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MOLITERNO


Qui le innocenti ecloghe dei pastori nei piani soleggiati, lungo le costiere armoniose, entro i seni delle foreste profonde. Qui, da rustici Alcimedonti, avranno essi tagliato nel faggio gli ansati bicchieri per le loro ebbrezze discordi; o insufflato le avene, le siringhe, le fistole, o si saranno cimentati negl’ingegnosi amebei; e i Condoni, i Dameti, i Menalchi avranno tessuto calati per le Galatee e le Amarillidi dai superbi fastidi.
Poi molti di loro, nelle albe sorridenti, lasciando gli stazzi, avranno recato i redi e il latte novello ai padroni dimoranti lì a pochi stadi, nella comoda città dai tempi sontuosi e dalle lucide case, che si chiamava Grumento ed è ancor oggi come il miluogo della storia nostra.
Ma, sopraggiunto l’evo barbarico, in cui quelle case e quei templi e quella città rovinarono tra percosse di arieti ed immani lingue di fiamme, dovett’essere per le selve un correre precipitoso di Ninfe e Silvani atterriti. Fuggivano i placidi iddii e abbandonavano per sempre i cari luoghi signoreggiati; ma quei pastori, no: ché essi avevano i propri abituri nelle forre, sotto gli alberi e quivi le gioie e gli averi, ove poteva bensi colpirli la folgore dei cielo, non già l’abiezione degli uomini.
E cosi tanti secoli oscuri volsero sulle oscure loro vicende.

Dall’ idillio alla storia. Dalle pacifiche convivenze sotto i cieli sereni, all’età ferrea in cui la buona punta della spada difendeva il torto e il diritto. Correvano i tempi dei Normanni, di quegli originari, tremendi razziatori notturni che, dirozzati e aggranditi dalla fede di Cristo, s’erano poi abilmente costituiti signori del piede d’Italia.
Avvenne qui come altrove. L’ ordinamento del vilanatico vi s’ instaurò, e militi e gasindi padroneggiarono questi territori, che vennero così partiti in villani o rustici: vai quanto dire in tanti capi di bestiame e tante famiglie soggette agli obblighi feudali. E dunque? Dunque quei Villani ovvero rustici si assembrarono in gruppi di capanne su questi paraggi, ed ecco (oh balorde creazioni dell’evo mezzano!) ecco la genesi di un villaggio, di questo, di quel villaggio qualsiasi, che pure domani potrebb’essere una città ed anche — permettetemi il dire una grande città.
Sulla nuda capanna la solida casa, sulla solida casa il castello massiccio con le torri e i barbacani: pietra su pietra, muro su muro, tetto su tetto, ed ecco un paese, questo come quello. Bello anche? E perché no? Bello doveva essere ai nostri arcavoli. E si capisce: si trova bello ciò che ci serve bene.
Dopo i Normanni gli Svevi. Pochissime o punto memorie. E possiamo di qua senza indizio sorvolare i tempi che precorsero e seguirono il secolo XV, durante il quale Moliterno fu il dominio dei Sansevenino che allora possedevano mezza provincia. E del secolo XVI — allorquando pei signorotti ontosi, vessatori dei nostri piccini, la legge non era, come il Racioppi dice, che “una tela di ragno,, — una supplica dei Moliternesi tendente a ottenere, che “ i suoi abitanti, se carcerati, non siano tenuti ai ceppi nella torre di quel Castello, ch’era una triste muda da belve ,,. Ed il resto si sa o s’inferisce dalla logica del tempo. Generalmente “in dulces Lucaniae recessus ,, tra il 1500 e il 1600 il quadro lacrimevole che dipinsero l’insano prepotere e la cieca albagia degli eccellentissimi baroni — unici barbassoni è da per tutto lo stesso. Direpzioni, espilazioni “ stupri, ratti di donne oneste, lezioni di prudenza manesche, mariti recalcitranti, ferimenti ed omicidi per un nonnulla a sfoggio di forza che atterrisca Effetti, segnatamente, della dominazione spagnola, per cui si andò formando anche qui un ambiente in nulla dissimile da quello de I promessi Sposi.
