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IL NATALE DI UN TEMPO
 

.. e Natale era nell’aria, nell’attesa del giorno che verrà, anzi della notte che verrà, quella gelida e stellata che faceva intimamente richiamo ad un’altra di duemila anni fa, quando nel cielo apparve una cometa per spargere bagliori di luci e frammenti di parole.

Nell’immediato dopoguerra, quelle parole, bisbigliate nei vicoli dell’antico mio borgo, si fecero novene, rosari, preghiere e la loro fievole eco varcava i confini del mondo per sussurrare: pace, pace, pace.

Ora quel clima natalizio è nella presenza assente della mia infanzia, dei miei ricordi che mai svaniscono perché il tempo, che non ha avuto il coraggio di inghiottirli, li ha affidati integri ed indelebili ai miei sogni.

In un’atmosfera di silenzio ovattato nella quale solo a distanza di giorni si poteva udire il rombo del motore di una macchina che sfidava la strada innevata, tutti attendevano l’Evento e noi bambini, appoggiati alla sbarra di ferro posta longitudinalmente a difesa della vetrina del vecchio e buon bottegaio Oronzo Consolo, restavamo per ore incantati ad ammirare i pupi di creta per il presepe, messi in bella mostra, ma che quasi mai fecero ingresso nel mio presepe, perché cedettero il posto a quelli che modellavo con le mie mani, non con la plastilina, ma con l’argilla estratta dalle viscere della terra dove il vecchio regime aveva costruito un rifugio antiaereo.

La lavorazione e la conseguente colorazione avveniva sui tre gradini del portone di mia nonna e.. .dovevo porre molta attenzione a ripulirli per bene altrimenti avrei perduto l’ospitalità e i residui avrebbero sporcato quei pavimenti di mattonelle color rosso pompeano, legate fra di loro con un filo di calce biancastra che tale doveva restare a forza di passare stracci bagnati odoranti di candeggia e pulizia.

In un giorno di dicembre, in quel portone pieno di pastorelli e pecorelle d’argilla, la voce di una vecchietta mi sussurrò: “Sei proprio un piccolo artista”.

Fu generosa ma si sbagliò.

Oggi quasi per fatalità, l’antico borgo di Santa Lucia, fedelmente ricostruito dopo il sisma/80, è divenuto un autentico presepe per i turisti di passaggio; io ci ritorno raramente,  ho paura di sorridere e rabbrividire!

Ci ritorno però con la memoria e già vedo la mia casa e l’angolo in cui sorgeva il presepe.

Un ramo verde di pino ricurvo faceva da volta celeste al tavolo allungato per l’occasione, sul quale la carta da imballaggio e le cortecce dei tronchi d’albero, sapientemente accostati tra loro, divenivano montagne dalle vette inaccessibili sulle quali la farina spolverata si faceva neve, mentre giù a valle.. il muschio, appena raccolto, colorava di verde l’umile paesaggio francescano e spandeva nell’aria odore di terra e di bosco.

La carta stagnola diventava ruscello e le scatole di cartone custodite da tempo e pazientemente colorate assumevano le sembianze di ruderi ed anfratti.

Miglior destino subivano le scatole di maggior pregio perché, toccate dalla bacchetta magica della fantasia infantile, diventavano castelli dei Re Magi quelli che sarebbero giunti alla grotta la sera del sei gennaio successivo.

Quella stessa sera, io le mie due sorelle lasciavamo tre calze appese ai pomi di ottone della cucina a legna e al nostro risveglio si mostravano colme di castagne, fichi secchi, caramelle, noci, mandarini e minuteria varia.

Il tutto, riempiva gli occhi di noi figli e.. .bambini monelli!

Alla fragranza di bosco del muschio, altre se ne aggiungevano, erano gli odori tipici della cucina, e non poteva essere altrimenti perché nei giorni di festa che precedevano la Vigilia, il problema di mangiare non esisteva, era solo rinviato a quasi tutti gli altri giorni dell’anno!

Non erano banchetti sontuosi ma certamente sobri e . . .ricchi per i poveri!

La tavola si riempiva di luci e colori, la migliore tovaglia di lino usciva dal lungo letargo della cassapanca per disfarsi del profumo di naftalina; i bicchieri a calice, che bisognava trattare con riguardo, venivano disposti come tanti soldatini di piombo nell’attesa dell’attacco e due brocche di cristallo grosse,panciute e pesanti erano destinate ad elargire rispettivamente il vino rosso e quello bianco-dolce.

Dopo le feste, le brocche facevano ritorno nella loro credenza e, per un intero anno, si limitavano a riflettere l’iride quando giungeva il sole a baciarle sulle labbra.

Il baccalà a ciauredda già cotto e solo riscaldato faceva da spuntino intorno alle ore quindici della Vigilia, altro non si aggiungeva perché tutti dovevano attendere il lauto pasto serale nel quale il capitone, chirurgicamente decapitato per il natale del gatto, entrava per dare profumo e sostanza rispettivamente nella pentola del ragù e nella padella della frittura di pesce.

C’era anche una sorta di antipasto, ma il principe della tavola era il piatto di spaghetti alle vongole e alle cozze.

Poi si alternavano a vicenda il baccalà fitto coi peperoni cruschi, i broccoli con pezzettini di pupacchielle all’aceto,olive nere e verdi, finocchi, alici e melanzane sottolio e l’immancabile insalata mista che si godeva il suo giusto ristoro nel grande piatto di terracotta, dopo aver percorso la breve strada dell’orto ed evitata saggiamente, quella più lunga della distribuzione!

