[Articoli di Giulio Frisoli, pubblicati in "L'Europeo", 11 marzo
1956, pagine 12-15; 18 marzo 1956, pagine 52-55; 25 marzo 1956, pagine
37-41]
[11 marzo 1956, copertina]
IL DISASTRO DELL'8017
Fu la più grande catastrofe ferroviaria del mondo. Pochi sanno che
accadde in Italia dodici anni fa.
[Prima puntata - 11 marzo 1956, pagine 12-15]
COMINCIA LA RICOSTRUZIONE DI UNA CATASTROFE IGNOTA
Questo è un altro dei servizi di cronaca radicale dell'«Europeo»
Il ferroviere dice: «Accadde là sotto» Balvano. Alle 0,50 del 3 marzo
1944 un treno merci, dopo aver sostato trentotto minuti a Balvano, si
inoltrò lentamente nella galleria delle Armi di là dalla quale a sette
chilometri c'è la stazione di Bella-Muro. Doveva percorrere la distanza
in venti minuti. Non arrivò: 521 persone morirono asfissiate sotto la
galleria. Il manovale Angelo Caponegro, in servizio a Balvano nel '44,
indica l'ingresso della galleria.
Galleria di Balvano, 3 marzo 1944: la più grande tragedia ferroviaria
di tutti i tempi
IL CAPOSTAZIONE DÀ IL VIA AL LUGUBRE 8017
Si era in guerra. Sulla linea Battipaglia-Potenza un solo treno
passeggeri alla settimana. Ai borsari neri ne occorrevano molti: quindi
salivano sui «merci». Autorità e ferrovieri erano costretti a chiudere
gli occhi
La bocca della morte. Balvano. Sui 47 vagoni dell'8017 avevano preso
posto seicento persone, indotte dalle circostanze a servirsi di
qualsiasi convoglio in partenza. Questa è l'uscita della galleria delle
Armi verso Bella-Muro.
Giulio Frisoli
All'una circa della notte fra il 2 e il 3 marzo del 1944, un treno merci
in servizio sulla linea Battipaglia-Potenza entrò in una galleria, e non
riuscì a percorrerla. Il lunghissimo convoglio, composto di 47 carri
trainati da due locomotive del tipo 476 di alta montagna, una delle
quali era stata aggiunta alla stazione di Romagnano, a metà strada circa
fra Eboli e Potenza, dato che il peso del treno appariva eccessivo (470
tonnellate), era giunto alla stazione di Balvano-Ricigliano alle 0,12.
Qui aveva sostato per trentotto minuti. Alle 0,50, il capostazione
Vincenzo Maglio dette il segnale di partenza. Il merci, che era
contrassegnato dal numero convenzionale 8017, si avviò lentamente. La
stazione di Balvano dista da Potenza 39 chilometri; la stazione
immediatamente seguente, quella di Bella-Muro, 32; fra Balvano e
Bella-Muro la distanza è quindi di soli sette chilometri, che un treno,
per quanto vada lentamente, non dovrebbe percorrere in più di venti
minuti.
SOLO UN GIORNALE PARLÒ DELLA TRAGEDIA, IN POCHE RIGHE
Il merci 8017 non riuscì a percorrere questo brevissimo tratto né in
venti minuti né in un'ora; la coincidenza di due fattori (il primo,
quello che esso era sovraccarico, il secondo, che il carbone bruciato
dalle locomotive non era di buona qualità) concorse a farlo fermare,
circa trecento metri dopo che esso aveva imboccato la galleria detta
«delle Armi». Quasi tutti coloro che si trovavano sul convoglio morirono
per asfissia: se si pensa al poco personale che di solito si trova sui
treni merci, si potrebbe dedurne che persero la vita nel drammatico
incidente solo alcuni individui. Se le cose stessero così, queste
rievocazione del disastro di Balvano non avrebbe ragione di essere. Ma
le cose stavano, invece, in tutt'altra maniera: perché a bordo del merci
8017 avevano preso abusivamente posto circa seicento passeggeri, dei
quali 521 compirono il quel treno l'estremo viaggio della loto vita, un
viaggio la cui stazione d'arrivo aveva il nome «Morte».
Quella di Balvano fu una tragedia allucinante e silenziosa; pur
costituendo la più grave sciagura ferroviaria mai verificatasi nel
mondo, la sua eco non giunse quasi all'orecchio del grosso pubblico; o,
diremo meglio, vi giunse attenuata, tanto da non suscitare nessun moto
sentimentale. Solo un giornale, il quotidiano napoletano Risorgimento,
l'unico autorizzato dalle autorità alleate a vedere la luce, accennò
vagamente al fatto, il 7 marzo del 1944, in poche della sua cronaca
regionale, senza specificare né la località nella quale la tragedia era
avvenuta né il numero delle vittime. La censura, in quel periodo,
ostacolava il lavoro dei giornalisti; anche quando le cose tornarono
normali, nessuno, per molto tempo, pensò di rievocare quel tragico
accaduto. Fu solo nel 1951 che due giornalisti napoletani, i quali
svolgevano quella forma di attività tipica di quei pubblicisti che nelle
nazioni anglosassoni vengono definiti «free lance writers», vale a dire
scrittori indipendenti, pubblicarono sulle catene di quotidiani italiani
ai quali collaboravano un articolo sul disastro di Balvano, argomento
che venne ripreso da alcuni settimanali. Ma anche stavolta i fatti
furono narrati frettolosamente, senza entrare nei particolari, e quindi
molti aspetti del tristissimo avvenimento rimasero oscuri.
Che cosa accadde con precisione nella gallerie delle Armi? A chi doveva
essere fatta risalire la responsabilità dell'accaduto? L'Europeo si è
proposto di rispondere a questi interrogativi, al secondo dei quali, lo
diciamo subito, non è possibile dare una risposta precisa, perché
l'ingarbugliatissima vicenda giudiziaria che prese le mosse dalla
tragedia di Balvano non giunse alla sua fine.
Prima di inoltrarci nella cronache del disastro, sarà bene ricordare un
po' ai lettori, specie a quelli che vivevano nel 1944 al di sopra della
Linea gotica, quali erano le condizioni in cui si viaggiava nell'Italia
meridionale. Le comunicazioni erano ovviamente mal servite, dato lo
stato di guerra. I treni partivano, ma non sempre, in orario, e
giungevano sempre con un elevato ritardo alle stazioni terminali. Quanto
alla linea Battipaglia-Potenza, che tuttora non gode della trazione
elettrica, e in molti tratti è ad un solo binario, essa era stata
dichiarata di interesse militare, e il Governo Militare Alleato la
gestiva in proprio, con l'aiuto del personale italiano delle Ferrovie
dello Stato, consentendo che su di essa transitasse un solo treno la
settimana per passeggeri.
