Pasquale Totaro-Ziella

 

 

Jean Robaey

 

Pasquale Totaro-Ziella e l’eredità sinisgalliana

 

Intanto riconoscersi, sapere da dove si parte, dove si vive.

Riconoscere una propria tradizione, di vita sociale e di cultura in senso lato prima ancora che letteraria. Accettare, per conoscerla e trasformarla sulla pagina, la propria marginalità: propria e di tutta o quasi tutta la società, la terra in cui si vive. Conoscerla per superarla con la voce tesa verso barriere non più materiali storiche. Parlare del quotidiano più aneddotico per staccarsi da ogni terra .

Sto sognando, ma non più di tanto. La poesia di Pasquale Totaro-Ziella ripropone un tema fin troppo presente in molti poeti meridionali, un tema che fa parte integrante dell’obiettiva situazione storica e insieme della mitologia meridionale, che ogni poeta contribuisce ad arricchire, spostare, precisare.

La poesia di Totaro-Ziella nasce sotto il segno prestigioso di quella di Leonardo Sinisgalli. Non c’è in questo niente di scandaloso di vergognoso: lo stesso, che confessa di vedere nel Sinisgalli prosatore un maestro, non si rende forse sufficientemente conto di quanto si tratti di un punto di partenza obbligato e di straordinaria forza. La tradizione italiana per ogni lucano — e sappiamo quanto egli sia attento a tale tradizione come dimostrano i due volumi dedicati a Nicola Sole, poeta ottocentesco di Senise — quasi si riassume in quel nome. Solamente questo paese, il primo libro di Totaro-Ziella, ripercorre il cammino e ritrova i luoghi delle Prime poesie, delle 18 Poesie, dei Campi Elisi.

Solamente questo paeseè insieme il titolo del primo libro, di una sezione di questo e della poesia che apre tale sezione: «Ottobre./Senise si sgretola in queste giornate di noia» . Siamo vicini a “Un’illusione ottica”, una pagina centrale di Furor mathematicus: «Per qualche anno vissi bambino dietro una finestra separata dalla collina di fronte da un profondissimo baratro che raccoglieva nei giorni di pioggia le acque tumultuose del torrente. La dolce collina punteggiata di ciottoli, cosparsa di piccoli ulivi del colore della cenere, era solcata da una strada che soltanto a tratti veniva a sporgere sul precipizio». La sezione tutta è gremita di riferimenti a Senise, ai suoi luoghi e alla sua gente: da Via Madonna di Viggiano a Piano di Sole, da Forafosso ai Foraterra.

L’approccio e l’occhio sono sinisgalliani, come sinisgalliane sono le immagini ferme. Via Madonna di Viggiano:

 

 

 

Non ti stanchi mai vecchia via

di odiarmi e di amarmi

nei tuoi soliloqui eterni

e già impassibile mi diventi serale

 

 

risponde così a Via Velasca:

 

 

 

Il calpestio di tanti anni

L’ha quasi affondata, la via

Incredibilmente si è stretta

 

 

 

come il «sonno berbero» e il «caldo vento dellAfrica» ricordano il mito di Leonardo l’africano. Proprio gli ultimi versi:

 

 

 

Questo sonno berbero che non ti muta

già lo percepimmo l’altra sera

nel caldo vento dell’Africa

e nelle gemme degli alberi in fiore

 

 

 

rivelano il registro della raccolta, dominata, nei suoi punti più alti e proprio tramite Sinisgalli, dalla lezione classica e ermetica. Basterà confrontare i notissimi versi di Cardarelli:

 

 

 

Autunno. Già lo sentimmo venire

nel vento d’agosto.

 

 

 

L’immagine risale perlomeno ad Alceo, che sarà da citare nella tradizione di Quasimodo, dove ritroviamo, dopo il vento, i fiori:

 

Io già sento primavera

che s’avvicina coi suoi fiori.

 

 

 

Tale ispirazione sinisgalliana rimarrà a fondamento dell’ispirazione di Totaro-Ziella. Quanto deve la sezione «Come posso scordare la mia fanciullezza» di A canne a pietre a posti fatati alla poesia-emblema del poeta di Montemurro che inizia col verso «I fanciulli battono le monete rosse»? E quanto a tanti altri luoghi di Vidi le Muse: «I compagni gridavano a perdifiato» (“Ora so non dolermi”), «Tante notti abbiamo dormito,/Le mani affondate nel grano,/ il sonno guardato dai cani» (“A bel vedere sull’aia”), «Perduta alle spalle la fanciullezza» (da 18 Poesie), «La luce era gridata a perdifiato» (dalla stessa sezione), etc.? E’ lo stesso sogno dell’infanzia, intesa come purezza irrimediabilmente perduta.