“Il barone — dice ancora il Racioppi (1) — comandava la gente alle opere servili di zappare o mietere, o portare lettere da corrieri, senza mercede...
Il popolo fu obbligato parecchi anni ai lavori occorsi alla costruzione sì del mulino e sì del palazzo baronale, senza mercede. Le donne, non pure a tessere o filare per la comodità della casa del feudatario, erano comandate al trasporto di pietre, calce, acque, legnami. Arrivando ospiti al palazzo, i suoi famigli vanno in volta per la terra e prendono ai vassalli coltri, lenzuola e materassi del letto, in servizio della corte, ed anche bestie da soma, se occorrono. A cibare i suoi sparvieri manda a prendere il pollame che razzola per le vie.
Ed è proprio da invidiare la vicina Saponara, che in quel torno di tempo viveva sotto la fastosa signoria dei Sansevenino ed era anzi allietata dai canti celebrati di una pastorella arcadica, la Contessa Aurora, figlia di Don Carlo, il quale — primo nella provincia —avrebbe dato alle scene un melodramma dal titolo “1’Elidoro ,, o il fingere per vivere.
Ma benanche Moliterno doveva vantare la sua piccola età dell’oro, allorquando, verso la metà del ‘700, si facevano frequenti le visite e gli accademici torneamenti del suo feudatario, don Giambattista Pignatelli, di cui il Gatta — in quelle sue distese” Memorie topografico-storiche,, dedicate a D. Ippolita Spinelli, signora di quasi trenta feudi — dice che seppe fra gli agi e grandezza di sua casa vivere disingannato del mondo.
Questo Giambattista Pignatelli, che doveva tenersi del Principato di Marsiconuovo — dove secondo una vecchia tradizione avrebbe menato vita penitente Agnese di Aquino, sorella dell’angelico Tommaso, congiunto dei Conti Sansevenino — veniva sovente per svago a tener corte nel suo Castello di Moliterno. E in che questa sua corte consistesse ce lo dicono i Gesuiti che ci lasciarono scritta la vita di lui. “ Una adunanza accademica, in cui due volte per settimana intervenir dovevano i più intelligenti del paese, parte per discorrere e parte per ascoltare. Al padre Biancullo, domenicano, di essi la incombenza di favellare sopra i testi più difficili della Bibbia; il p. Antonio da Potenza, francescano, per filosofiche e teologiche questioni, tre o quattro giureconsulti i più classici della giurisprudenza. Ai giovani meno esperti assegnossi a tradurre il Baronio, ed altri a ripetere la somma delle lezioni di Ferdinando Zucconi.
Il Principe assegnava le materie e ripartiva i soggetti. Al fine dell’erudito trattenimento dispensare faceva rinfreschi secondo le stagioni, trattone la quaresima ,,. (Il Principe era noto per pietà beghina e per dottrina teologica). E da questi gentiluomini di corte che ebbe forse incremento e fiori di poi per non più che un secolo il patriziato di Moliterno, ora sostituito dall’aristocrazia del possesso.
Al paese non mancò un teatro, che fu opera del 1772 (al presente non si vede che in pochissimi avanzi) ove dalla gioventù colta si rappresentavano commedie e tragicommedie del Cerlone non che drammi del Metastasio.
Degni particolarmente di lettura per la loro amenità sarebbero gli avvisi a ben recitarsi che avevano scritti su d’ una parete del palcoscenico... “ Il suggeritore non si faccia udire dagli ascoltatori. L’attore gestisca con mano destra, raro con la sinistra. Reciti con voce ferma e naturale, adagio, ma non troppo. Fuori cantilena e declamazione! Chi fa la donna stia col petto verso l’udienza. Stia accorto all’uscire ed entrare di scena: ed avrà il viva.
