Pasquale Totaro-Ziella

 

 

Franco Manescalchi

 

da: "Alcuni modelli della poesia lucana della quinta generazione" pag. 10-11

in: "Dopo Scotellaro"

 

Pasquale Totaro-Ziella è nato a Senise (Potenza) nel 1950. Ha pubblicato Solamente Questo paese, Porfidio ed., Moliterno, 1976; A canne a pietre a posti fatati, Lagonegro, 1979; Autocritica di un uomo, Istituto Editoriale Universale, Catanzaro, 1981; Corale accorato corale, Carello editore, Catanzaro, 1981.

Pur rimanendo radicato alla propria provincia, o forse proprio per questo, Totaro-Ziella svolge il suo discorso sul versante della poesia in positivo, lirico-mitica. Peraltro come non ricordare il vincente prometeismo del compianto abruzzese Clemente Di Leo che rimane una delle voci più vive della poesia meridionale?

Totaro-Ziella muove dall'epigramma icastico, di collaudata tradizione lucana, al poemetto in cui si sfrena la mediterraneità panica, non a caso fra i suoi ascendenti Lotierzo individua anche Quasimodo e Pavese («In questa poetica confluiscono stilemi ermetico-concettuali, con qualche eco da Sinisgalli e Quasimodo, da Scotellaro e Pavese, temi sempre non completamente fusi»)12.

Altro aspetto da evidenziare è l'oralità magico-rituale di questo discorso e il ricorso, ad esempio, al dativo dialettale rilevato ancora da Lotierzo e metodicamente insistito in Autocritica di un uomo.

Indubbiamente Totaro-Ziella, dal versante opposto, corre il medesimo rischio di Cascione, consistente nell'automatico slittamento della parola nel discorso, come se questo fosse preminente e assoluto rispetto al lavoro di lima sui nessi, ma è un rischio desiderante allo scopo di irrompere nel campo della parola innamorata.

Come i vecchi «Parlano ancora d'Argentina lontana/come un eterno paese fantastico/facendo nella memoria e nei gesti/la sconfinata pampa piana di sole», così Totaro-Ziella vive nell'eterno paese fantastico della poesia. Non è forse la Basilicata la sinisgalliana regione di agre, mediterranee Muse?

 

Franco Manescalchi   

 

 

in Vent’Anni di Poesia

 

Pasquale Totaro-Ziella è un poeta autentico per la capacità di sintetizzare il sentimento delle cose, la socializzazione del privato ed il notevole risvolto filosofico con cui amalgama la complessità del proprio discorso.

D’altronde, queste modalità sono comuni alla poesia lucana del Novecento così intensa di senso e ricca di presenze significative, da Sinisgalli a Scotellaro, tanto per citare i nimi più significativi a cui si deve naturalmente aggiungere, sul versante dialettale, Pierro.

Comunque, nel contesto generale Totaro-Ziella si caratterizza per una sua ampia discorsività molto materica e talvolta neologistica con forti escursioni fra il dettaglio naturalistico e la meditazione aforistica.

Altra caratteristica di Totaro-Ziella consiste in una notevole perizia nel giostrare le strutture compositive dall’epigramma al poemetto conservando la concretezza dei nessi narrativi e la spaziosità del pensiero poetante.

Da tutto ciò deriva un tono civile profetico con molti rivolgimenti sul versante esistenziale. Si aggiunga che la versificazione spesso lunga apre verso un disegno narrativo (come già fu nella poesia di Scotellaro) confermato anche dalle buone doti di prosatore messe in opera dal Totaro-Ziella in alcuni racconti di intensa suggestione linguistico-ambientale.

Conseguentemente, i suoi libretti di poesia mostrano gli strappi improvvisi nel tessuto retorico tipici della poesia moderna e la tessitura vasta e monodica di quella antica. Questo aspetto lo diversifica dai poeti lucani della sua generazione e non tanto per l’atteggiamento, che è comune, ma per il continuum lessicale sintattico.

Nella sua produzione ci sono plaquettes più memorialmente storicizzanti (Spaesamento A canne a pietre a posti fatati) ed altre in cui variamente si contessono facce diverse di uno stesso sguardo rivolto verso l’intero.

Per certo, si può dire che Totaro-Ziella non scrive sul vuoto, ha davvero molto da dire ed è capace di sentire intensamente il disgregarsi del tempo delle radici. Alla fine, si avverte una sorta di accettazione del proprio interno pagus di cui la poesia è una forma di esorcizzazione iterativa, da coro greco, da canto corale. Il titolo di un suo libro, Corale Accorato Corale, conferma questa vocazione al canto in cui l’uomo soffre ed esprime con stoica connotazione il circolo di vita composta da gioia e dolore, amore e morte, tutto e niente.

