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LA SFILATA DEI TURCHI

 

La Sfilata dei Turchi

I turcomanni delle campagne.

 

La tradizione popolare è sorretta da una forza spirituale delle comunità, la quale crea,conserva e tramanda espressioni di vita, forme etiche ed estetiche, che sono a queste necessarie e congeniali. E’ facile intuire come le feste di maggio abbiano come finalità quella di cancellare i guai e i peccati dell’inverno e di prevedere, predeterminare e preassicurare l’abbondanza, il benessere, la prosperità per l’estate che subentra.

Perciò il fantoccio va bruciato assieme alla jaccara, quasi un re dei saturnali e del carnevale, allo scopo di eliminare il male, e quanto è accaduto per il carnevale, accade anche per il maggio dando luogo a precise personificazioni: nel Molise, per esempio esso è simboleggiato da un fanciullo tutto ricoperto di fronde. In Francia viene chiamato le feuillu.

Altro simbolo importante per le allegorie del viaggio compiuto dai turchi, da San Gerardo, dai vivi e dai morti, ed elemento frequente nelle feste rituali, la barca su ruote, mito del viaggio, evoca il seno e la matrice, ed ha il significato di sicurezza, favorendo la traversata; salvando i fedeli dalle insidie del mondo. La Chiesa ha convertito molti riti pagani in riti dedicati alla Madonna e ai Santi, ed è sempre vivo l’antico significato propiziatorio per la fertilità della terra, per il germogliare delle piante per il rinverdire dei boschi, perché si prepari un buon raccolto. Altre allegorie erano rappresentate dalle corse di muli e cavalli, dai nani e dai gobbi, presenti nella sfilata, che detenevano tutta la malizia dell’inconscio e davano prova di abilità come saltimbanchi con aria di mistero e di chiaroveggenza.

Profondi conoscitori dei segreti della natura, partecipavano in osmosi con le potenze telluriche, spesso accomunati ai demoni, portatori di desideri perversi.

Il carattere della festa, il sacro ed il profano, la coreografia, il grottesco delle maschere e dei personaggi, sono le note predominanti della sfilata: ciò significa che dentro questa si agitano figure strane: storpi, mendicanti, contadini grossi e corti, allampanati, alti e scheletrici. Il buffonesco è nella goffaggine e nel fare burlonesco dei protagonisti.

Arrivano anche con gli organetti per le tarantelle: la pausa è presso il “cirriglio” di Portasalza o nelle cantine dei vicoli, dell’Epitaffio o di San Rocco. Le donne mostrano fianchi e petti prosperosi nelle fasce rosse e turchine dei costumi. E davanti ai bazar sostano uomini con il turbante.

I caicchi indugiano sul dorso dei cavalli, scivolano lungo le criniere sudorose delle giumente. Dentro la nube della festa i quadrupedi e i cavalieri procedono al suono della musica di Borodin.

I nomadi delle contrade ventose, turcofani di Faloppa e Stumpagno. Si concedono la tregua dopo la vittoria.

Questa la romantica simulazione di un assedio, invasione di una città occupata nella notte. Sono tutti pervenuti dall’aperto.

Affonda le radici in tempi remoti questa tradizione potentina della “sfilata dei turchi” . V’è chi, dalla etimologia di Potenza, fa derivare significati essenziali alla sfilata con l’elemento acqua a fondamento di essa e, nel descrivere lo stemma della provincia, sostiene che “della città si fece una località di penae, della Basilicata intera, un vero guazzabuglio ove ciascuno fece camminare entri, murgesi, siculi, pelasgi, itali, sanniti, lucani, greci, romani basilii, basilici…”.

Nello stemma della provincia dove l’aquila coronata nuota nelle acque delle tre onde azzurre, ravvisa “il supremo sforzo degli uomini primitivi di superare i tre mari che li separavano dall’Italia, l’approdo alla terra ferma con “la barca”, l’elemento fondamentale della sfilata, il solo e unico veicolo adoperato ed adoperabile quando la collina sulla quale si innalza la città era un’isola. Nella lunga fila di asini e muli, che segue immediatamente “la barca” , il mutato mezzo di trasporto per accedere alla stessa Potenza quando, nei secoli successivi, l’isola anzidetta divenne una penisola.. nella “carrozza” poi ravvisa “il migliorato mezzo di trasporto per accedervi quando le acque del lago circostante erano per esaurirsi completamente”. “ Nel costume più o meno turchesco indossato da tutti i personaggi implicati nella sfilata, infine, la stirpe originaria o turanica dei primi abitatori giunti per mare”. Certamente anche l’offensiva mussulmana avverso la Cristianità scagliatasi nel secolo nono contro l’Italia con l’occupazione della Sicilia e della Puglia, e la presenza dell’emirato di Bari nel quale si avvicendarono il berbero Khdlfun, Mufarràg e il famigerato Sawdaàn che terrorizzo tutta l’Italia meridionale da Taranto a Benevento, da Ascoli Satriano a Salerno e a Montecassino, hanno le loro colleganze con la sfilata.

