Roberto Zito

Un giorno a Montmartre in compagnia di
Molì

Parigi, 14 Settembre 2002

 

Nel mezzo della scalinata che si arrampica alla collina di Montmartre, alla 30 Rue Andrè Barsacq, è ubicata una “strana” bottega che in tutto ricorda gli angusti ateliermaison degli artisti di una Parigi anni ‘40.

Appena dentro il mio amico Molì mi accoglie con un sorriso ed una strana sensazione mi assale nel mentre mi sovviene alla mente la differenza, neanche troppo sottile, che pure intercorre tra il caos ed il disordine. Bidoni di colori e d’olio sono dappertutto.

Sui tavoli pennelli ed arnesi si confondono agli avanzi di cene consumate in fretta e più in là un letto perennemente disfatto ben sintetizza l’aspetto più pratico ed assai meno romantico del vivere in solitudine.

Il compressore sporco di vernice pare un’arma ancora fumante ed alcuni quadri, da poco ultimati, posti in un angolo ad asciugare mi rimandano un’immagine non dissimile da quella prodotta dai peperoni essiccati o delle mele cotogne lasciate a maturare nelle misere case dei contadini del nostro sud.

(Richiedono in fondo le stesse cure e lo stesso amore il buon cibo ed il fare arte).

L’odore di vernice e di resina dà una luce irreale a quella scena e per un istante, per un istante solamente, chiedo al mio cuore di non muoversi, di restare in silenzio ed è come ritornare bambino tra i banchi di scuola con il profumo dei libri ancora “freschi” di tipografia ed uno strano tremolio che mi attraversa le mani.

Ma la voce del mio amico mi scuote ed in breve siamo già fuori, mescolati alla gente, tra i cavalletti e le stampe e i turisti nella piccola Piace du Tertre.

Da lì in taxi fino all’Opèra e poi di nuovo a piedi fino al Louvre ed al di là della Senna, al Quartiere Latino. Questa sera egli è il mio cicerone e nel mentre lo seguo, appena un passo più indietro, non posso non pensare alle altre nostre passeggiate nei vicoli del nostro piccolo villaggio nel Sud dell’Italia o sulle sponde arse e pietrose del fiume Camastra.

Altra vita scorre in queste strade, altro sentire.

E’ un crogiuolo di razze, di lingue e di colori questo angolo d’Europa, brulicante come un alveare, avvolto nel suo rumore ovattato e nelle mille luci della sera che si perdono in lontananza.

Accaldati ed entusiasti abbiamo percorso in lungo ed in largo questo enorme palcoscenico ed infine, quasi senza renderci conto, siamo di nuovo a Montmartre, nel villaggio  quartiere, sul tetto più alto della Città che ci appare già lontana e diversa.

Il Cabaret de la Boheme a quest’ora è quasi deserto, i tavoli all’esterno, ben allineati, paiono attendere paganti per un nuovo spettacolo che di lì a poco andrà a ricominciare.

Appena fuori dalla Chiesa di Saint Pierre, dopo una breve visita, osservo il mio amico già comodamente seduto dall’altra parte della piazza ed in quella scena, nella stessa sua posa ritrovo alcuni tratti di una vecchia foto  icona di Jacques Prévert ripreso da Robert Doisneau.

Poco dopo due ragazze gli si avvicinano e lo salutano. Noto che delle due, una ben lo conosce.

Ha gli occhi e i capelli di un nero lucido e la pelle ambrata che avvolta nel velo rosso del suo abito da scena ben denota la chiara origine Araba.

Quando li raggiungo si sono sedute a loro volta e dai discorsi che fanno riesco appena ad intuire che hanno da poco concluso il loro spettacolo da strada e che hanno bisogno di riprendere fiato prima di ricominciare. Visti da vicino quegli occhi sono ancora più belli ed i tratti di quel viso richiamano la pace delle oasi nei deserti infuocati.

Nel presentarsi, l’altra mi spiega, in un italiano alquanto stentato, che ha trent’anni, è una scultrice e viene dalla Germania.

Da circa tre mesi è a Parigi e per sopravvivere collabora a quello spettacolo che la sua amica porta avanti ormai da anni.

