Chiesa di S. Maria d'Orsoleo e Monastero

 

“Allo stesso secolo XVI risalgono due bellissime sculture in legno dorato : «Cristo alla colonna» e «S. Michele Arcangelo». Sempre di questo periodo sono due tele del Ferri e la pala dell’altare maggiore attribuita allo pseudo Francesco Romano, un altro pittore lucano del Cinquecento.” “ Quando, nel 1606, Luigi ricevette le insegne del «Toson d’oro» diede una festa così ricca che ne fu rimproverato dal suo confessore S. Andrea Avellino, il quale gli scrisse che quei soldi meglio sarebbero stati spesi «per amor di Dio». In questo periodo fu scolpito per la chiesa di Orsoleo, una delle sue cose più ammirate: lo stupendo coro ligneo del 1614. E’ un lavoro che rivela una pazienza veramente monastica e un gusto che, insieme, appare severo e ironico. Sono severamente scolpiti i santi delle varie formelle; l mano dello scultore è dura e, forse, non molto abile: sembrano figure fatte fatte con l’ascia e con il coltello, ma proprio per questo, anche se non perfette, tecnicamente nei particolari, danno un’impressione di forza e robustezza, specialmente nelle immagini sedute: così la figura centrale del Cristo «Salvator mundi» così la grande formella della «Madonna di Orsoleo» raffigurata seduta sulla cima frondosa di una quercia, con ai piedi l’orso e il leone poggiati sulle zampe posteriori, e con quelle anteriori fisse, in posizione simmetrica, sul grosso tronco dell’albero: immagine che era diventata lo stemma del Convento.” “In questo periodo (Anna Carafa) la chiesa di Orsoleo si arricchì di altre opere d’arte: sono, infatti, certamente del Seicento le sculture in legno di S. Antonio, di S. Pasquale e di S. Teresa. Nel 1743, cioè poco prima che morisse Donn’Anna, dovette essere completato il rifacimento della chiesa e del convento, infatti sull’architrave della porta è incisa la data insieme con dieci lettere maiuscole: ecco l’iscrizione: E – A – P – E – F – D – C – P – D – S DIE PRIMO OCTOBR 1643.” “In questo periodo (Marcantonio Colonna) la chiesa di Orsoleo si abbellì di una delle sue opere più pregiate: lo stupendo altare maggiore che (collocato con perfetta armonia nella ricchissima decorazione di stucchi bianchi e dorati che adornano, con la nobile pala d’altare e il coro degli angeli che sbucano fra le nubi, l’intera parete) si presenta come un’opera fantasiosa e geniale, fantasmagorica, unica, nel suo genere, nell’intera Regione. L’altare fu scolpito nel 1777 (come si legge sul pilastrino laterale di sinistra) ma la messa in opera dovette durare a lungo, infatti la solenne consacrazione si ebbe solo il 27 aprile del 1779, con l’intervento di Mons. Vecchione, vescovo di Tursi.“ “Forse a questo stesso periodo, o a qualche decennio prima, risalgono altre due elegantissime opere della chiesa: la cantoria, dalle finissime dorature, e il soffitto ligneo, che unisce alla vivacità dei colori e all’eleganza (che è la nota caratteristica di tutta la decorazione della chiesa) la severità delle più pure linee geometriche. Con ogni probabilità è del ‘700 anche il nobile campanile, che si innalza sulla volta a crociera della cappella, a sinistra dell’entrata. E’ alto più di trenta metri ed è suddiviso in tre piani da robuste cornici, l’ultima delle quali è ingentilita da mattoni messi di taglio, che formano delle piccole mensole: motivo comune a molte costruzioni dell’epoca a Sant’Arcangelo e nei paesi vicini. Il campanile termina con un tiburio ottagonale e con una cuspide ricoperta di tegole. Delle sottili cornici e una striscia di mattonelle colorate ingentiliscono la cuspide, sotto la quale, ai quattro angoli del tiburio, si trovano quasi a sostegno e ad evitare il passaggio brusco dalla forma quadrata del corpo alla sfumatura terminale, quattro piccoli pilastri a volute su cui una volta poggiavano quattro enormi cocomeri in ceramica verde che, da tempo, non esistono più, ma che ancora, a Sant’Arcangelo e nei dintorni tutte le persone di una certa età ricordano bene come il motivo ornamentale più strano, più