Pur dopo tutto l’esposto, Moliterno non avrebbe una storia ove non se la fosse creata da sé col dare all’umanità le opere incivilitrici di uomini illustri per scienza per arte o per cultura, che furono suoi gloriosi portati.
Primo dei primi giova ricordare Ferdinando Petruccelli della Gattina, nato in Moliterno ai 28 agosto 1815, morto a Parigi il 19 marzo 1890: campione veemente del pensiero lucano, che a galoppo sul suo genio bizzarro passò sdegnosamente tra i sogli superbi e i popoli asserviti come un indomito cavaliere antico, propugnatore di eroismo e di libertà.
Non è qui il luogo di parlare della complessa opera di questo grande scrittore nostro, che, dalla nostra storia al romanzo e alla satira, dalla sottile critica d’arte alle profonde cogitazioni politiche, dalle sapienti note scientifiche alle polemiche fitte del giornale, percorse in lungo e in largo tanta parte dello scibile, lasciando nel mondo civile  fama durevole di se.
Né taceremo di Giacomo Racioppi qui nato al 21 di maggio del 1827, morto a Roma il 21 di marzo 1908. Enumererò le cariche da lui rivestite, riserbandomi a miglior tempo l’assunto di parlare delle sue opere, di cui conosco fra grandi e piccole quasi trenta. Fece egli parte del Governo prodittatoriale, fu Vice Governatore della Provincia e poi Consigliere delegato delle Prefetture di Potenza e di Napoli. Nominato Direttore Generale della Statistica e dell’Economato Generale presso il Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, fu indi Consigliere Governativo, reggente del Banco di Napoli, Consigliere di Stato e, da ultimo, Senatore del Regno.
Il figlio di lui, Francesco, ingegno sveglio e acutissimo, che tanto faceva sperare di sé, mori giovanissimo nel 1905, essendo professore di diritto pubblico all’ Università di Cagliari.
Ebbe, inoltre, qui culla Giuseppe Parisi, Tenente Generale dell’ Esercito del Regno delle Due Sicilie, nato ai 27 marzo 1745. Ingegnere Militare e professore di matematica nell’Accademia del Battaglione Regal Ferdinando, da valente conoscitore dell’arte della guerra scrisse un trattato di architettura militare che lo rese stimatissimo ai suoi tempi e gli procurò gradi e onori.
Fu il fondatore del Collegio Militare dell’Annunziatella e morì a Napoli il 14 maggio 1831.
A Moliterno vide la luce, il 18 marzo 1877, quel Domenico Cassini, che fu l’avvocato principe del foro napoletano; autore delle famose Allegazioni raccolte nella nostra Biblioteca Comunale in otto e più volumi. Spirò in Napoli ai 14 di giugno 1837.
E Tiberio Petruccelli, nato 1’8 settembre 1823, morto il 19 dicembre 1872, primo Sindaco del paese, anima grande di patriota. Nella reazione borbonica del 1849 si trovò insieme col Settembrini e lo Scialoia nel carcere di Santa Maria Apparente, ove compose una romanza dal titolo” La Coccarda tricolore ,,. Il Racioppi dice che in essa “ il sentimento del più puro patriottismo gemeva in versi squisitamente teneri e delicati. Chiaramonti li tradusse in musica e un bel giorno la romanza fu cantata nelle sale del parlatorio a mezza voce da un coro di fanciulle elette.
Non guari dopo il canto, la si udiva ripetere dai balconi dai villini d’intorno e poi da tutta Napoli; e l’eco della musica tornava donde era partita, conforto, augurio, speranza
Nostro fu pure Michele Del Monte, nato il 10 giugno 1838, valentissimo oculista, autore di parecchi trattati dei quali uno sull’Oftalmiatria tradotto in diverse lingue, un altro sulla Clinica oculistica, opera enciclopedica della materia; un altro ancora sull’Igiene degli occhi dedicato al padre Innocenzo Del Monte. Insieme con queste opere ci pervennero di lui degli opuscoli vari, uno dei quali contiene la statistica esatta di 138 operazioni da lui fatte sull’estrazione lineare modificata della cateratta. Morì in Napoli ai 28 novembre 1885, lasciandovi gran rinomanza.