Sinisgalli offre a Totaro-Ziella una corposa tradizione: una lingua che nasce per così dire perfetta, subito classica, una generosa messe di immagini concrete e insieme quasi surreali, una terra già nobilitata. Terra che è fatta di mancanza e di solitudine, che smotta e scivola via sotto i piedi. Il livello metafisico della poesia sinisgalliana non lascia dubbi ed è tale che non su questo bisogna insistere, bensì sulla pesante eredità che egli lascia a tutti noi e che neanche lo stesso poeta ha sempre saputo sostenere fino in fondo.

Ci riferiamo all’altro accento così caratteristico dell’ermetismo sinisgalliano (non crediamo per definizione meridionale), accento che egli condivide con Alfonso Gatto e Libero De Libero. Accento fatto anzitutto d’ironia e di rassegnazione: o meglio di chiusura su se stessi. Siamo personalmente fin troppo sensibili all’impressione di soffocamento procurata dagli ultimi libri di Sinisgalli e che si risolve spesso in una rapida e indispettita laconicità, al limite della battuta. Raramente il poeta riesce ad innalzare la sua vena e a ricondurla al suo pensiero più profondo, raggiungendo, come nel Quadernetto alla polvere, uno dei punti più alti della produzione sua e di tutto l’ermetismo.

Totaro-Ziella è fortemente attratto dallo sguardo ironico del suo quasi conterraneo e nello stesso tempo lo teme, ne sente istintivamente il pericolo della chiusura. La minaccia del vuoto e della fine, quale appare nell’ultimo Sinisgalli, porta il nostro a cercare una risposta lontana dalla sua stessa poesia precedente e di segno quasi opposto a quello di Solamente questo paese.

L’eredità sinisgalliana tuttavia rimane, anche se nascosta. Si potrebbe dire ch’è ancora una volta il poeta di Montemurro ad aiutare il poeta di Senise. La sensibilità barocca nutre molta prosa di Sinisgalli e perlomeno i versi del Quadernetto alla polvere. Tale sensibilità barocca si fa in Pasquale Totaro-Ziella diretta espressione. Si liberano così, si sfogano propriamente i sensi e l’immaginazione del poeta, che sembra spesso scrivere sotto la dettatura dell’inconscio. Egli recupera in tal modo la valenza onirica e in qualche modo surreale di certo ermetismo meridionale (su cui ha insistito lo stesso Sinisgalli). Bisognerebbe qui parlare anche, e a lungo, della sua frequentazione con i pittori, in particolare con Guerricchio appena scomparso (cui il nostro poeta ha dedicato un accorato Canto per Luigi) e forse bisognerebbe parlare della tradizione pittorica espressionistica e risalire almeno a Carlo Levi.

Totaro-Ziella crea una lingua in continua ebollizione, continuamente surriscaldata. Mantenendo un forte contatto con la sua terra. Senza tale contatto la sua lingua sarebbe un atto velleitario, una vuota esercitazione. L’operazione sulla lingua consiste nella creazione di neologismi (vedi le splendide «notti acquarose» — ‘acquose’, ‘rugiadose’, ‘di acqua color rosa’, ‘rose dall’acqua’? — di Foraterra in A canne a pietre a posti fatati) e nell’immediato dono di dignità di lingua alle parole tratte direttamente dal dialetto (parole di cui la sezioneA canne a pietre a posti fatati” della raccolta omonima è colma).

Una scrittura siffatta comporta qualche pericolo, e lo stesso Totaro-Ziella senza ammetterlo lo sa. Per riparare a tali pericoli (riassumiamoli con una parola: la dispersione) il poeta risponde, fin dalla prima raccolta, con l’architettura quasi ferrea di ogni libro. Si susseguono in tal modo di volume in volume (e fondamentalmente con gli stessi titoli) sezioni dedicate di volta in volta all’espressione del malcontento civile, alla riflessione profonda sul legame con la terra, al fervore amoroso e ad una frattura psicologica personale. Il centro e la vera novità, forza, della poesia di Totaro-Ziella vanno cercate secondo noi nei primi due approcci. La costruzione volontaristica dei suoi libri non impedisce comunque al poeta di costruire parallelamente e di raccolta in raccolta altri libri piegati alle varie intonazioni della sua voce.

Totaro-Ziella non se ne abbia a male. A tenerlo lontano dai pericoli non può che essere — pur dovendo egli continuare a perseguire la sua via fondamentalmente espressionistica — la voce ferma di Leonardo Sinisgalli.

 

 

 

 

Pasquale Totaro-Ziella

in Roberto Pasanisi, Le “muse bendate”: la poesia del Novecento contro la modernità,

Istituti Editoriali Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma, 2000; pag. 150-1

 

 

 

 

PasqualeTotaro-Ziella, Autocritica di un uomo, Pescara, Edizioni Tracce, 1993 – E’ una poesia sanguigna, intensamente mediterranea, attenta a ritrarre icasticamente la provincia meridionale italiana, e specialmente lucana, contoni realistici ed un linguaggio essenziale e chiaro attinto da vicino alla grande tradizione della letteratura del nostro Mezzogiorno: “Gente di questi paesi/fatta alla giornata./Gente alla buona/a sera sanno di vino/per uccidere lo sconforto dentro di noi.” (Gente di questi paesi).