originale, più estroso e più bizzarro del vecchio campanile.” “Ad Orsoleo tra il 1829 e il 1837, ci furono, nella chiesa, molte cose nuove, com’è attestato, fra l’altro, da diverse iscrizioni incise sugli altari. Fu in questo periodo che la chiesa, dopo i vari rimaneggiamenti avuti nel corso dei secoli, prese l’aspetto definitivo, caratterizzato da un senso di serena, gioiosa atmosfera, che poi le è rimasto. E’ una costruzione a una sola navata, preceduta da uno spazio rettangolare che comunica con il luminoso vano centrale mediante tre poderose arcate, su una delle quali è collocata la cantoria. A sinistra c’è una robusta volta a croce su cui si innalza il poderoso campanile. Superato questa specie di atrio interno, subito a sinistra, c’è la cappella (certamente la parte più antica della chiesa) dedicata alla Madonna. Le pareti della chiesa sono ornate di ricchissimi stucchi e illuminate da grandi finestre. Dietro l’altare maggiore c’è la grande aula del coro, chiusa da una vasta cupola che si eleva da un tamburo circolare. Tutto l’interno della cupola è affrescato con numerosissime immagini di Angeli e Santi con al centro la Vergine nella gloria del Paradiso. Sono lavori di gusto barocco, certamente meno pregiati degli affreschi del chiostro, ma più ammirati dal popolo, che, quando la chiesa era ancora aperta al culto, li guardava con sempre nuova meraviglia e stupore, e li chiamava con semplicità contadina «Il Paradiso». 
Il coro è pieno di luce per la grande finestra che s’apre dietro l’altare maggiore e per quelle che, dal tamburo, si aprono verso l’esterno. La cupola è chiusa, esternamente, da anelli di tegole, che, chiudendosi a curve rastremate verso l’alto, danno all’insieme, pur essendo le linee piuttosto incerte e imprecise, una forma semplice ed elegante. Prima di entrare nel coro, a sinistra, c’è la porta della sagrestia: ampio locale rettangolare piuttosto ascuro, una volta ricco di mobili e di quadri, ora totalmente spoglio. L’interno della chiesa, oltre allo stupendo altare maggiore, ha diversi altari laterali: il più importante dedicato, ovviamente, alla Madonna, gli altri a vari Santi. L’altare della Madonna fu ricostruito in marmo nel 1829. La lunga iscrizione latina incisa sulla base è di non facile lettura e di non facile interpretazione, sia per alcune incomprensibili lettere (A, M, A) sia perché l’iscrizione è divisa in tre parti: le due laterali in posizione simmetrica, quella centrale più alta.” “Fino a una cinquantina d’anni fa, c’erano ancora, nel convento, tutti i quadri, tutte le sculture, persino alcune delle antiche suppellettili liturgiche usate dai frati nelle funzioni della Chiesa. Una sola novità ci fu in quegli anni, degna di memoria: per volere dell’arciprete Don Antonio Cesareo, che aveva fatto l’ingresso in paese nel settembre del 1937, l’antichissima immagine della Madonna, la statua lignea del sec. XIII, per la prima volta fu rimossa dalla sua nicchia profonda e portata processionalmente a Sant’Arcangelo. Si voleva imitare, in qualche modo, la tradizione di Viggiano, ove la statua della Madonna si conserva in paese da settembre a maggio, e sulla cima del monte dalla prima domenica di maggio alla prima domenica di settembre. A Sant’Arcangelo si decise di fare qualcosa di simile, anche se invertendo il periodo di permanenza della statua fra il paese e l’antico santuario: l’immagine della Madonna sarebbe stata conservata nella chiesa madre del paese dal sette di maggio, vigilia della festa patronale di S. Michele, fino al sette settembre, vigilia dell’antichissima festa di Orsoleo. La decisione suscitò, e non poteva essere diversamente, un sentimento di entusiasmo in alcuni e di avversione in altri: la statua non era stata mai toccata a memoria d’uomo, e la forma stessa della nicchia (che non era a visuale intera, frontale, ma scavata nello spesso muro della parete, come un pozzetto che lasciava vedere solo il volto della Madonna e il Gesù Bambino posato sul braccio) aveva fatto nascere varie