Nacque e visse alcuni anni tra noi il Gen. Achille Mazzitelli, già Deputato al Parlamento e precettore di S. M. Vittorio Emanuele III.
Per le sue rare virtù di guerriero e di stratega era già designato al Comando Supremo della guerra libica, al posto che fu poi di Caneva, quando improvvisamente morì. Ci lasciò un’Arte Militare che scrisse negli anni d’insegnamento all’ Accademia Militare.
Di Moliterno furono anche Francesco Lovito e Francesco Dagosto. Il primo, insieme col Racioppi fu del Governo prodittatoriale, e, assai più tardi, Ministro della guerra. Per ben 43 anni partecipò alacremente alla vita parlamentare, noto e stimato per la fermezza del carattere e l’attaccamento alla terra sua, ov’egli accolse ed ospitò Zanardelli durante il suo messianico viaggio per la Basilicata.
Il secondo, nato il 7 Aprile 1853, morto il 16 luglio 1918, fu penalista di molto grido e Deputato al Parlamento per la XXII e XXIII legislatura.
E nel novero delle nostre personalità elette, dovere vuole s’includa anche il nome del Grand’Uff. Antonio di Biase, che ha compiuto una brillantissima carriera amministrativa ed attualmente, così giovine, è Prefetto della Provincia di Taranto.
Di uomini insigni per prelature abbiamo al presente S. E. Mons. Pietro Di Maria, Nunzio Pontificio a Berna, che ci auguriamo di presto salutare Cardinale.
Ma perché a questo paese non mancasse il vanto dell’ Arte, piacque al cielo che vi avesse i natali uno dei più forti e passionati pittori dell’ Italia moderna, quale fu e non credette forse di essere Michele Tedesco, spentosi appena nove anni fa. S’era egli, e per legami maritali e per affinità d’ideali artistici, congiunto alla signora tedesca Giulia Hoffmann, che, esimia pittrice ella stessa, ha diviso col marito le nobili fatiche e sposata la sua arte innata a quella di lui con un assimilamento armonico tanto più commendevole quanto raro.
Oltre che i molti quadri e i capolavori che si ammirano in diverse Gallerie d’ Arte nostre e di fuori, ci lasciò egli un volume inedito sulla “Penetrazione del carattere e il senso della vita contemporanea nel contenuto dell’ opera d’ arte ,,, ove si dimostra anche scrittore coltissimo e ch’io vorrei saper- letto e studiato dai migliori perché maggior lume ne venisse all’ animo e al talento di questo artefice profondo.
Per concludere, dobbiamo ritenere — con quanto di ragione ognun vede — che una vera storia Moliterno non 1’ha se non appunto nelle pagine impresse dal nobile intelletto dei suoi figli. Anzi, possiamo senza tema affermare che la letteratura moliternese è la sintesi di quella dell’intera Basilicata.
Né crederemo che ci si potesse con fondamento opporre quel detto del Racioppi stesso: “A che pro questo rosario di uomini illustri, se la cultura loro, poco o grande che fosse, non prova nulla né per la cultura della provincia in cui nacquero ma in cui non vissero; né per la civiltà delle popolazioni che non li ebbero in mezzo a loro di esempio vivo e presente?
Che se questo veramente si volesse qui sostenere, noi risponderemmo coi gentile e discreto messer Cino, essere quistione per cui
convien più tempo a dar sentenza vera.
 
Moliterno... Pietro Lacava la disse “cittadina graziosa ,,. E tale sembra certamente a noi pure. Divisa quasi a metà dall’agevole Nazionale, con i suoi marciapiedi e le case decenti, si presenta abbastanza bene.
La pulizia e l’igiene pubblica lasciano però qui e là da desiderare.
E non può essere altrimenti in un paese mal fognato con tanto pochi smaltitoi che non, bastano a portar via le bruttezze di una sola strada. E questa una piaga che tende ad infistolire quando non soccorrano pronte ed efficaci provvidenze.