Mentre mi parla io resto in silenzio e la osservo nel suo abito da clown  Augusto con la sua pelle chiarissima ed i capelli biondi e rossicci, colorati dal sole.

E’ come avere di fronte le opposte facce di una stessa medaglia; due opere differenti e distanti, eppure cosi bene amalgamate fra loro.

L’una sembra venir fuori da un quadro del Rossetti preraffaellita e l’altra pare dipinta dalla mano passionale del Caravaggio e quando glielo dico entrambe sorridono ed i loro denti luccicano come diamanti riflessi nelle luci della piazza semivuota.

Il mio amico Molì mi guarda affascinato  lui ha sempre apprezzato le mie doti oratorie e da “ciarlatano”

 ed i suoi occhi compiaciuti mi ricordano quella stessa furbizia e quella stessa lucida curiosità riscontrata nel suo autoritratto dipinto circa trent’anni prima.

E’ stranamente loquace e non mi ci vuole molto a far scivolare i nostri discorsi sull’arte e sulla sua “inutile utilità”.

Non è poi così difficile parlare d’arte dinanzi alla bellezza.

Inizio col dire del perché amo fermarmi ai tavoli dei Caffè e di come riuscirei a stare per ore ad osservare le persone, a scrutarne gli atteggiamenti ed ogni loro più piccolo movimento.

Invito gli altri a guardare verso una coppia che si appresta a terminare la piccola salita che sbocca dal “Sacro Cuore” ed a spiarne per qualche attimo le mosse.

Sono due giovani stranieri, giunti fin quassù, più che per propria curiosità, spinti ed obbligati da quel “maledet­to” percorso tracciato dalle Guide Turistiche.

Tra loro quasi non si parlano e ad ogni passo tirano un’infinità di scatti fotografici con l’illusione di imprimere su carta Kodak cose e luoghi e sensazioni che, non provate, prima ancora di domani saranno già dimenticate. Essi guardano senza vedere e neanche lontanamente conoscono il fascino celato nelle immagini, elaborate e

mai completamente rispondenti al vero, create dai ricordi.

Visitare un luogo, respirarne l’aria, analizzarne i colori, le luci, i particolari non è che un aggiungere immagini alla nostra memoria.

Mi di lungo nel dire tutto questo ed ancor più nel sottolineare la magnifica sensazione che provo nell’incrociare un viso per strada; nella piacevole ebbrezza che si prova nel perdersi nello sguardo di una sconosciuta la cui immagine rimarrà per sempre nostra  neanche lontanamente verosimile eppure inimitabile ed ineguagliabile e mentre lo faccio gli altri mi guardano interessati dimenticando il mio invito precedente e perdendo di vista quei due ragazzi sul dosso della salita che in breve sono già spariti al di là della cancellata della piccola Chiesa. Molì mi dice che lui non ama osservare gli uomini  li considera inutili e per certi aspetti superflui  piuttosto passerebbe ore tra gli animali che considera degni di ogni rispetto ed illuminati da quella sacra fiamma che definiamo “anima”.

Ci racconta dei suoi quadri e della necessità di renderli “vivi”.

Si addentra nella sua vita come stesse parlando di qualcun altro ed ogni sua difficoltà vissuta o determinata da quel continuo andare controcorrente pare il frutto di una “penna proficua” piuttosto che cruda realtà.

L’arte non è per lui un semplice esercizio concettuale e la modernità non deve necessariamente disconoscere tutto ciò che l’ha preceduta.

In una strana ed inspiegabile percezione egli accomuna un’opera d’arte al senso più alto ed inestricabile dei misteri legati alla vita ma soprattutto intuisce che essa per essere davvero tale deve vivere di luce propria ed avere nel contempo tratti e segni ben riconoscibili da parte di chiunque si ponga ad osservarla.

Inutile perdersi in spiegazioni e calcoli contorti: un’opera d’arte non consente analisi logiche e, come la vita, non è completamente decifrabile, altrimenti non sarebbe più tale.