A questo punto, è necessario ricordare quel tipico fenomeno del tempo di
guerra che fu la borsa nera. Fosse esercitata su vasta o su piccola
scala, la borsa nera metteva in condizione gli abitanti delle grandi
città di rifornirsi di quei viveri dei quali si avvertì la deficienza
negli ultimi anni di guerra. Napoli specialmente, la grande città che
soffrì, dal 1942 in poi, una grande fame, era un mercato che si
presentava, per così dire, stimolante nei riguardi di chi se la sentiva
di sottoporsi alla corvée di recarsi a reperire dove fosse possibile
generi alimentari, per poi rivenderli con un certo margine di guadagno.
Migliaia di individui dei paesi circostanti, sui quali si abbatté la
disgrazia della disoccupazione, si orientarono quindi verso la borsa
nera; poco per volta, essi giunsero alla convinzione, esatta, che la
località in cui si sarebbero potuti più facilmente fornire di quei
generi che mancavano a Napoli, come la carne, l'olio, il grano, il
tabacco, e perfino la verdura, oltre che i cereali e i legumi, era
Potenza, il capoluogo di una provincia la cui economia si fonda proprio
sull'agricoltura e sull'allevamento del bestiame.
I RIFORNIMENTI PER IL MERCATO NERO DI NAPOLI
Potenza dista da Napoli solo 166 chilometri; partendo la sera da Napoli
era possibile giungervi all'alba, fare i propri acquisti, e tornare
nella capitale della Campania nel pieno pomeriggio. Il piano di lavoro
dei borsaneristi era semplice, se pur faticoso; ma, a stroncare la loro
attività, venne la requisizione della linea ferroviaria Napoli-Potenza,
effettuata dal Governo Militare Alleato subito dopo l'ingresso a Napoli
delle truppe della 5ª armata americana, che avvenne alla fine del
settembre del 1943. Come abbiamo detto, da allora fu autorizzato il
transito di un solo treno settimanale per passeggeri, il mercoledì.
Invece, i borsaneristi, specie quelli la cui attività potrebbe essere
paragonata a quella dei commercianti al dettaglio, erano premuti dalla
necessità di effettuare viaggi continui, e non potevano non servirsi
delle ferrovie, data la requisizione di tutti i mezzi di trasporti
azionati a benzina o anche a metano.
Se davvero la militarizzazione della linea Napoli-Potenza avesse inferto
un colpo mortale all'attività dei piccoli speculatori, non staremmo qui
ora a stendere questa cronaca di un avvenimento di dodici anni fa;
perché il merci 8017 non si sarebbe fermato nella galleria delle Armi,
la cui pendenza, che non supera il 13 per mille, esso sarebbe riuscito a
superare, tenuto conto del suo peso e della trazione effettuata da due
locomotive. Invece, i borsaneristi non rinunziarono al loro lavoro;
facendo giusto affidamento su certe qualità tipicamente meridionali,
essi fecero in modo da adattare ai loro scopi la situazione, poiché non
potevano adattarsi essi stessi alla situazione che l'ordinanza del GMA
era venuta a creare; e nacque così una specie di «modus vivendi» sul
quale, purtroppo, gli Alleati chiusero benevolmente gli occhi. In
sostanza, avvenne questo: i borsaneristi trovarono rapidamente un
accordo con il personale italiano di scorta ai treni merci che da Napoli
si recavano ininterrottamente a Potenza; i conduttori dei treni, un po'
per buon cuore, e qualcuno anche per speculare sulla situazione,
consentivano che nei vagoni dei convogli, quando non erano stipati di
merci, prendessero posto clandestinamente dei viaggiatori; quanto al
personale alleato di scorta al treno, aveva capito la situazione, e
fingeva di non rilevarne l'irregolarità.
ALMENO 320 QUINTALI DI VIAGGIATORI ABUSIVI
Questa specie di compromesso, comprensibile sul piano umano, funzionò a
perfezione fino all'alba del 3 marzo del 1944, fino al momento in cui,
cioè, il merci 8017 si fermò nella galleria delle Armi. Nei carri
scoperti, in quelli coperti, e perfino sugli imperiali di questi ultimi,
avevano preso posto circa seicento persone, che viaggiavano certamente
molto peggio dei quaranta militari che dovevano per regolamento, una
volta, stiparsi nello spazio di un vagone. Un facile calcolo fa stimare
il peso di quei seicento viaggiatori irregolari sui trecentoventi
quintali almeno. Se si tiene conto del carbone adoperato, che veniva
fornito dagli Alleati, e proveniva dalla Jugoslavia, ed era,
notoriamente, dotato di un insufficiente potere calorifico, mentre
abbondavano in esso le scorie che, bruciando nelle caldaie, si
trasformavano in gas di scarico, costituiti per lo più da monossido di
carbonio, un terribile veleno ad azione rapida; se si tiene conto del
fatto che, con questo carbone, le due locomotive avrebbero potuto
trainare, in salita, non più di cinquecento tonnellate; se si ricorda
che il peso del merci 8017 era, a vuoto, di 479 tonnellate, basterà
sommare a queste tonnellate le 32 del peso dei passeggeri per notare
come, sia pure di poco, il limite si sicurezza era stato superato.
Naturalmente, queste considerazioni non furono fatte a Napoli, la sera
del 2 marzo, prima che il treno partisse; se il capostazione che gli
dette via libera si fosse preso la briga, di fronte al brulicare, nei
carri, di persone che egli non poté fare a meno di vedere, di ragionare
un po' sulla faccenda, il merci 8017 non sarebbe partito se non dopo che
ne fossero scesi coloro i quali vi erano abusivamente saliti. Ma quello
dei treni merci diretti in Lucania stracarichi di clandestini era ormai
uno spettacolo consueto, per i ferrovieri napoletani. Perciò, dopo aver
superficialmente controllato il «foglio di viaggio» del convoglio, sul
quale era detto che il merci 8017 era destinato a Catanzaro, dove
avrebbe dovuto caricare legname che «serviva per esigenze determinate
dalla guerra e di competenza del Governo Militare Alleato» , quel
capostazione si assicurò che il personale di scorta la treno avesse
preso posto sui vagoni; poi agitò la mano verso i macchinisti, che,
sporgendosi dal finestrino, attendevano il suo segnale, emise i
regolamentari tre trilli dal suo fischietto. Non sapeva che, espirando
con una certa violenza una minima quantità di aria dai suoi polmoni,
avrebbe avviati 521 persone verso il posto dove i loro polmoni sarebbero
stati rapidamente saturati dal monossido di carbonio, e ne sarebbero
rimasti paralizzati. |
[Seconda puntata - 18 marzo 1956, pagine 52-55]
Il più grande disastro ferroviario del mondo
OGNI VIAGGIATORE SEDEVA CADAVERE AL SUO POSTO
* Sotto la galleria delle Armi due locomotive emettevano fumo prodotto
dalla combustione di cattivo carbone jugoslavo
* Il treno 8017 si era appena fermato per insufficienze di calore
* Un terribile errore: bisognava fare subito marcia indietro
* Macchinisti e fuochisti asfissiati per primi
* Cinquecentoventuno persone passarono nel silenzio dalla vita alla
morte
Balvano.
