “sciogliere” il grumo geologico, biologico e storico che l’uomo convoglia dentro di sé. Senza comprendere la maniera viscerale con cui Totaro-Ziella scopre e s’appropria di questa tensione metafisica “vissuta” all’interno della cultura contadina, rimarrebbe altresì misterioso il processo creativo che conduce alla figuratività cosmica, transrazionale ed emotiva di Autocritica di un uomo. L’“umanità lucente” e la “mineralità” simboleggiano i poli estremi dell’arco che fissa in diversi stati (umanità, animalità, vegetalità, mineralità) le possibilità ontologiche della condizione umana. Il fatto che il poeta li ripercorra a ritroso non è casuale. La tensione a sublimare gli istinti primari (sessuali e distruttivi) nell’epos della civilizzazione, con la conquista progressiva della natura esterna e con la moralizzazione della natura interna, è sempre contrastata, infatti, dalla tendenza regressiva e “inerziale” della vita organica a restaurare uno stato di cose precedente, fino a giungere allo stato di materia inanimata. Quella tendenza la cui scoperta sconvolse lo stesso Freud, portandolo ad ipotizzare suggestivamente che solo una serie di fattori esogeni condussero il giovane organismo a cercare vie indirette e diverse dal ritorno alla condizione inorganica, allo scopo di liberarsi dalla “tensione” che contrassegna, sin dalla nascita, ciò che è vivo. E solo su questa via gli impulsi erotici hanno potuto prender corpo e attuare la loro opera “conservatrice” ed espansiva e combattere, in questo modo, la primordiale manifestazione della pulsione di morte dell’organismo. La confessa incapacità del poeta, apparentemente individuale, di aderire univocamente ad una sola dimensione, si traduce, in verità, nella denuncia generale dell’impossibilità per l’uomo (anche civilizzato) di uscire dal contrasto di forze psichiche opposte e di fissare il momento in cui l’una riesca a soggiogare e strumentalizzare definitivamente l’altra:
I
Potrei anche arrendermi all’umanità lucentee arrestarmi sacrilego a un'anima agli occhi spiritizzati trasuomo agli scalamori so già che sarei sconfortato alla dannazione.
1
Potrei anche annusarmi all’animalità e cecitare la planazione alla ferinità al ventre tremante a chimera vampante so già il lamento alla forza sfracellato.
I
Potrei anche annestare alla vegetalità e vanirmi il destino amaro dell’immobile al salice dolce della terra sfibrata so già che fiorireste alla debolezza.
1
Potrei anche ammassare scorie alla mineralità e infecondare a un idolo tribale l’ambra alla tundra salata dell’insensibilità so già che non sedimenterebbe l’organismo.
(da: Autocritica di un uomo) E’ il sentimento tragico e cosmico di questa psycomachia che Totaro-Ziella ritrova e apprende dalle manifestazioni folkloriche e dallo Zeitgeist della civiltà contadina meridionale. L’uomo di Totaro-Ziella è sempre oscillante tra l’essere rapito dalla naturalezza della cultura (rimanendo, nel contempo, recalcitrante di fronte alle richieste di ascesi mondana, di una vita razionale e “lucente”, imposte dal Super-Io) e l’essere rapito dalla naturalezza della natura (rimanendo, nel contempo, recalcitrante di fronte alla prospettiva del Nirvana, di un annientamento “vegetale” o “minerale” della volontà e dei desideri, di una rinuncia, cioè, alla propria tensione produttiva e plastica). Da qui ha origine l’atteggiamento critico e sarcastico nei confronti del cristianesimo e del suo progetto velleitario di voler “disincarnare” l’uomo. Ma essa non ha luogo per contrapporvi l’ideale estetico e “orfico” di una vita edonistica, sensuale, ludica, solare, che un certo cliché letterario del Nord-Europa ha sempre proiettato nostalgicamente verso i lidi del Mediterraneo (si pensi a Soleil et Chair di Rimbaud), dimenticando, invece, a detta dello stesso Valéry, quale stupefacente “macchina per fare civiltà” sia stato il Mediterraneo, nonché fucina di quell’inquietudine onnivora che appartiene alla fisiologia dell’uomo moderno. Lo scopo di Totaro-Ziella è invece di rivendicare il “dissidio” eterno dell’uomo, l’Abgrund multiforme della psiche umana:
Uomo puro
Quell’uomo che cerco è venuto duemila anni fa ma ha fatto fiasco.