Quest’ultima sua espressione mi riporta alla mente un’aforisma di Oscar Wilde “...meglio vale godersi una rosa che esaminarne la radice sotto il microscopio...” e nel mentre ci penso assumo un’aria dotta che non mi appartiene e nel tentativo di dare una giusta conclusione a quella discussione mi rivolgo al resto della compa­gnia e declamo, ad alta voce ed andando a memoria (io che a volte neanche ricordo la taglia dei miei pantaloni) ciò che Amedeo Modigliani disse, insieme ad un no sdegnato, a Severini quando questi gli sottopose il pirotecnico manifesto Futurista per avere la sua firma: «. . .voi volete gettare le bombe nei musei e io, che nei musei ho consumato non so quante paia di scarpe, dovrei darvi il mio sostegno? Dovrei distruggere le opere dei grandi maestri del passato?

D’accordo, sono del passato e uno che oggi dipingesse le madonne di Raffaello farebbe ridere, ma i nostri quadri, a petto dei loro, sono degli aborti, te ne sei reso conto o no?...».

Quella frase mi piacerebbe urlarla e sbatterla in faccia ai “ tuttologi “che occupano la scena, ai maledetti figli di puttana, mercanti senza cuore e neo teologi che riempiono di concetti astrusi il “vuoto”.

Ma non ho né la forza né la voglia di farlo, semplicemente mi limito a dare corpo ai miei pensieri dinanzi a quelle fanciulle quasi sconosciute che forse neanche comprendono compiutamente quel che dico ma che in fondo mi offrono una tregua con il loro sorriso ed il loro sguardo affascinato.

L'anziano cameriere, con un garbo che sa d’antico, ci chiede di saldare il conto  s’appresta a terminare

il turno e vuole lasciare le cose in ordine al collega che prenderà il suo posto .

Ne seguiamo l’invito ed una volta in piedi le due ragazze ci salutano affettuose ed in un attimo le vediamo già sparire nel fondo della piccola piazza, con il loro carretto grondante di nastri e cappelli e nasi finti e giacche arlecchinate.

Lentamente ci apprestiamo anche noi ad andare ed una volta sul ciglio della scalinata che ci ha portato fin qui ci fermiamo un attimo e respiriamo l’aria della notte che pare salire dal basso e stagliarsi, fresca e limpida, sui nostri volti.

Alcuni ragazzini accaldati giocano ed improvvisano uno scivolo con dei cartoni plastificati, lasciandosi cadere come furie lungo le pendenze al di là dei corrimano.

Io li osservo dall’alto e nei loro occhi ridenti, nelle loro grida ritrovo la medesima incosciente spensieratezza di quelle piccole pesti che si cimentano, con pari spavalderia, nelle sere d’inverno ed in quello stesso gioco spericolato alla salita del vecchio Cinema Sansone.

Il mio amico Molì mi guarda e mi sussurra:

            guarda quei piccoli demoni... non ti ricordano forse Rocco Biancone?

ed io annuisco senza parlare mentre penso al mondo, variegato ed immenso, ma per certi aspetti uguale dapper­tutto.

Nello scendere verso Pigalle ripassiamo davanti all’Atelier e nella vetrina ancora illuminata, tra i quadri ed il resto, scorgo alcune copie del libro che abbiamo da poco pubblicato ed ancora una volta annuisco e sorrido tra me, ripensando alla vastità del mondo ed alla nostra piccola Laurenzana, approdata in qualche modo fin quassù. Siamo entrambi stremati, ma appagati e felici.

E’ stato un buon giorno anche se domani dovrò ripartire.

In fondo alla discesa il taxi che mi riporterà in albergo è già pronto ed una volta dentro mi giro un attimo ed in uno sguardo di commiato ritrovo il mio amico, quel mio compagno e fratello già lontano; immobile sul bordo del marciapiede che mi saluta con un gesto della mano.

La scena mi ricorda il finale di un vecchio film di Luc Besson e forse quest’intero giorno altro non è stato che il frutto di un sogno.

Dev’essere, in fondo, davvero cosa diversa la vita.

Ma va bene così  sono stanco adesso e non ho voglia di pensarci .

Quando mi rigiro, mi rannicchio su quella mia leggerezza, chiudo gli occhi e quasi m’addormento nel taxi che galleggia nelle luci delle vetrine e che pare inghiottirmi nel buio della notte.

Domani si vedrà, domani mi sveglierò e forse penserò a tutto il resto.

 


 

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