I passeggeri «abusivi» del «merci» 8017 erano quasi tutti addormentati
quando il convoglio si arrestò sotto la galleria. Le loro salme furono
allineate sul marciapiede della stazione, a un centinaio di metri dalla
galleria.
Balvano.
L'identificazione delle vittime fu iniziato subito. Non fu un'impresa
facile. Molte di esse, per lo più piccoli trafficanti in borsa nera,
erano prive di documenti.
Balvano. I 521 cadaveri delle vittime della galleria delle Armi sul
marciapiede della stazione di Balvano. Il treno fu rimorchiato
all'aperto la mattina del 3 marzo 1944.
Angelo
Caponegro è un manovale delle Ferrovie dello Stato; veste quasi sempre
in borghese; un berretto col fregio che rappresenta due ali d'oro
poggiate su un cerchio nel quale le lettere F e S sono ricamate l'una
sull'altra indica la sua appartenenza alle Ferrovie; la visiera copre di
una strana ombra i suoi occhi piccoli e acuti, sotto i quali un gran
naso spicca sul volto onesto dell'uomo. Guarda lontano; si vede che, con
la mente, si sforza di tornare indietro negli anni, che tenta di mettere
a fuoco certi ricordi che vanno ormai, col trascorrere del tempo,
diventando labili, imprecisi.
La notte fra il 2 e il 3 marzo 1944 era di servizio alla stazione di
Balvano-Ricigliano, insieme all'operaio di prima classe Vincenzo Biondi,
il cui grado è rappresentato da una striscetta verticale d'oro che si
trova ai due lati del sottogola del suo berretto. Quella notte, i due
non avevano nessun motivo particolare per interessarsi più del consueto
al treno merci 8017, giunto da Napoli alle 0,12. Per i ferrovieri, un
treno non rappresenta, naturalmente, un fatto umano; esso è solo un
convoglio, contraddistinto da un numero convenzionale, dalla sua
qualifica di treno rapido o diretto o accelerato o merci, dal numero dei
suoi vagoni, dall'orario di arrivo e di partenza. Nessun treno attrae in
modo particolare la loro attenzione, e a questa regola non sfuggì il
merci 8017.
Il fatto che fosse gremito di passeggeri abusivi faceva parte anch'esso
di una consuetudine che durava da più di un anno. Quando esso giunse
alla stazione di Balvano, il suo carico umano era profondamente
addormentato, in gran maggioranza. Adesso, può riuscirci difficile
capire come si possa sprofondare nel sonno stando ammucchiati nei vagoni
di un merci, nell'interno dei quali non v'è che il pavimento per
adagiarvisi. Ma dodici anni fa la cosa era normale, o quasi,; ognuno di
noi ricorderà di essersi addormentato in un rifugio, quando un allarme
aereo si protraeva per lungo tempo: un fatto che oggi ci sembra
impossibile.
Nel treno merci che giunse, quella tale notte, a Balvano, tutti
dormivano, meno i macchinisti delle due locomotive, i due fuochisti, e
il frenatore del vagone di coda, Michele Palo. In questo fatto, è un
altro segno della strana fatalità che si accanì sul lunghissimo
convoglio. Se esso avesse dovuto percorrere di giorno o trentanove
chilometri che separano Balvano da Potenza, senza dubbio il disastro non
avrebbe assunto proporzioni tali da renderlo assolutamente eccezionale
nella storia di tutte le ferrovie del mondo. In tal caso, quasi tutti
avrebbero avvertito l'acre odore del monossido di carbonio che si
sprigionava dai fumaioli delle due locomotive che trainavano i
quarantasette carri; e avrebbero potuto tentare di raggiungere lo sbocco
della galleria, che non distava più di duecento metri (quando il merci
8017 si fermò per sempre) dalla locomotiva di testa.
Invece, i passeggeri del treno, che avevano abusivamente occupati i
vagoni, dormivano della grossa. Quando, con il tipico sferragliare dei
freni, l'8017 si fermò, dodici minuti dopo la mezzanotte, nella stazione
di Balvano, il tenebroso silenzio della campagna circostante,
punteggiata da colline sulla cui vetta si poteva distinguere, grigiastra
nel lividore della notte, la neve dello scorso inverno che ancora non si
era sciolta, non fu rotto dunque dal caratteristico vocio che
contraddistingue i treni che viaggiano di giorno, nei quali i passeggeri
chiedono che ora è, a che ora si arriverà; e molti di essi approfittano
della fermata per scendere a procurarsi dell'acqua, o per sgranchire le
gambe. Ruppero quel silenzio di morte (già una specie di sintomo, di
premonizione) solo le voci dei macchinisti, del capostazione, del
manovale e dell'operaio, che si avvertivano appena, sullo sfondo del
collettivo, pesante respiro della gente che dormiva nel treno; uno
strano, grosso rumore, paradossalmente anch'esso silenzioso.
Il ricordo di questo singolare rumore fa rabbrividire ancora oggi Angelo
Caponegro e Vincenzo Biondi; perché esso assunse, dopo la sciagura, il
lugubre significato di una introduzione alla morte, una specie di
drammatica ouverture. A questo non pensarono i due allora, né lo pensò
il capostazione Vincenzo Maglio, che sbrigò la pratica del merci 8017, e
dette alle 0,50 il segnale di via libera verso Potenza, dove il
lunghissimo convoglio non sarebbe mai giunto.
A questo punto, prima che il treno si avvii, sarà bene vedere come esso
è composto con esattezza, chi lo aveva fatto comporre, e perché; tutte
cose che, dato l'allora vigente regime di occupazione militare da parte
degli Alleati, non erano a conoscenza nemmeno di tutti i ferrovieri
italiani, e si appresero solo in seguito, nel corso del procedimento
giudiziario che venne provocato dai parenti delle 521 vittime.
Come gli altri treni circolanti sulla linea Battipaglia-Potenza, l'8017
veniva effettuato su ordini delle autorità alleate che specificavano il
numero dei carri che dovevano comporlo. Le Ferrovie italiane, del
materiale a loro disposizione, sceglievano quello adatto a quel percorso
e al tipo di trasporto che doveva essere effettuato. L'8017 del giorno 2
marzo venne costituito con 47 carri e due locomotive in testa, del tipo
a quattro assi accoppiati. Dai calcoli effettuati prima di comporre il
treno, venne rilevato, come dicemmo nella scorsa puntata, che esso
poteva «tirare», tenuto conto del carbone scadente, che veniva fornito
dalle autorità alleate, 600 tonnellate e non più (e abbiamo anche visto
che questo margine di sicurezza fu superato, se pure di poco, dato il
peso complessivo dei seicento viaggiatori abusivi). Il carbone era di
provenienza iugoslava. Esso non sviluppava un calore sufficiente per il
tipo di locomotive di cui disponevano le Ferrovie italiane; ed emanava
dalla combustione gas tossici che spesso stordivano i macchinisti.