Anche se depuro i miei istinti anche se cristallizzo il mio essere ho la profondità di un mistero.
In questa bara d’uomo sepolto come un gesucristo aspetto la mia resurrezione.
(da: Solamente questo paese)
Randagio
(...) Mi ritrovo a sera rivelato una coscienza notturna
uomo.
(da: Solamente questo paese)
Ma l’irrisione, anche amara e sofferta, dell’utopia cristiana dell’“uomo puro”, della morale del perfezionamento, in nome di quell’ “umano, troppo umano”, che lo stesso folklore accondiscendeva con i suoi retaggi vitalistici e pagani, non impedisce al poeta di prendere disgustato le distanze dalla secolarizzazione volgare e ipocrita che accompagna il trionfo della piccola borghesia e del consumismo. Ed ecco, così, la notte di Natale rovesciarsi nella “notte per gozzovigliare con Giuda”:
(...) Ma chi t’aspetta più Cosa sei venuto a fare Non vedi che hai guastato la nostra festa La nostra festa così sacra Così egoistica Così patetica Che facciamo morire anche i poveri. Non ti accorgi che sei fuori tempo Che il nostro dio è la Macchina E il nostro santo il Ventisette. ... Questa notte abbiamo gozzovigliato Ci siamo fatti uscire il vino a torrentaccio Per brindare ancora una volta Con queste facce da betlemme Al nostro compare Giuda.
(da: Autocritica di un uomo)
Sarebbe facile e apparentemente incontrovertibile interpretare l’immagine del “paesuomo” come il risvolto poetico di un feticismo “contadino” delle radici, della terra, come la condensazione estetica di una propensione ideologica al ruralismo. Ora che la pervasività della retorica meridionalistica e, con essa, l’abitudine manichea a dividere tra “arcaicizzanti” e “modernizzanti”, “romantici” e “illuministi”, sono sensibilmente incrinate, si comprende quanto sarebbe superficiale indulgere in questa stereotipia esegetica a proposito della poesia di Totaro-Ziella. A guardar bene, il paesuomo non rimane rinserrato nella sua dimora terrestre, ma leva lo sguardo “amorosamente” all’infinito del cielo e del mare, cercando una “misura” e una “pienezza” esistenziali (si vedano i componimenti raccolti nella sezione Quasi un madrigale di tutte le opere). Ma se il cielo e il mare tracciano una linea di un cammino verso l’indistinto, il polimorfo e l’illimitato, il paesuomo sta lì a ricordarci il bisogno insopprimibile di ridiscendere a valle o di riportarsi nelle zone interne, per ritrovare il calore della comunità, la certezza di abitudini e consuetudini, la possibilità di una comunicazione immediata e intima. Il paesuomo è, cioè, il modo attraverso il quale s’incarna, si rende particolare e naturale (a partire dal medium del linguaggio quotidiano) quella condizione di “umanità” che la civiltà contadina, nelle sue manifestazioni folkloriche, ci ha insegnato essere sempre un punto d’arrivo e mai di partenza e che non può sopravvivere allo stato puro, universale, “lucente” (non era forse anche questa, d’altronde, la critica più pungente di Hegel all’etica razionale kantiana e alla presunzione “livellatrice” della modernità?). La stessa tenacia con cui le culture e le tradizioni locali resistono all’espansione “spaesante” del Global Village è la più chiara conferma della verità metastorica del paesuomo, perché, come dice un noto antropologo americano, è nella dimensione locale che s’incontra l’uomo “faccia a faccia”. D’altra parte, se si assumesse univocamente una siffatta interpretazione, si rischierebbe di far velo sulla valenza polemico-simbolica con cui Totaro-Ziella propone il concetto di paesuomo come chiave di decifrazione della sua poetica ovvero come il “luogo” del suo “poema unico” (per riprendere un’immagine di Heidegger riferita al poeta austriaco G. Trakl, in uno dei saggi di Unterwegs zur Sprache). Sebbene, infatti, la metafora del paesuomo sia utilizzabile nell’ambito del discorso filosofico attuale che ripensa criticamente il Moderno e che segue non a caso alla crisi dell’industrialismo e delle “grandi narrazioni” ideologiche che collimavano in un’idea escatologica, “progressiva” e astratta della storia e dell’uomo; essa conserva, con Spaesamento, il suo significato ortodossamente polemico contro la ybris modernizzatrice che massifica, anonimizza, omogeneizza, deterritorializza, deculturalizza. Donde l’insistenza di Totaro-Ziella nel riguardare affettivamente al “paese” che ha segnato la sua infanzia e il rifiuto istintivo a rimettere in comunicazione passato e presente, modernità e tradizione. Qui incontriamo, forse, il “limite” (nel senso letterale) della poesia totaro-zielliana, il confine al di là del quale sarebbe vano attenderlo:
Finché sarò petto d’amore e di morti io tornerò sempre a paesuomo sconsolato con le ginocchia infangate e le braccia piegate a cigliare quest’uomo di meraviglia che si germoglia alla radice e alla polvere per seminarmi al tempo della luna nell’ardore del fuoco e della cenere a incantare quest’uomo di storie nei solchi più profondi e nei ventri più pieni che hanno sradicato la lingua e il cervello per interrarmi il disumano e il disamore a fiorire quest’uomo d’innocenza che prende la cicala e la canna per acquietarmi la tristizia e lo scontento nello spavento e nello spaesamento.