Il pagus-pagina di Totaro-Ziella è un atto magico: unisce presente e passato remoto nello snodarsi del filo del discorso poetico togliendo la poesia dal dominio delle Parche e restituendola al policentrico rituale della tecnica della scrittura omerica.

Un gesto umile quanto sapiente che conferma il rapporto vivo fra storia, ambiente geografico e letteratura.

Peccato che la nostra società abbia perduto i ritmi del tempo e della poesia e non sia più capace di distinguere l’ossimoro dolore-vita e preferisca gli artifici di linguisti malinconici, privi di questa nostra terribile e necessaria iniziazione.

 

Franco Manescalchi        

 

 

 

Prefazione a D’amore e di morti

 

Dopo le stagioni di Sinisgalli e Carrieri, Bodini e Scotellaro, ha fatto seguito negli anni Settanta Ottanta una Quinta generazione lucana e pugliese animata da giovani di certissimo talento a cui ha appartenuto da coprotagonista anche Pasquale Totaro-Ziella al quale è possibile, oggi, in un periodo storico tanto mutato, cogliere una definitiva e definitoria immagine del Sud in una dimensione assoluta.

A prima vista (e non si dice a caso, considerato il plafond iconico di questa poesia) i rimandi obbligati sono Sinisgalli – a cui è dedicato un testo della raccolta – e a Scotellaro per alcuni incipit indubbiamente empatici: Non mormoratemi il cuore e Sono morte le troccole a Pasqua.

Ma, a ben vedere, Totaro-Ziella ci propone, con questo aureo libretto, un Nostos, un dejà vu di particolare rilevanza sapienziale sia per la continuità col suo precedente discorso (basti ricordare qui il coinvolgimento di un personaggio centrale del suo io-noi come Clena) che per l’uso in qualche modo postmoderno degli archetipi essenziali come l’esperienza della terra nella sua fissità di vita e mote riferita al grande evento secolare del mito e dello sradicamento dell’uomo del sud.

Pur conservando canoni propri di una mediterraneità che, come affermava Bodini, trova la sua capitale naturale piutosto a Madrid che a Roma, l’autore tenta qui un’alta sintesi barocca uscendo in questo modo dall’ermetismo sinisgalliano e dall’antropologismo scotellariano dal quale, peraltro, è sempre stato molto distante avendo continuamente mediato la tensione lirica con un filo ed un filtro filosofici, ovvero con un pensiero poetante che, talvolta, ha anche rivelato a tutta pagina il poeta come pensatore. In effetti, la non breve bibliografia di Totaro-Ziella presenta questi movimenti naturali che lo rendono diverso rispetto agli altri poeti della sua generazione della sua area meno propensi all’infratestualità.

Ora, con questa plaquette, il poeta affronta il tema di principio e fine, amore e morte, terra-ade, storia e/o poesia, risolvendo l’operazione nella misura a lui peraltro congeniale di una necessaria classicità, di un poièin-verità, di una epitome storica.

E l’operazione, nella sua sintesi, funziona, pur non rinunciando a tutti quei passaggi espressivi che vanno dall’uso molto sublimato dell’italiano dialettale ad costrutto sintattico-metrico-strofico confermativo di un modo molto espressivo proprio dei grandi modelli sopra citati. Ma, pare a me che – anche in questo senso – il poeta ora vada oltre la necessità di una comunicazione univoca, accolga cautamente una zanzottiana apertura al neologismo ed al significante in quanto tale.

Per tutti questi motivi il Sud che emerge da questo poemetto è piuttosto il subconscio (o sud-conscio) di chi vede spegnersi le radici fuori ed irrobustirsi dentro,nell’universale cupio dissolvi – “vorremmo morire come la terra e il cielo” – poiché non possiamo “più dividere il tempo/con le semenze le semine le salme” e dobbiamo fare i conti con la derealtà del postmoderno.

E singolarmente, i paesi in cui “l’andare è sempre un tormento/è sempre un dispetto il rimanere” finiscono col coincidere col tempo della dissoluzione, con la loro dissoluzione nel tempo, tanto che “La casa nuova”, costruita con un’ingegneria postsinisgalliana, “non basta”.

Basta però la Parola, “la casa dell’essere”, oggi è sempre a una protezione e metafisica damnatio.

Ma già ho iniziato un mio percorso nel testo. Sta agli altri lettori, in numero più o meno manzoniano, aprirsi il loro varco interpretativo in questo “bosco sacro” abitato ancora dalle memorabili “Muse paesane”, di un paese, la Basilicata, che è grande crocevia pitagorico di esplicazione e espiazione del mistero di esistere.

 

Franco Manescalchi      

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