IL TRAFFICO SULLE LINEE REQUISITE DAGLI ALLEATI
Questo inconveniente fu fatto rilevare alcune volte agli Alleati dal
capo del deposito del personale viaggiante di Salerno, Francesco Mittiga,
come egli stesso dichiarò in una deposizione resa il 25 maggio 1948; ma,
per esprimerci con le sue parole, «senza nulla ottenere, perché agli
Alleati si rifiutarono di prendere qualsiasi provvedimento». Lo stesso
Mitiga ci fornisce preziose indicazioni sul come si svolgeva, nel 1944,
il traffico sulle linee requisite dagli Alleati. Formalmente, la
direzione del movimento nelle stazioni era tenuta da funzionari
italiani; in realtà, le disposizioni erano impartite dagli Alleati, che
stabilivano la composizione dei treni e l'orario di partenza; per cui
l'attività dei capistazione era solamente esecutiva, diretta a rendere
possibile l'adempimento di quanto veniva stabilito dagli Alleati, i
quali si servivano di un loro personale tecnico composto di
capistazione, capitreno e deviatori, che impartivano gli ordini. Il
personale viaggiante dei treni era, però, italiano.
Il merci 8017 del 2 marzo 1944 venne costituito in tal modo. Esso
avrebbe dovuto viaggiare vuoto: solo un ufficiale italiano e sette
soldati, regolarmente autorizzati dal Comando alleato, avrebbero dovuto
prendervi posto. Ma abbiamo visto invece che il convoglio era gremito di
passeggeri abusivi, per lo più piccoli borsaneristi, dei quali il
personale italiano e gli stessi Alleati fingevano di non accorgersi,
essendosi compenetrati dei bisogni di tanta povera gente per la quale
era necessario, per i loro piccoli traffici, raggiungere quelle località
dove potevano rifornirsi di generi richiesti in città.
Formalmente vuoto, in realtà pieno zeppo di gente, il merci 8017,
scortato dal regolamentare «foglio veicoli» che gli Alleati redigevano
in duplice copia, partì da Napoli diretto a Potenza; e di qui, come già
dicemmo, doveva proseguire per Catanzaro a caricarvi del legname. Pesava
più delle seicento tonnellate che le locomotive potevano in teoria
trainare. Giunse a Balvano poco dopo mezzanotte, e ne ripartì dieci
minuti prima dell'una, con il suo carico di passeggeri (tutti abusivi,
meno l'ufficiale e i sette soldati autorizzati) che dormivano.
LE RUOTE GIRARONO A VUOTO SUI BINARI UMIDI
Il capostazione Vincenzo Maglio, l'operaio Vincenzo Biondi e il manovale
Angelo Caponegro lo videro avviarsi lentamente, mentre dai fumaioli
delle locomotive si levavano alti bioccoli di candido fumo, e imboccare
la prima galleria che si trova sul tratto da Balvano a Bella Muro, che
dista non più di duecento metri dalla stazione di Balvano. Il buio della
galleria lo inghiottì; per un po', si vide brillare il fanalino di coda,
sito all'esterno della garitta dove si trovava il frenatore Michele
Palo; poi, anche quel lume sparì dietro la prima curva. Nella stazione
di Balvano, il telegrafista dette al suo collega di Bella Muro il
segnale di «partito».
Subito dopo Balvano, il terreno incomincia a salire. Il merci 8017
superò facilmente la prima, breve galleria; anche la seconda fu
attraversata senza che, evidentemente, i macchinisti si rendessero conto
di qualche difficoltà. Il convoglio procedeva lentamente, in un
paesaggio orrido, fatto di rocce che assumono strane forme per la
nebbia. Dopo l'uscita dalla seconda galleria, i binari fanno una curva,
su un viadotto lungo un trecento metri, prima di inoltrarsi nella
galleria delle Armi, che si profila a sinistra, e il cui imbocco è
contraddistinto da una S segnata sulla parete di sinistra. I macchinisti
forse notarono (nessuno poté raccogliere le loro disposizioni, perché
furono i primi a morire) che la velocità dell'8017 non corrispondeva
alla pressione delle caldaie; ma dovettero pensare di potercela fare, e
proseguirono la corsa. Forse le loro supposizioni non erano del tutto
errate. Nonostante il limite massimo di peso fosse stato superato, però
non di molto, essi dovettero avere la netta sensazione di poter superare
anche la pendenza che presenta il terreno nella galleria delle Armi,
pendenza che raggiunge il 13 per mille.
Ma un altro imprevisto coefficiente si coalizzò con il peso, con il
sonno dei passeggeri e con la cattiva qualità del carbone, per
trasformare in una lunga bara il merci. Durante tutto il girono 2, in
Lucania aveva piovuto, una di quelle fastidiose pioggerelle che scendono
monotone, come costrette, da uno spesso banco di nubi basse. Alle
ventidue circa aveva smesso di piovere; ma l'aria era rimasta impregnata
di umidità, una umidità che era penetrata nelle gallerie fra Balvano e
Bella Muro, e aveva steso sui binari una specie di micidiale, viscido
manto scivoloso.
Il dramma avvenne rapidamente. Le locomotive avevano percorso di slancio
non più di duecento metri all'interno della galleria delle Armi, quando
i macchinisti si avvidero che le ruote trovandosi a dover girare proprio
nel posto dove la pendenza raggiunge il suo massimo valore, non
«mordevano» più i binari, e cominciavano a girare a vuoto, con una
velocità sempre maggiore, mentre il convoglio non avanzava più di un
metro.
I due macchinisti ed i due fuochisti del merci 8017 del 2 marzo furono i
primi a morire, lo abbiamo detto. Di fronte alla morte, un senso di
pietà dovrebbe sommergere ogni altra considerazione. Ma noi stiamo
facendo una rievocazione di un fatto, e la commozione non deve velarci
gli occhi. È indubbio (bisogna dirlo, se pure con rammarico) che il
personale di macchina commise un grave errore. Risultò dalle perizie
condotto dopo il disastro, che le caldaie, quando i macchinisti ed i
fuochisti si abbatterono, esanimi, sulle leve di comando, erano al
massimo della loro pressione. Dal fatto si può dedurre che essi, invece
di invertire immediatamente la marcia, e tentare di portare il treno
all'aperto, manovra che avrebbe richiesto non più di tre o quattro
minuti, commisero invece la grave imprudenza di aumentare la pressione
delle caldaie, nella speranza di riuscire forse a scuotere il pesante
convoglio dalla sua mortale inerzia. In quei tremendi attimi, essi
dovettero dimenticare o trascurare il gravissimo pericolo costituito dal
monossido di carbonio che si sprigionava dal carbone combusto, e la
tragedia si compì, sotto il segno di una fatalità tale dal lasciare
increduli, stupefatti.