credenze, come quella che la struttura lignea fosse incastrata nel tronco di una quercia ancora ferma al suolo con le sue radici (la quercia stessa della Madonna sarebbe apparsa al Principe in lotta con il drago) tanto che si credeva che dal vecchio cespo spuntassero ancora dei polloni che bisognava, ogni anno, tagliare, perché non coprissero l’immagine stessa della Madonna; perciò non sembrava opportuno , anzi sembrava irrispettoso e temerario toccare la vecchia immagine. Ma la decisione era stata presa e, con entusiasmo giovanile, fu messa in pratica: si estrasse la statua dalla sua antica nicchia profonda e solennemente fu portata in paese. E quella prima processione, nella luminosità del mattino di maggio, fu una festa lieta e gioiosa: c’era la banda che accompagnava gli antichi canti mariani intonati da uomini e donne, c’erano due fuochisti che portavano dei mortaletti maneggevoli e, ogni tanto, facevano scoppiare dei piccoli petardi, e c’erano tanti ragazzi, che correndo, cantando e gridando, davano un senso di giovanile letizia alla nuova festa paesana. Il bosco era ancora intatto e chiuso nell’intrico di rami e di fronde; perciò dei giovani contadini, muniti di scure, andavano avanti a tutti per gli stretti sentieri, per tagliare i rami più bassi che potessero dar fastidio al passaggio della processione. E la Madonna fu portata in paese. A settembre, il giorno sette, la statua fu riportata nel vecchio monastero; e il giorno seguente, festa liturgica della Natività di Maria, si cominciò una nuova usanza: la processione intorno al santuario. Così all’antica fiera, che per secoli, era stata l’unica manifestazione esterna nel giorno della festa di Orsoleo, si aggiunse l’uso della processione e la gioia fragorosa della banda musicale e il rumore degli spettacoli pirotecnici. Ma il Convento, ormai vuoto, deperiva sempre di più; e il 19 dicembre 1940 fu venduto a privati.” “Orsoleo fu, prima di tutto e soprattutto, un luogo sacro. Se a ciò che si è detto circa l'origine del culto mariano nella zona, si aggiunge qualche nuova osservazione e qualche attenta considerazione circa i culti più antichi praticati in queste terre, e circa l'attività dei Santi bizantini in queste contrade, nei secoli X-XI, si potranno ricavare ipotesi molto interessanti sulla sacralità antichissima della collina ove poi sorse il convento francescano. Sul punto più elevato del territorio di Orsoleo si possono ancora vedere i poverissimi resti di un vecchio edificio che il popolo da sempre ha chiamato «Cappella di S. Michele», evidentemente in relazione al culto dell'Arcangelo cui la cappella (che doveva essere già in rovina da secoli non essendo ricordata in funzione da nessuna carta relativa al convento) era dedicata. 
Dalla cima ove si trovano questi ruderi si può godere un panorama vastissimo e bello: a oriente si vede, vicinissimo, il vecchio centro di Sant'Arcangelo, che si allunga tortuoso sugli scoscendimenti profondi delle vecchie frane di argilla; verso nord si notano, al di là del fiume, sotto il monte di Stigliano, le bianche case di Aliano e di Alianello; girando lo sguardo verso occidente, ecco Missanello e Gallicchio, così accostati che sembrano non due, ma un solo paese sulla cima del colle; a sud ovest, molto più vicino, il biancore di Roccanova con la caratteristica sagoma del vecchio campanile della Chiesa Madre; e, intorno, la cerchia dei monti vicini e lontani, che danno all'osservatore l'impressione di essere al centro di un paesaggio stupendo, fatto apposta per racchiudere il grande complesso dell'antico convento, che si impone, appena sotto, in primissimo piano, variato nei diversi corpi di fabbrica e dominato dal magnifico, severo campanile settecentesco. Ma molto più forte doveva essere, certamente, la suggestione per chi avesse osservato il panorama nei tempi passati, quando tutta la collina, giù giù fino alla Fiumarella di Roccanova, era ricoperta da fittissimi boschi di querce, di cerri, di elci, di lentischi, di olmi, di piante di ogni tipo. 