 

 

 

 

Pasquale Totaro-Ziella

in Giovanni Nocentini, Storia della Letteratura Italiana del XX Secolo,

Edizioni Helicon, Arezzo, 1999; pag. 388

 

 

 

 

La matrice che dà spessore e significato universale al messaggio artistico di Pasquale Totaro-Ziella, risiede nel mito, mezzo che l’Autore ha a disposizione per comunicare e per ricercare le profonde relazioni con le radici lucane, che sono il suo stesso flusso vitale, originario, la dimensione recondita, il baluginare dell’intima essenza, che accende la sua creatività espressa con l’enigmaticità del simbolo. Da una molteplicità di luoghi della lingua, talora classica, altre volte dialettale, popolare, effettua prelievi che trasforma in sfumati neologismi, innestati in una filosofia di circolarità ontologica del dramma esistenziale, mediata da una forte tensione lirica, dove amore e morte, principio e fine, terra-ade, storia e poesia, sono il “Pattern” mentale e insieme il “Device” letterario. Si può identificare Totaro-Ziella, con la corrente edonistica ed estetizzante dell’antico “Mito del Sud” ma in modo autentico, vero, come ideale di vita da contrapporre alla nevrotica cultura della civiltà dei consumi del Nord che lo fa cantare in “E’ il Sud”  questi splendidi versi, avvolti da un alone di suggestionepanica, che dalla natura traggono la loro dolce, mossa fonìa: “Questo incantesino di cicale e di grilli/che stordisce ancora il sole e la sera/ di calori infossati e di schianti ostinati/ E’ il Sud/ E’ il Sud/ … Questo odore di zagara e di limoni”, in “Corale Accorato Corale” è la poesia d’amore, che emana le sue invocazioni, le sue prolusioni come “Labbro caldo alla guerra dei sensi”, “Gigli della carne”, “Lune di spugna incenerite dall’amore”, che sono vere e proprie metafore carnali esprimenti la donna amata: Clena, miracolo archetipale, che racchiude in sé le doti di moglie, amante, madre. Totaro-Ziella è anche saggista, caratterizzato da un forte rigore analatico, che si esprime per immagini sottili e forti al contempo, ma sempre altamente attinenti al campo della poesia.

 

 

 

 

Pasquale Totaro-Ziella, D’amore e di morti, Poesie

Esuvia Edizioni, Firenze 1998

 

 

 

 

Il modello, insuperabile, rimane quello asciutto e disincantato di Sinisgalli: “Mi sono studiato/i soli le ombre i venti le luci”. Le suggestioni, inconfondibili, sono quelle ardenti e fugaci di Scotellaro: “Non mormoratemi il cuore/all’età dei rosolacci e al grano maturo”. In più, Totaro-Ziella pone in questa sua nuova raccolta lo sforzo di interpretazione e di decodificazione di una de-realtà – il Sud – che fu affettiva ma che ora è vissuto quasi interamente in una dimensione di inquietante “sud-conscio”, come osserva con una azzeccatissima definizione Franco Manescalchi nella nota introduttiva.

E se il cupio dissolvi che incombe come una cappa funesta su tutta la plaquette si presenta in effetti scostante e patetico, come il leit-motiv di altre scontate storie della lucanità, è certo però che l’autore riesce a districarsi molto bene fra le maglie d’una problematica ormai fin troppo scandagliata nei suoi possibili risvolti.

Una condizione che sembrerebbe non offrire scampo, e di ciò il poeta è consapevole al punto da prendere, come si suol dire, “il toro per le corna”.

L’amore e la morte divengono allora paradigmi esistenziali assoluti in un universo brutalmente nullificato e squassato da troppi silenzi, fughe, incomprensioni, rancori. Occorre ripartire da quelli che sono i sentimenti più elementari, riscoprirli e vivificarli come il vero punto di forza, la leva che solleverà il mondo in quella che, per molti aspetti, resta una comunità chiusa e primitiva, a tratti follemente spietata:

 

“… noi siamo un paese nero stinto di morti

e il dolore dell’assenza lo porto come un travaglio

e il grido dello spavento lo porto come un transito”.

 

Ancora sopravvivono “i tonfi del cuore”. Immenso è il dolore, un muto sconforto per tutto ciò che non c’è più, o forse non è mai esistito. S’era trattato soltanto di miseri sogni, là dove anche gli affetti erano istintivi, immediati, brutali. “Adesso ci vergognamo”, confida Pasquale Totaro-Ziella. Ma è quanto basta per ricominciare.

 

 

Cassino, agosto 1998

Francesco De Napoli

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