Il monossido di carbonio è un veleno ad azione rapida. I macchinisti ne
aumentarono, certo senza volerlo, la produzione, alzando la pressione.
L'ovattato fumo che usciva dai fumaioli entrò nel loro abitacolo; il
veleno li prese alla gola, penetrò nei loro polmoni, li strozzò in
qualche minuto. Poi la nube mortale cominciò a stendersi, come una
specie di mostruoso serpente, nella galleria delle Armi, e si insinuò
nei carri dove i passeggeri dormivano; qui entrò a far parte del
meccanismo della loro respirazione, e li avvelenò senza scampo.
«LÀ SONO TUTTI MORTI» RIUSCÌ A DIRE IL FRENATORE
La drammaticità della tragedia è adesso acuita, ai nostri occhi, da un
altro elemento: il silenzio. Un naufragio, uno scontro, un crollo, una
battaglia sono rumorosi. La gente grida, impazzisce, si lamenta. Nella
galleria delle Armi questo pathos che precede di solito un dramma fu del
tutto assente. Nemmeno una voce commentò l'accaduto.
Tutti passarono dal sonno alla morte, tutti quelli che morirono, perché
non morirono tutti. L'ultimo vagone, infatti, non fu sommerso anch'esso
dalla nuvola di fumo, per fortuna; non lo fu, perché rimase per metà
all'aperto, come in bilico fra la vita e la morte, in parte dentro e in
parte fuori della galleria.
Che cosa avvenne dei suoi passeggeri, che quando si svegliarono, più
tardi, quasi impazzirono per il terrore, non siamo riusciti a saperlo.
Essi rientrarono nella vita di ogni giorno, con quel pesante ricordo nel
cuore; poiché non esisteva ovviamente una lista di nomi che potesse
metterci in condizioni di rintracciarli, non abbiamo potuto raccoglierne
le testimonianze. Abbiamo tentato di metterci in contatto con chi visse,
magari in uno stupefatto dormiveglia, quegli attimi in cui stavano per
varcare la soglia dell'ignoto; ma inutilmente; ci deve essere, in
costoro, un sentimento che deve portarli a fuggire quanto più è
possibile dal ricordo di quei momenti di incubo.
L'unico degli occupanti l'ultimo vagone che non poteva estraniarsi alla
tragedia, per la sua funzione, fu il frenatore Michele Palo. Egli non
aveva certo azionato i freni, cosa che viene effettuata quando, con una
richiesta convenzionale, espressa con un fischio dai macchinisti, i
frenatori vengono avvertiti della necessità di manovrare la ruota che
serve a bloccare la vettura in cui si trovano.
Michele Palo stava riscaldandosi, quando avvenne il disastro, con un
fuocherello fatto accendendo alcuni giornali strettamente strizzati, un
artifizio messo in atto di solito dai frenatori per far durare il fuoco
più a lungo. Non pensava assolutamente a niente, tranne che a combattere
il freddo umido della notte con quel fuocherello sul quale si era come
accartocciato. Non pensò nemmeno a guardare l'orologio, quando si avvide
che il treno si era fermato, e perciò non possiamo conoscere l'ora
esatta in cui la tragedia ebbe inizio. Egli rimase tanto stupefatto
dell'inconsueto accaduto (non si era potuto rendere conto di quello che
era avvenuto nelle due locomotive) che non pensò ad altro se non a
scendere per vedere che diamine era successo, perché fosse stato
necessario arrestare, senza chiedere la sua opera, il treno. Si avviò,
quindi, verso l'interno della galleria. Percorso che ebbe qualche metro,
si sentì aggredire alla gola dall'aspro odore del monossido di carbonio.
Barcollò per un attimo, sopraffatto dalla nausea e dalla tremenda
rivelazione, si voltò verso l'imbocco del budello, e si mise a correre.
Tornato all'aria aperta, le gambe gli si paralizzarono sotto. Rimase,
così, fermo, per qualche istante, mentre una massa di confusi pensieri
gli sconvolgeva la mente. Il tremendo silenzio di morte che gli era alle
spalle gli parve dovesse raggiungere, implacabile, anche lui. Il
pensiero della morte evocò per contrasto subito, nella sua mente, quello
della vita: a Balvano era la vita, qui alla galleria delle Armi, la
morte; doveva raggiungere al più presto Balvano. Michele Palo riuscì a
scuotersi dal torpore che lo aveva come irrigidito. Emise un terribile
grido, e si precipitò, seguendo i binari, verso Balvano.
Nel 1944, Michele Palo era ancora giovane: dalla galleria delle Armi,
non doveva percorrere, per raggiungere Balvano, più di quattro
chilometri e per di più in discesa. In meno di un'ora di marcia, a buon
passo, la cosa è possibile. Invece, di ore egli ne impiegò due: pure,
gli parve di correre, di volare. È chiaro che il povero frenatore doveva
essere tanto sconvolto, quasi privo di sensi, che credeva di correre, ed
invece si trascinava. Esausto, con gli abiti a brandelli (non capì mai
come avesse potuto lacerarseli), alle tre del 3 marzo 1944 Michele Palo
vide finalmente, uscito che fu dalla prima galleria, quella che dista un
duecento metri da Balvano, le luci della stazione. Come attraverso
un'ombra, i suoi occhi videro che sul binario stava, sotto pressione,
una locomotiva; capì che a Balvano avevano saputo, se non proprio del
disastro, qualcosa. Percorse gli ultimi metri carponi, con una
stanchezza nelle membra quale mai aveva avvertito; quando giunse vicino
a Vincenzo Biondi e ad Angelo Caponegro, non ebbe la forza di
pronunciare una frase compiuta. Tremava, emetteva suoni sconnessi dalle
labbra. «Che è successo, che è stato?» gli gridarono l'operaio e il
manovale. Prima di venir meno Michele Palo riuscì a proferire: «Là, là,
sono tutti morti, tutti morti». Poi, cadde sul marciapiede mentre l'eco
delle sue parole giungeva all'orecchio del capostazione Vincenzo Maglio
e del vice capostazione Giuseppe Colonia.
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[Terza puntata - 25 marzo 1956, pagine 37-41]
Il più grande disastro ferroviario del mondo
IN PUNTA DI PIEDI I FERROVIERI SI AVVICINARONO AL TRENO DEI MORTI
* Nessuno si preoccupò del ritardo: in quei tempi accadeva spesso che
per percorrere sette chilometri fossero necessarie più di due ore
* Cosa succedeva nelle stazioni di partenza e di arrivo mentre 521
persone morivano sotto la galleria delle Armi
* Il «merci» fu raggiunto alle quattro del mattino, tre ore dopo la sua
partenza da Balvano. Del gas omicida non rimaneva alcuna traccia
* Soltanto sull'ultimo vagone, fermo a metà fuori della galleria,
qualche viaggiatore respirava ancora. Il resto del treno era immerso nel
silenzio
* Abbiamo potuto rintracciare due superstiti. Uno ha perso la ragione,
l'altro, da allora, ha i capelli bianchi.