Orbene, fin dai tempi più antichi del paganesimo, le radure prive di alberi, sulle colline per il resto boscose, erano consacrate alla divinità. Quando, poi, si diffuse la nuova religione, si cercò di cristianizzare i vecchi santuari pagani, consacrandoli al nuovo culto; e, in particolare, si sa che le cime dei colli, soprattutto se con anfratti tra le rocce o con grotte, erano consacrate all'Arcangelo Michele. Non potrebbe, dunque, la radura che si apriva sul punto più alto di Orsoleo, sulla cima di un colle boscoso, in mezzo a un vasto scenario di valli e di monti lontani, essere stata già sacra fin dai tempi più antichi, ed essere stata, poi, consacrata al culto di S. Michele con i tempi nuovi della nuova religione? Perché si sa ormai con certezza, dopo i recenti scavi effettuati nella valle sottostante, lungo la riva dell'Agri, che giù, ove ora sorge il nuovo centro di S. Brancato, fiorì una vita abbastanza attiva, ricca di commerci e di civiltà, attestata non solo dalle tante tombe venute alla luce, ma anche, e soprattutto, da vari reperti attinenti alla vita quotidiana, che testimoniano, nella zona, una sicura attività agricola e artigianale. 
Anche se non c'è nessun documento che dica esplicitamente qualcosa circa l'antica sacralità della collina che delimita, verso sud, la Valle dell'Agri, è lecito pensare che una grande suggestione doveva essa esercitare sulle povere e semplici genti della Valle, che naturalmente ad essa dovevano volgere gli occhi soprattutto nei momenti di paura: nelle guerre, nei terremoti, nei temporali. 
Ma, tralasciando queste ipotesi, anche se non illogiche e, senza dubbio, suggestive, si può pensare, con relativa sicurezza, che, già prima dell'anno mille, la collina fosse consacrata alla venerazione della Madre di Dio e al ricordo dell'Arcangelo Michele. Molto spesso i due culti erano accomunati dai fedeli, e qualche chiesa era dedicata, insieme, all'Archistrategos (così abitualmente era chiamato S. Michele, quale capo delle milizie celesti) e alla Theotokos, cioè a Maria Madre di Dio. A Orsoleo c'è il ricordo sicuro di una cappella dedicata alla Madonna e di un'altra, sulla cima del colle, dedicata a S. Michele. 
Come già si è detto, tra la fine del sec. X e i primi anni del secolo successivo, i monasteri greci si moltiplicarono, in tutto il Meridione, in modo quasi incredibile, anche se, per alcuni, più che di veri monasteri si dovrebbe parlare di eremi o di minuscole chiese o semplicemente di grotte adattate a cappelle. La maggior parte di queste chiese erano dedicate alla Madonna Madre di Dio (Theotokos), alcune a S. Michele (Archistrategos). Di un monastero dedicato all'Archistrategos e di un altro, dedicato alla Theotokos, si parla nell'enumerazione dei beni che Biagio di Armento (detto anche Basilio) aveva o come beni propri (e che lasciava in eredità al fratello Sergio) o come possedimenti del monastero di Carbone, di cui egli stesso era stato igumeno. Intorno a questi stessi anni (il testamento di Biagio Basilio è del 1041) S. Luca (II), anch'egli igumeno di Carbone, è costretto a lasciare il suo monastero; accolto dagli abitanti di Battifarano e di Kastron Nobon, edifica una chiesa che dedica all'Arcangelo Michele: se, come vuole qualcuno, Kastron Nobon non corrisponde (come farebbe pensare il nome) a Castronuovo, bensì a Roccanova (del resto, etimologicamente, le parole Castronuovo e Roccanova hanno lo stesso significato) non si potrebbe pensare che questa cappella consacrata a S. Michele corrisponda alla chiesa che all'Arcangelo era dedicata sulla collina di Orsoleo? 
Nelle carte di Carbone si dice anche che lo stesso igumeno Luca ebbe altri due pezzi di terra con una chiesa dedicata alla «Panaghia Theotokos» (cioè alla «Tutta Santa Madre di Dio) detta di Kassanites, che egli restaurò, perché molto malandata, e un'altra, anch'essa restaurata, perché in rovina, dedicata a S. Pancrazio e appartenente a un prete anch'egli di nome Pancrazio. Non ci sono altri documenti che ci dicano con precisione ove queste chiese si trovassero; ma, anche a non volerlo, viene subito in mente che da tempo esisteva, ad Orsoleo, una chiesetta dedicata alla Madonna, e che nelle vicinanze, come già si è notato, c'era una chiesa dedicata a S. Pancrazio. Anche se, forse, si tratta solo di coincidenza di nomi, il fatto è, in sé, già abbastanza importante, perché ci fa capire come nella zona fossero, già da tempo, diffuse e affermate le devozioni più comuni e più tipiche dell'ambiente religioso e monastico dell'Oriente bizantino. 