L’Edilizia è curata con un certo senso estetico, e a buon diritto il moliternese vanta di avere del culto per la casa. Tra gli edifizi più belli va annoverato quello del Municipio, antico monastero di Francescani, adattato poi a signorile dimora dalla già cospicua famiglia Giliberti. Acquistato dal Comune, vi s’insediarono anche altri uffici; ed oggi vi si ammira, nella gran sala del Consiglio Comunale, una vasta Biblioteca, che venne su per opera del Racioppi e di altri dotti, tra cui l’attuale Sindaco cav. de Gerardis.
Legata a quest’edifizio è la Chiesa francescana di Santa Croce, lavoro monumentale del XVI secolo, che nell’ arcana austerità delle sue volte racchiude opere d’ arte di squisita fattura. Ché tali si possono dire tutti gli altari di legno intagliato, le diverse tele e, segnatamente, il trittico dell’altare maggiore a lavoro di quadro intagliato in legno di tiglio e di noce con tenacissima doratura, a doppio ordine di antiche statuette di Santi e fregi e fogliami e gùscie, nel cui mezzo spicca una gran tavola raffigurante la deposizione della Gr..ce, opera di maho che certamente, direbbe il Vasari, ebbe giudizio. Io non giudicherei inopportuno il far sì che questo tempio venisse dichiarato monumento nazionale.
E nient’altro ci tramandò l’arte dei secoli andati se ne eccettui la imponente mole architettonica della Chiesa Madre, opera forse d’un allievo del Vanvitelli. Si dice che il Tedesco avrebbe voluto istoriare di freschi questo tempio e che per la sua opera avrebbe richiesto soltanto i colori. Il fatto è che la Chiesa rimase disadorna perché al Tedesco non si vollero dare i colori. Il che, se è vero, torna a tutta nostra designazione.
 
Sorge Moliterno in sito eminente e vario, su una delle ultime propaggini del Sirino, parato lì di contro al Tirreno sull’orizzonte calabro come un gigante tutelare. Ed intorno le stanno altri monti selvaggi, balze coronate di orbacchi e di frassini, forre di ciperi e di querci, valloncelli coltivati a granaglie e vivaie, e poggi vitati e colli di castani e cocuzzoli sablunari meravigliosamente bianchi. E qui e là si spiega o serpeggia o s’insinua la pianura a seconda del monte o del fiume, dello Sciaura o del Maglia: quello, dolce amatore di poderi irrigui, questo fiumara implacabile di piene, di rapide e di remoli perigliosi, che sovente — spettacolo di suprema bellezza e di orrore — ama sprofondare ad imo i suoi meandri fra due massicce e abrupte ripe di macigno, erte come formidabili bastioni di castelli fantastici. Tutti luoghi che 1’industre mercante Moliternese, da secoli e secoli, schiena di giumenti, ha tentato e solcato di sentieri per addurre la sua merce ricercata in terra d’oltremonte.
Luoghi i quali nella loro natura e nei loro accidenti hanno quasi dei parenetico; perché 1’uomo, nulla avendovi da contemplare, è costretto a passar oltre anche per 1’assillo fastidioso dell’umido freddo: ed ecco il moto ed ecco la vita, quella, intendiamo, che non torpe o si abbioscia ma si esplica più o meno vantaggiosamente in alacrità d’opere e d’intenti.
Comunque, non si può negare a questa popolazione uno spirito d’intrapresa, in grazia del quale si è portata questa cittadina ad un grado di civiltà, che, messo a confronto con altri nostri borghi non punto o di pochi pollici progrediti, ci sembrerà già molto avanzato.
Qui i proprietari e i rappresentanti della ricchezza quasi tutti investono i loro capitali o nei commerci o nell’ industria armentizia (rinomati sono i formaggi di preparazione moliternese). La pastorizia è nomade: gli armenti e le greggi svernano ai piani del Jonio, e di primavera tornano ai monti. Fiorentissima è stata fino a pochi anni fa l’industria della lana, che adesso pare in decadenza.