Roccarainola
Domenico Miele è uno dei superstiti. Deve la vita alla sciarpa di lana,
che porta sempre al collo, come un portafortuna. Ha la stessa età del
giovane alla sua destra: nella notte della tragedia i suoi capelli
incanutirono.
Che cosa accadeva nelle stazioni di Balvano-Ricigliano e di Bella-Muro
mentre il merci 8017 era fermo sotto la galleria delle Armi, dove il
monossido di carbonio sprigionato dal carbone iugoslavo stava
asfissiando quasi tutti i viaggiatori che avevano preso irregolarmente
posto nel convoglio?
Alle 0,50 del 3 marzo del 1944, subito dopo la sua partenza, il
telegrafista della stazione di Balvano trasmise a Bella-Muro il
regolamentare avviso di «partito» relativo al treno 8017. Esso avrebbe
dovuto giungere a Bella-Muro al più tardi in una mezz'ora: non vi
giunse, abbiamo già visto perché. Nonostante questo fatto, Bella-Muro
non entrò in allarme; e nemmeno entrò in allarme la stazione di Balvano,
che non ebbe da Bella-Muro il segnale di «giunto».
Un giornale che, nel 1951, fece una breve cronaca del disastro scrisse
che questo fu, in un certo senso, l'aspetto più fosco ed inspiegabile
della sciagura; e asserì che il personale delle due stazioni non si
preoccupò di chiedere in qualche modo notizia del «convoglio fantasma».
Un fatto gravissimo, secondo quel giornale. E davvero lo sarebbe, se non
ci fosse una qualche spiegazione della cosa; davvero il fatto getterebbe
una luce sinistra sui ferrovieri delle due stazioni, i quali avrebbero
preferito andarsene tranquillamente a riposare, senza pensare, dato il
grave ritardo, alla possibilità di un disastro.
Ma in realtà, come ricordammo nella prima puntata di questa nostra
rievocazione, dodici anni fa, nell'Italia meridionale, i treni partivano
forse in orario, ma per la strada perdevano di vista questo orario, e
accumulavano ritardi assolutamente incredibili. Come risultò durante il
procedimento giudiziario che seguì la tristissima vicenda, il tratto
Balvano-Bella-Muro, benché la distanza fra le due stazioni fosse solo di
sette chilometri, veniva compiuto talvolta, dai treni che lo
percorrevano, anche in 120 minuti. Questo è un dato di fatto che può
spiegare l'apparente disinteresse dei funzionari delle due stazioni, un
disinteresse che solo per un caso assunse, più tardi, l'aspetto di una
trascuratezza colpevole.
A Balvano, la notte fra il 2 e il 3 marzo 1944, il capostazione titolare
Vincenzo Maglio, dopo aver dato il segnale di partenza al merci 8017, se
ne andò a casa a dormire, nella massima tranquillità di spirito. Non
v'era motivo perché fosse turbato; non ebbe nessuna premonizione. Si
accertò che il capostazione Giuseppe Salonia sarebbe rimasto al suo
posto, per assicurare il regolare svolgimento del servizio; salutò
tutti, e se ne andò a casa. Il capostazione Salonia si sedette dietro la
sua scrivania, e si mise ad attendere: da Battipaglia doveva giungere,
alle 2,40, un altro treno diretto a Potenza; egli doveva aspettarne
l'arrivo, e «istradarlo». L'8025 giunse stranamente in orario. E fu
allora che, dovendolo avviare, Giuseppe Salonia incominciò a pensare che
bisognava sapere qualcosa circa l'eccessivo ritardo del merci 8017;
infatti, essendo la linea Battipali-Potenza servita in quasi tutto il
suo percorso da un solo binario, non poteva far partire l'8025 se non
quando avesse accertato che la linea era sgombra.
Quasi contemporaneamente, anche il capostazione di Bella-Muro pensò le
stesse cose: perché potesse entrare in stazione il treno 8025 occorreva
che, prima di esso, il merci 8017 continuasse la sua corsa. Dopo aver
atteso anche lui senza troppo preoccuparsi fino alle 2,50 (da dieci
minuti l'8025 era giunto, intanto, a Balvano), telefonò al collega
Giuseppe Salonia.
FINALMENTE SI DECIDE DI ISPEZIONARE LA LINEA
Attualmente i due funzionari non lo ricordano, perché i loro ricordi
furono sommersi dalla terribile realtà alla quale si trovarono di fronte
in seguito: ma forse, nel corso di quella telefonata, mentre gli
occupanti dell'8017 erano già freddi cadaveri, essi scherzarono
sull'inefficienza del materiale rotabile allora in funzione, attribuendo
il ritardo a qualche guasto. In ogni caso, poiché del merci non si erano
avute notizie, si rendeva necessaria una ispezione della linea, per
vedere se, dove e perché l'8017 si era fermato; perciò Giuseppe Salonia
disse al collega che avrebbe provveduto lui ad un sopraluogo; e, per
effettuarlo, dette ordine ad Angelo Caponegro e a Vincenzo Biondi,
rispettivamente manovale ed operaio di prima classe, di staccare dal
treno 8025, giunto alle0,40, la locomotiva, sulla quale sarebbe salito
per una ricognizione.
Poiché ancora non sapevano niente del disastro, i ferrovieri di Balvano
apparvero più seccati che altro per il fatto che li costringeva ad un
lavoro straordinario piuttosto noioso. Brontolando, essi staccarono la
locomotiva del treno 8025, e si dettero alla ricerca di attrezzi e di
lanterne. Sulla locomotiva salì il capostazione Salonia. Già la macchina
stava per avviarsi, e Angelo Caponegro e Vincenzo Biondi si erano un po'
scostati da essa, sul marciapiede della stazione, quando dall'ombra
emerse, come una specie di fantasma lacero, Michele Palo, il frenatore
della vettura di coda dell'8017, il quale partito dalla galleria delle
Armi a piedi, verso l'una, aveva impiegato due ore per giungere a
Balvano. La sua apparizione fece capire che qualcosa di drammatico era
avvenuto; le sue parole: «Là, là, sono tutti morti!» lo confermarono.