Poi, come si sa, vennero i preti Zaccaria e Daniele e Bonicio, e la piccola cappella originaria divenne una chiesa ricca di beni, e il culto della Madonna di Orsoleo non fu riservato a pochi monaci o eremiti, ma divenne culto di popolo e devozione comune per tutti i paesi della Valle, che, in tempi quanto mai tristi e calamitosi, guardavano alla collina di Orsoleo come a una verde oasi di conforto e di speranza nel deserto arido e soffocante dei mali della vita. E in seguito, in tempi migliori, il Santuario crebbe, per la generosità e la pietà del Conte Eligio e per lo zelo e la devozione dei Padri Francescani, fino a divenire di fama regionale e centro di cultura e luogo di educazione e di studio per tanti giovani speranze dell'Ordine di S. Francesco. 
Ormai era conosciuto dovunque, tanto che, mentre nel primo periodo della sua storia era segnato solo in qualche carta particolare, come quella allegata alle «Rationes decimarum», dalla fine del '500 è segnato, con il nome «S. Maria Orsoleo», in quasi tutte le carte geografiche dell'Italia meridionale; così, per fare qualche esempio, si trova nell'importantissimo atlante che, disegnato tra il 1596 e il 1617,dal grande geografo padovano Giov. A. Magini, fu stampato a Bologna nel 1620 dal figlio Fabio; si trova nella carta di Basilicata e terra di Bari acclusa all'Atlas Novus del Jansonium, del 1647, e, con il nome «S. Maria Orsolea», nell'Atlante del Rizzi Zannoni del 1792. 
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L'immagine della Madonna di Orsoleo (caratteristica per i lineamenti primitivi e per il fatto che nessuno mai l'aveva vista tutta intera, infossata com'era nella caratteristica nicchia profonda) divenne la più venerata nella zona, e anche fuori, affiancandosi, nella devozione popolare, ad altre immagini famose della Madonna: quella di Anglona e quella di Viggiano. Per questo è facile immaginare la vivacità e la solennità della festa dell'otto settembre, festa ufficiale del Santuario, quando il Convento era ancora intatto e vivo per l'attività e l'operosità dei frati francescani; ed è facile anche immaginare la suggestione profonda che il Convento stesso doveva suscitare, nei tempi antichi, quando all'improvviso si mostrava, immenso e stupefacente di bellezza e grandiosità, ai contadini e ai pastori, che, abituati alle loro povere case e alle loro povere cose, vi arrivavano, a piedi o cavalcando asini e muli, stanchi dopo la faticosa salita su per il sentiero che tagliava il fittissimo bosco, o per la lunga strada, che, dopo la salita di Mederico, si snodava pianeggiante sotto l'antica torre, che dava il nome a quella contrada, famosa, allora, per vigne e uliveti. 
La festa continuò anche dopo la chiusura del Convento: era troppo antica e troppo popolare perché potesse essere abolita. Ma perse, ovviamente, l'antica solennità e l'antica bellezza: con l'assenza dei frati, la chiesa fu, praticamente, abbandonata a se stessa, e il culto della Madonna rimase affidato alla pietà spontanea dei fedeli, che, ai primi di settembre, continuarono a salire, come sempre avevano fatto i loro padri, sulla collina consacrata, anche quando il complesso monumentale, con tutto il territorio circostante, divenne proprietà di privati. 
Ancora oggi, continuando la tradizione millenaria, I'otto settembre, da Sant'Arcangelo e dai paesi vicini, salgono sul colle comitive di gitanti e pellegrini devoti della Vergine; ma le tante automobili e motociclette e vetture di ogni tipo, che, nella fresca mattina di fine estate, si dirigono verso l'antico santuario, anche se, forse, vi portano più persone di quante non ve ne andassero nei tempi passati, sono solo una pallida immagine della festosa processione di centinaia e centinaia di uomini, di donne, di bambini, che, a piedi e sui muli e sugli asini, salivano la verde collina fino a pochi decenni or sono. 
I ragazzi aspettavano per tutta l'estate il giorno della festa più bella e più sognata, e vi si preparavano raccontandosi a vicenda i tanti fatti straordinari, le antiche leggende, le molte apparizioni, i miracoli operati dalla Vergine. E facevano, con le loro mani, delle tipiche cordicelle con grossi fili di cotone dai colori più svariati: sarebbero servite per calare dei minuscoli secchi nelle fredde acque dei pozzi del convento. 