In genere, l’ubertà del suolo è messa a profitto con quei mezzi consentiti dall’agronomia locale. Molto abbondante è la produzione dei vini capitosi e smaguanti, che insieme con le frutta si esportano anche nelle Americhe. In questi ultimi tempi, inoltre, assai lucrosa è divenuta l’industria del legname, segnatamente dei castagni, di cui selve intiere e bellissime hanno ceduto alla scure i loro tronchi ricercati.
I traffici si esercitano intensamente per mezzo di traini e a bordo di numerosissimi autocarri fra 1’interno della provincia è la vicina stazione ferroviaria di Montesano, mediante la Nazionale Sapri-Jonio e i tronchi stradali che a quella s’innestano.
Del resto quasi la totalità dei Moliternesi esercita il minuto commercio e 1'industria: e davvero che questo poprio porta da natura uno spirito mercantile israelitico. Si può dire che qui ogni casa abbia la sua bottega ed ogni famiglia la sua piccola azienda commerciale.
E questa gente che traffica, che mentre s’indura nelle raffinatezze e nelle falsità dei mercanti, adora poi Cristo e rade quasi la beghineria, ha un qualche, sia pure lieve, riscontro, col popolo fiorentino antico, che tra le mercanzie, i profitti, gli adulteramenti e le altre ignobili mondanità del fondaco, sospendeva il Crocefisso, pregava Maria, fondava gl’ incliti edifici, ed anche esprimeva dal suo seno i più autentici figli della gloria. Ma, e diciamolo subito, quel ch’è stato è stato: e nel concetto dei più, Petruccelli della Gattina e Racioppi sono, senz’altro, persone che furono. Perocchè, qui, niente più uomini di penna, niente belletteristi. Avanzata è bensì l’istruzione tecnica, assai favorita da una scuola professionale che s’intitola ai nome di Francesco Perrone e da cui uscirà certamente buon numero di valenti artieri.
Ché nel resto Moliterno è come tutti i paesi: il don tale, la comare tale, le belle pacchiane catafratte di onestà, che amano (non però come prima) quella specie di mimetismo della virtù, donde lo studio dell’andatura decorosa e gli sguardi discreti e le indifferenze esteriori. Via, è un paese! La piccola maldicenza sulla piazza del Comune: le salse facezie e gli equivoci osceni in bocca del tale che sempre ne dice, le differenze, le querimonie, le panzane e tutte le altre filiazioni della fantasia popolare lucana.
Ieri ho sentito parlare di politica con della freddezza (ed è a notare che in questa materia il Moliternese ha pure un certo intelletto). Meglio così. Si vede che si comincia a deporre quelle animosità partigiane in cui generalmente si dimostrano i fondi belluini degli individui, e per i suscettibili traviamenti, gli uomini, se pure non si abiettano, finiscono col divenire vili accoliti delle altrui ambizioni.
La novità è che chi pensa ai modi di migliorare la vita, chi pensa al progresso, si lascia spesso facilmente sedurre dalle speranze artificiose e dalle frasconaie degli ambiziosi; così che quegli che dovrebb’essere buona guida a trarre un popolo dai termini presenti, invece di permanere un uomo di polpe e d’ossa, diviene il più delle volte un messia vaporoso e beffardo di culti partigiani, e nulla più. Ma il popolo che intanto non lascia la vanga, la scure, la sua arme di lavoro e continua a costruire 1’opera di tutti i dì, quando ad una svolta si volge a mirare il cammino percorso, non vede sulla via che le proprie orme sudate; e infine si accorge d’essere lui stesso, lui solo l’artefice della propria modesta vittoria.
E questo è particolarmente avvenuto di Moliterno, che con legittimo orgoglio sa di aver fatto sempre da sé.

NICCOLÒ RAMAGLI

da: La Basilicata nel Mondo (1924 - 1927)  


 

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