Giuseppe Salonia scese dalla locomotiva. Con una freddezza della quale
lui stesso si stupì in seguito, prese in mano la situazione; ordinò ad
un guardasala di svegliare il capostazione titolare Maglio, e di recarsi
subito dopo in paese (Balvano dista tre chilometri dalla stazione) per
avvertire i carabinieri, il pretore ed il sindaco ingegner Alessandro di
Stasio, che adesso vive a Potenza. Poi risalì sulla locomotiva, mentre
Angelo Caponegro e Vincenzo Biondi si prodigavano per soccorrere Michele
Palo; e si avviò verso il posto (che ancora non si sapeva quale fosse)
dove avrebbe dovuto trovare i morti di cui il frenatore aveva parlato.
L'8017 stava fermo lì, all'imbocco della galleria delle Armi, in un
innaturale silenzio. Dei suoi 47 vagoni, solo l'ultimo era fermo a metà
fuori dalla galleria; di essi, 41 erano vuoti, perché chiusi con un
catenaccio applicato alle serrande scorrevoli; gli altri sei erano
quelli in cui si erano ammucchiati circa seicento passeggeri in un certo
senso clandestini, più un ufficiale e sette soldati autorizzati a
viaggiare sul merci.
Come scrivemmo in un'altra puntata, quasi tutti i viaggiatori erano
piccoli borsaneristi che si recavano in Lucania per rifornirsi di generi
alimentari che poi vendevano a Napoli. Ma c'era anche chi non aveva
niente a che fare con l'ambiguo mondo dei piccoli trafficanti, tipico di
quel periodo. Molte persone le quali, per la loro attività, dovevano
forzatamente spostarsi fra Potenza e i centri della Campania si vedevano
costrette a servirsi anch'esse di qualsiasi mezzo pur di non trascurare
i propri interessi. Si trattava di commercianti, di studenti, di
professori, di medici; tutta gente munita magari di regolare biglietto,
o anche di un abbonamento settimanale, come ad esempio il professor
Vincenzo Iura, dell'università di Bari. Il professor Iura si trovava in
un carro di cui divideva le scomodità con novanta studenti della sua
facoltà, costretti, per recarsi a Bari dal centro della Campania dove
risiedevano, a raggiungere la città presso la cui università erano
iscritti per la via di Potenza.
Il professor Vincenzo Iura, un noto chirurgo, era con loro perché non
aveva voluto, durante quei difficili anni, benché vivesse nella capitale
della Puglia, abbandonare il suo lavoro di consulente dell'ospedale San
Carlo di Potenza e dell'ospedale Sant'Anna di Eboli. Alle spalle di
Vincenzo Iura era tutta una carriera in cui l'attività scientifica si
era sposata ad un profondo senso di umanità. Ad Eboli, dove ci siamo
recati per raccogliere qualche testimonianza, tutti lo ricordano ancora
con commozione. Le suore dell'ospedale, i dottori Imperato, Cassese e
Paesano ricordano che il più delle volte operava gratuitamente. Dopo
quel 3 marzo del 1944 l'università di Bari, dov'era ordinario di
patologia chirurgica e di propedeutica clinica, promise ai suoi
familiari che egli sarebbe stato ricordato con una lapide di marmo,
lapide che sia detto per inciso non fu eseguita.
Quando il capostazione Giuseppe Salonia giunse, con la locomotiva
dell'8025, sul viadotto che precede di poche centinaia di metri
l'imbocco della galleria delle Armi, erano le quattro circa del 3 marzo
1944. Una luce livida, quella dell'alba grigiastra, incominciava a
rischiarare il paesaggio lunare, denso di rocce e di cespugli che ancora
l'ultima neve screziava di bianco. L'ultimo vagone del merci 8017 si
intravedeva a stento. In punta di piedi, religiosamente, Giuseppe
Salonia, il macchinista ed il fuochista della macchina che li aveva
portati sul luogo della sciagura si avvicinarono al treno.
IL TRENO RITORNA A BALVANO CON I MORTI
A tre ore di distanza dal momento in cui si era compiuto il tragico
destino dei viaggiatori dell'8017, nessuna traccia rimaneva
dell'accaduto. Il fumo saturo di veleno che aveva ucciso 521 viaggiatori
si era ormai diradato. Giuseppe Salonia ripeteva tra sé, in una specie
di monotona cantilena: «Ma è impossibile, ma è impossibile». Come tre
automi, lui, il macchinista ed il fuochista sbloccarono i freni del
merci, lo agganciarono in coda con la loro locomotiva, lo rimorchiarono
alla stazione di Balvano. Qui trovarono ad attenderli il titolare
Maglio, il pretore, il sindaco ed i carabinieri. Qualcuno salì sui carri
gremiti di «abusivi»; nei primi cinque giacevano morti compostamente,
come se ancora dormissero, tutti i loro occupanti; nell'ultimo, il
silenzio non era così completo ed agghiacciante: i viaggiatori stipati
in esso erano rimasti fra la vita e la morte; qualcuno aveva ceduto; i
più, invece, erano rimasti semiasfissiati, per la benefica azione
esercitata dall'aria pura che si respirava all'ingresso della galleria
delle Armi. I morti vennero scaricati sui marciapiedi della stazione di
Balvano; i vivi furono ammucchiati nella piccola sala d'aspetto e nelle
stanze degli uffici. Si tentò in ogni modo di rianimare questi ultimi,
ma lo stato di stupefatto torpore nel quale si trovavano non sparì che
qualche ora più tardi, quando grossi autocarri giunti da Potenza li
trasportarono nell'ospedale civile di quella città. Coloro che
sopravvissero al disastro non riuscirono, negli anni seguenti, a
ricostruirlo nella loro memoria. Prima di cadere in quella specie di
torpore quasi mortale, Luigi Cozzolino, un piccolo trafficante di
Resina, dovette accorgersi che un suo figlioletto di otto anni, che
viaggiava con lui, era morto, perché lo ritrovarono abbracciato al corpo
esanime del bambino. Forse, come tutti gli altri, Luigi Cozzolino
dormiva. Si svegliò quando si sentì aggredire alla gola da un sapore
aspro; e vide che già suo figlio era morto. In quell'attimo terribile,
il suo cervello si svuotò di ogni pensiero ragionevole, e divenne preda
di una benigna follia. Lo rinvennero abbracciato al bimbo, dimentico di
tutto. Tornò a casa, a Resina, e qui lo abbiamo rintracciato e
fotografato. È rimasto, di lui, un uomo incapace di fare un discorso
coerente; nei suoi occhi è una pena inenarrabile, della quale per
fortuna lui stesso non si rende conto.
UNO CHE DEVE LA VITA A UNA SCIARPA DI LANA
Abbiamo scritto, nella scorsa puntata, che non eravamo riusciti a
rintracciare nessuno dei superstiti del disastro ferroviario più
impressionante del mondo; dobbiamo modificare questa affermazione.