Feroci nella conquista e nel saccheggio, gli oscuri Saraceni ed i loro capi, temibili se nemici, ma ricchi di una complessa umanità, insegnarono forse agli abitanti delle ventiquattro “castella”pugliesi cos’è la tolleranza religiosa in tempo di pace, come si fa fruttare la terra, come si scambiano prodotti con vantaggio. Erano quei saccheggiatori, quei mercanti di schiavi le forze nuove: bande partite da luoghi diversi ma unite dal vincolo formale della medesima religione costrinsero i cristiani, con la minaccia della loro presenza e della loro abilità di predoni e di mercanti, ad unirsi contro di loro”.

Le finestre hanno inorridito pel fumo e pel rumore all’avventura di una notte di mezza estate tutta percorsa dal trotto dei cavalli che annusano, narici dilatate ed umide, le froge ardite, l’odore dei caseggiati, gli incendi appiccati dai giannizzeri. Una vasta opera di reclutaggio dalle contrade di campagna. E’ una avventura di violenza o di sangue? O la tregua silenziosa e calma della compiuta conquista? Sono gli unni delle coste della Gaveta, gli uiguri di Marrucaio, i selgiuchidi di Giarrosa, i mamelucchi, i timuridi di Boscogrande, i tartari, gli azerbaigiani di Botte, i kazakhi e ciuvasci di Pallareta, Rifreddo, Frusci. Le orde hanno invaso la città. I Jack Palance di zigomi spinti e occhi obliqui come i teschi dei monasteri tibetani, mongoli dal pallore olivastro e che vivono da protagonisti la serata del ventinove maggio, sono gli esponenti di quello che fu l’impero delle campagne, quello che resta dell’esercito ottomano che batteva i terreni con zapponi e vanghe, abitanti delle sterpaglie di Tiera, di Cardillo e di Zucchero, eurasia di Potenza.

La finzione è nella sfilata. Grinta e comportamento delle steppe. Hanno i volti scolpiti dai venti siberiani di Montocchio e di Pierfaone. Sgozzatori di pecore e agnelli, scannatori di maiali, massacratori di polli e conigli.

Bestemmiano come turchi, fumano come turchi, siedono alla turca: sono teste di turco che fanno da capro espiatorio e bersaglio nei tirassegni.

Ma i turchi che stanno per avanzare in direzione della Cattedrale sono nella aspettativa della città e costituiscono uno dei suoi aspetti freudiani: perché ogni 29 di maggio dopo l’imbrunire, le strade ed i vicoli sono interessati dal rumore, dagli squilli di tromba, dal rullo dei tamburi, dei timpani, fusti in legno e membrane in pelle, dalla gran cassa e dagli strumenti a fiato. La gente si riversa nelle vie e nelle piazze, balconi gremiti, ad ammirarli. Da Bufata, Isca, Verderuolo di Cerreta, da Malvaccaro, dai Fondi Tiera-Lavangoni, Gallitello, dai Cugni dell’Orso e della corte, dalle difese delli Foi, dai Paschi Macchitella, sono mobilitati per questa confluenza di rabbiose scimitarre. Dalle Masserie al Molignani, del Monaco, Ciciliana, alla Macchia, della Lantone, della Fontana di Torretta, dai Valloni di Lemma e di Maccarone, dagli scoscesi Pascoli Cappellazzi, Poggio d’oro, Isca del Pioppo, Sferra Cavalli, da Colascuro, Fontanili, Iscasecca, Ciciniello, da Chiancali, le contrade agresti della fiaba arcaica, hanno attraversato la grande muraglia. Non vi sono più Khan sui troni delle terre, la caduta di Potenza traspare nella nota di Chopin.

Soffia un soffice polline dall’Asia, fiorisce la rosa di Salor dal fondo rosso vermiglio: ecco gli Sphai inquadrati nelle geometrie delle decorazioni: il piede di cammello e le frecce e i totem, bastone ad uncino, triangoli di palline, tanga di Gengis Khan, mezze lune. Sugli scudi misteriosi disegni e draghi dalle occhiaie color aria.

Lo sciraz, il Belucistan di seta e di lana, l’afsciari zebrato, il kilim anatomico, il Bergama, il Bokhara amaranto, l’Heriz, il Gioravan con cimosa, i tappeti dai motivi floreali che le tribù nomadi turcomanne hanno rovesciato nei mercati di Bagdad assieme alle coperte ricamate, arabescate esposte sui balconi, sono eresie per il Gran Turco, e le circasse sono le gualdrappe dei cavalli, come i colli stretti e damascati delle giacche dei cavalieri. Vengono dalle tende, giacigli e coprisella, dal fasto delle corti di califfi, dal silenzio delle moschee iraniane. Il tappeto volante sulla piazza della città, prato di lana e di preghiera: Abud, Mustafà, Fath, Kadir, Alì, barbe nere e turchine mitici cavalieri armati. Oriente di Potenza, oriente in marcia aggressivo ed imprevedibile di una città esposta agli assedi che muovono da est…dal mare, dal fiume…

I turchi arrivano adirati, nello strepito dei carriaggi, allo sguardo ammonitore del Santo ariano e Protettore. Oggi i nipoti sono negli uffici, nei laboratori, nelle aziende della città operosa e terziaria. Ma i turchi erano i banòmi con zimarre e turcassi, o trasportati  su portantine sostenute da robuste stanghe laterali.

 

 

pubblicazione autorizzata:            

Comune di Potenza - unità di direzione     
cultura, politiche giovanili, promoz. immagine
( testo: D. Mancusi - C. Serra )        

 

 

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