(da: Spaesamento)
La nostalgia del linguaggio
Se, però, sin qui abbiamo saputo avvicinarci all’intensità e alla profondità del Nacherleben totaro-zielliano rispetto alla civiltà contadina (nel senso diltheyiano della possibilità “attuale” di rivivere/ricordare un’epoca passata), questo “limite” non può risospingerci a pensare ancora una volta che il paesuomo sia il sintomo di una nostalgia “politica”, ma semmai della nostalgia per un modo di “dire” la verità tragica dell’uomo e la sua precarietà culturale, per gli “uomini della speranza” che la sfidavano, analoga a quella che i romantici tedeschi provavano per gli eroi della tragedia greca e il mondo classico “abitato” dagli dèi:
I Foraterra
Se ne sono andati i Foraterra schiantati alle groppe dei muli carichi di lune e di orti sorgevano pieni di paesi gridati alle piazze e alle serte secche d’aglio e forti di peperoni sgolavano ai bilancioni sacchi di sportoni verdi.
I Foraterra avevano il sole tra le gambe della terra aperta inseminavano i quadri posseduti alla follia dalle notti acquarose e stanchi di tante mani scavalcavano montagne mettevano il piede sull’erba e passavano acque.
(da: A canne a pietre a posti fatati)
Tant’è che la stessa “costruzione” poetica di Totaro-Ziella (nel senso formalistico che Sklovskij dà al termine) si dispiega nella mimesi della struttura linguistica della cultura orale folklorica. Quest’operazione di mimesi culmina, per parafrasare il R. Barthes degli Essais critiques, in una “coscienza paradigmatica del segno” estremamente sviluppata e raffinata. Il significato è sempre subordinato alla ricerca di collegamenti virtuali tra significanti, allo stesso tempo affini e distinti, esplorati e combinati su diversi piani: fonetico, semantico, sintattico, fino a coinvolgere la struttura globale dell’opera, oltre che a informare l’ars versificandi di Totaro-Ziella. Quel che a questo punto dà a pensare, è l’incoerenza tra i contenuti profondi e simbolici della cultura folklorica (e, quindi, della poesia di Pasquale Totaro-Ziella) e il privilegiamento della dimensione paradigmatica del linguaggio con i suoi risvolti immaginativi necessariamente “formali” (ripetizioni, parallelismi, omologie). Certamente, questa “letterarietà” del folklore è in parte il risultato di un processo spontaneo, difensivo, connesso alla consapevolezza della fragilità del proprio strumento di circolazione e trasmissione: l’oralità. Ma è, forse, soprattutto la maniera di esorcizzare, nell’atto stesso in cui la si nomina, quell’alterità negativa che gli uomini incontrano nella edificazione e preservazione della condizione “umana e civile”: l’istinto indomito, la morte, e, soprattutto, l’assenza di Parola, giacché solo il linguaggio rende possibile agli uomini riconoscersi come tali, abitare la terra, lottare insieme per la vita, solidarizzare contro la morte.
Francesco Bellusci |
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