Infatti, abbiamo potuto vedere Luigi Cozzolino; e dopo una lunga e
difficile indagine siamo anche entrati in contatto con Domenico Miele,
di Roccarainola. Guardatene la fotografia, quella che lo riproduce
mentre, seduto al bordo del suo campiello con quattro suoi conoscenti,
racconta quello che avvenne. Vedrete l'immagine di un uomo anziano, dai
capelli bianchi, con una sciarpa alla gola e una sigaretta fra le dita
della mano sinistra. È senz'altro, all'apparenza, il più vecchio dei
cinque individui ritratti. Invece, ha la stessa età del giovane coi
baffi che si trova alla sua destra. I capelli bianchi di Domenico Miele
sono un ricordo del merci 8017. Egli si recava sistematicamente, nel
1944, a Potenza, dove comperava olio, che rivendeva nei dintorni di
Napoli. Avrebbe dovuto morire, perché prese posto nel quinto carro del
merci 8017. Per un puro caso, era però ben sveglio, quando il monossido
di carbonio si sparse all'interno della galleria delle Armi. A Balvano
scese un momento dal vagone ed ebbe salva la vita. La sciarpa che si è
messa al collo prima di essere fotografato, gli fu anche d'aiuto. Appena
il monossido di carbonio lo aggredì, Domenico Miele si fasciò la bocca
con la sciarpa. Barcollando, col fiato mozzo, scese dal suo vagone, e si
diresse verso l'uscita della galleria delle Armi. Quando giunse
all'ultimo carro, le forze gli vennero meno. Sentì dei lamenti, e invece
di compiere altri pochi metri, e mettersi definitivamente in salvo allo
scoperto, salì su quel carro, e cadde svenuto sui corpi abbandonati di
chi l'occupava. Quando si riebbe, dopo qualche ora, gli capitò di
trovarsi, per ravviarsi nervosamente i capelli, davanti ad uno specchio.
Guardò esterrefatto la sua immagine riflessa. I suoi capelli erano
diventati tutti bianchi come la neve.
Anche lui venne deposto sui marciapiedi della stazione di Balvano con
gli altri occupanti dell'8017. Mentre alcuni autocarri si dirigevano
velocemente verso quella stazione, da Potenza, ferrovieri e carabinieri
effettuavano il macabro lavoro di separare i morti dai vivi, e di
identificare tutti i colpiti. Nell'orgasmo con cui questa operazione
vene compiuta, non fu fatto nemmeno un esatto calcolo numerico dei
viaggiatori dell'8017. Possiamo però affermare, in contrasto con quanto
sostiene qualcuno, che i morti furono 521, dei quali 193 non
identificati.
Era
pieno mattino quando giunsero gli autocarri da Potenza. Dopo le
constatazioni di rito, il pretore dispose per il seppellimento dei
morti. Il cimitero di Balvano è piccolo; venne perciò scavata una grande
fossa comune, e qui furono ammucchiati i cadaveri, sui quali fu gettato
uno strato di calce. Più tardi, per l'intervento di qualche parente
alcune salme furono sistemate in una tomba a parte. Gli scampati vennero
avviati all'ospedale di Potenza: ne furono dimessi dopo pochi giorni.
Trascorse qualche anno. A un certo momento, ci fu chi pensò di citar per
i danni le Ferrovie dello Stato. Un certo numero di vedove, di orfani,
di genitori privati dei figli si rivolsero ad alcuni avvocati
napoletani; ed ebbe così inizio una lunga vertenza giudiziaria, che non
giunse alla sua conclusione. Nel corso di essa, le Ferrovie dello Stato
sostennero che, dato l'allora vigente regime di occupazione militare da
parte del governo alleato, e dato il fatto che agli occupanti dell'8017
non poteva essere riconosciuta la qualifica di viaggiatori regolari,
nessuna responsabilità poteva essere addebitata all'amministrazione.
Il
governo alleato aveva condotto intanto un'inchiesta sull'accaduto,
concludendola con l'esclusione di ogni responsabilità da parte del
personale delle Ferrovie. I giudici italiani, però, non espressero
recisamente lo stesso pensiero. Se era vero che i viaggiatori dell'8017
erano tutti «abusivi», come la cosa poteva conciliarsi con l'esibizione,
da parte degli avvocati, di alcuni biglietti rilasciati dal personale di
scorta la treno? D'altra parte, si affermò nel corso della vertenza, non
è vero che un viaggiatore non possa assolutamente prendere posto su un
merci. Se la cosa accade, egli deve pagare il biglietto ed una penale, e
scendere alla prima stazione. Però può risalire sullo stesso merci,
pagare ancora un biglietto ed una penale, scendere alla stazione
seguente; e poi ancora risalire e pagare biglietto e penale e così via
fino alla fine del viaggio. Non si può dire, però, che la cosa si sia
verificata sul «treno della morte» di Balvano. Così come non si poté
provare che l'esercizio della linea Napoli-Potenza era stato affidato
alle Ferrovie italiane il 15 febbraio del 1944. Una circolare in tal
senso venne diramata effettivamente dal compartimento di Napoli. Ma
forse essa non era ancora entrata in fase di esecuzione al tempo della
sciagura.
MOLTE OMBRE CHE NON SONO STATE DIRADATE
In
sostanza, sul piano giudiziario il disastro ferroviario di Balvano
rimase avvolto da alcune ombre, che non si son potute diradare; perché,
a un certo momento, nella questione intervenne, con un senso di umanità
raro nella burocrazia, il ministero del Tesoro, che propose di risarcire
le famiglie dei morti in base alla legge sui danni di guerra. Il
procedimento giudiziario venne così sospeso. Ma la burocrazia riscattò
la sua precedente benemerenza con il ritardo nelle liquidazioni. Esse,
infatti, non sono ancora state versate a coloro i quali debbono godere
di questo beneficio, che è un fatto materiale, non sufficiente in ogni
caso a compensare quel terribile fatto che è la morte.
Intanto, il ministero dei Trasporti ha ordinato, per la modernizzazione
della linea Battipaglia-Taranto, la costruzione di venticinque
locomotive Diesel di tipo americano. Quando esse entreranno in
esercizio, disastri come quello che abbiamo rievocato non ne potranno
più accadere. È da sperare che la loro immissione sulla linea non
preceda la liquidazione dei danni alle famiglie delle vittime. Se così
sarà, in un certo senso potremo dire che la tragedia di Balvano sarà
finalmente un fatto definitivamente compiuto.
Giulio Frisoli
Finirono di vivere tutti alla stessa ora e nello stesso buio.
Balvano. L'8017 fu rimorchiato fino a Balvano da una locomotiva di
soccorso. I cadaveri furono deposti sulla banchina della stazione e
accanto ai binari.
Balvano. Con gli autocarri arrivati da Potenza, le salme furono
trasportate al cimitero di Balvano, che dista tre chilometri dalla
stazione, e subito sepolte.
Balvano. I 521 morti dell'8017 furono sepolti in una fossa comune, che
fu ricoperta di calce viva. Soltanto più tardi, per desiderio dei
parenti, alcune salme furono riesumate e sepolte più decorosamente.
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