Altri contenitori di ogni genere, tranne che di plastica, facevano da cornice alla tavola e si guadagnavano spazio sulla stufa a legna, sul pianale della Singer, accanto al camino o sul fondo di paglia di qualche sedia divenuta, per l’occasione, tavolo porta-vivande!

In quei contenitori di rame, alluminio, legno, giunchi e creta v’era il Natale scritto con la N piccola: strufful, scruppedd, cicerott, cauzun, panzarott, mustacciuol e lu piccelatiedd, tutti nati dalla fantasia dei nostri progenitori e tutti con l’uso di farina, miele, impasto di castagne o ceci bolliti, zucchero, uva sultanina, cannella e persino il cioccolato.

Non poteva mancare la cruccanda alla cui buona riuscita partecipavo anch’io tenendo saldamente tra le ginocchia un ferro da stiro capovolto sul quale schiacciavo le mandorle che andavano tutte nel piatto poggiato sullo scagno, tranne alcune, che preferivano la mia bocca,quando­mia madre mi stava di spalle.

Il brodo di carne, i tagliolini e la verdura mista per il giorno di Natale erano già pronti in compagnia del salame paesano e dei latticini freschi, anzi.., veri!

Tanta abbondanza era oggetto di ammirazione di rispetto e di festeggiamenti, si di festeggiamenti perché l’abbondanza era una rarità e come tale meritava di essere festeggiata. Il caviale era assente ... ma giustificato perché a lui la natura ha affidato il grande e nobile compito di dare la vita allo storione, così come il salmone impegnato com’era a risalire la lunga e gelida corrente del Doni

Nel tardo pomeriggio della Vigilia ci facevano visita gli zampognari che davanti al presepe, davano fiato alla pelle di capra ed alle ciaramelle per intonare “ “Tu scendi dalle stelle”.

Qualche nota periva soffocata nell’aria raccolta nel grembo gravido della zampogna ma i cantori erano egualmente soddisfatti della loro esecuzione, peraltro, eseguita senza spartito e nel breve lasso di tempo che intercorreva fra un bicchiere e l’altro.

Il fuoco, non era cenere, e alimentato da u ciuccl, ovvero il ceppo più grosso della legnaia gelosamente custodito per il Natale, sfidava la notte per vivere e morire.

Accanto al tepore del camino erano tenuto sotto-coperta o sotto-coperchio i buccunot, una sorta di frittelle di pasta cresciuta, appallottolate e riempite con alici o coperte di solo miele.

In realtà erano sempre le stesse ma avevano una duplice funzione e soddisfavano due esigenze di gusto.

Quelle con le alici venivano assaporate dagli adulti che con una mano le afferravano e con l’altra reggevano un bicchiere!

Le altre erano destinate a divenire dolci e quietare il pianto dei bambini!

La buona riuscita dei buccunot dipendeva dal lievito o meglio dalla crescenda, un pugno di pasta di pane fermentata che viaggiava, tra le mani dei bimbi, da un uscio all’altro e gratuitamente.

Sopra quel pizzico di pasta, contenuto in una scodella, veniva impresso con la rasuola, un solo inconfondibile marchio: Il segno di croce.

Nessuno dimenticava quel simbolo perché quel piccolo impasto era figlio del pane e di Dio.

Io non ho confidenza con l’arte culinaria, so però che anche oggi il lievito viaggia, si viaggia e più confortevolmente nei carrelli dei supermarket, in una scatola di cartone sulla quale, al posto del segno di croce, è posta l’etichetta: prendi tre e paghi due!

Rivisti nel film della memoria, questi furono i giorni di Natale della mia infanzia.

Uno fu diverso e.. .molto somigliante agli altri giorni dell’anno.

Sono stato fin qui incerto se raccontarlo ma siccome so che la verità non offende nessuno e soprattutto onora chi la rivela, mi assumo l’onere di sintetizzarlo in quattro parole.

Mio padre, autista di pulman di linee, rimase a Tolve bloccato per alcuni giorni dalla neve.

La sera di quella Vigilia, il volto di mia madre assunse un aspetto insolito, fissava lo sguardo nel vuoto e poi, di tanto in tanto, su di me e le sorelle che mi erano accanto.

Ebbi l’impressione che volesse dirci qualcosa ma non trovava le parole giuste.

Io non riuscivo a capire se in quegli occhi si nascondesse la tristezza, l’amarezza, l’ansia o qualcos’altro.

Capii dopo.. .quando distese una corta tovaglia all’estremità del tavolo sul quale poggiò cinque patate lesse che affettò con cura in quattro piatti, poi aggiunse un formaggino che tagliò in tre parti uguali.

Andammo subito a letto non per dormire ma per sognare ad occhi aperti.

Da quel lontano giorno, mai, mai più, il formaggino ha avuto ricetto in casa mia e quando l’ho incontrato occasionalmente.. .sempre gli ho dato del Lei!

Solo in questi giorni di festa, per fatalità, ironia della sorte o beffardo destino l’ho rivisto stampato sul volto rotondo e paffuto del mio nipotino di due anni affidato alle cure amorevoli di nonna Rita.

Non so se il bimbo era desideroso di nutrirsi o di truccarsi da piccolo clown, so solo che ho riso come non mai; poi... mi sono alzato lentamente dalla sedia ed ho raccolto un tovagliolo per lui e.. .un fazzoletto per me.

 

 

( michele ascoli )
 

 

 

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