Alcuni uomini andavano al Santuario qualche giorno prima della festa, per preparare le caratteristiche baracche di legno, coperte di rami di quercia, per l'esposizione della fiera. 
Pare che la fiera, nei secoli passati, durasse più giorni, forse una settimana; poi fu ridotta a soli due giorni: il sette e l'otto settembre. Era una fiera importante anche perché in questa, e nell'altra del 25 marzo, festa dell'Annunziata, a Sant'Arcangelo, per antichissima tradizione, si pagavano le rate dei fitti delle case. Alcuni uomini, dunque, andavano a Orsoleo qualche giorno prima della festa, e pernottavano, alla meglio, nelle baracche di legno o sotto le arcate del chiostro, quando ancora l'antico convento era completamente isolato, senza strade e senza illuminazione, con il solo chiarore, nelle tenebre, di qualche fuoco acceso qua e là, e di qualche rara candela. Ed era molto suggestivo, nella notte profonda, sentire il suono degli organetti dei contadini, e, spesso, dalla chiesa, ove sempre qualcuno vegliava presso l'altare della Madonna, i cori non sempre intonati, ma commossi e sinceri, degli uomini che dicevano le lodi della Vergine. 
La mattina dell'otto, il giorno proprio della festa, si partiva prestissimo: erano adulti e bambini, uomini robusti e allegri, e donne dalle fresche camicette colorate; pastori e mandriani con gli animali da vendere alla fiera, e artigiani che speravano di trovare, a prezzo conveniente, il maiale da uccidere nell'inverno ormai prossimo. E tutti, pastori, contadini e artigiani, subito, dopo la faticosa salita, entravano nella chiesa, per venerare la Madonna e per vedere, con sempre rinnovata meraviglia, i quadri antichi, gli altari preziosi, le sculture di legno e di marmo che ornavano il santuario, e le tante stanze e i lunghi corridoi dell'antico convento, ora vuoto e misterioso. Poi ognuno andava per i propri affari: a comprare o a vendere animali, a osservare le tante cose esposte per la vendita nelle varie baracche, a comprare finocchio, sedano e meloni dai Senisesi (che si fermavano sempre lungo il muro del convento volto a ovest), a trovare qualche giocattolo da regalare ai bambini in attesa: - E' fiera. Il valido giovenco orpellasi - Di nastri candidi, turchini, rosei; - La pecora bela ed intanto - Muta padrone! - Voci alte, stridule di rivenduglioli - Incrocian l'aere. 
Dopo mezzogiorno la fiera era, praticamente, finita: era l'ora del pranzo, e le varie famiglie e i diversi gruppi di amici si radunavano sotto le querce o nei vasti locali del monastero per il pasto di rito. Due erano i piatti tradizionali: il pollo e i peperoni ripieni. Si mangiava in allegria e si beveva il famoso vino di S. Brancato: - E al tocco candidi lini distendonsi - Al rezzo e sturansi fiaschetti e cucumi, Gorgoglia alle labbra frizzante - Il San Brancato.... - Poi ci si riposava all'ombra delle querce o si ballava al suono degli organetti. 
Prima che facesse sera si ritornava in paese: quelli di Roccanova scendevano verso la Fiumarella, e di qui risalivano alle loro case; quelli di Sant'Arcangelo ritornavano per varie strade: chi per la via della Madonna del pozzo (e i bambini guardavano intimoriti quando si passava sopra gli argini del più profondo burrone del paese: quello detto di «Pitriciello», dal nome di un bambino che v'era precipitato ed era morto); chi per la via della Fiumarella, la strada più comoda, ma anche la più lunga per tornare a casa; chi per la via della Torre: e qui ci si poteva dissetare alla fresca acqua leggera della sorgente di Mederico. E si sentivano morire, nell'aria della sera, le canzoni dei contadini sazi e felici, le trombette e le piccole armoniche a bocca dei fanciulli, i ragli degli asini e i belati delle pecore che venivano riportate agli ovili. E, da lontano, ancora gli ultimi rintocchi delle campane di Orsoleo, che invitavano all'ultima preghiera alla Madonna nel suo giorno di festa. - Tutto dileguasi, solo le tinnule - Campane cantano nel di che spegnesi - L'ultima voce di luce... - Poi... piano tacciono. - L'ultima voce è un saluto; O Santissima - Turris Eburnea, foederis arca - Patrona del popolo nostro - Santa Maria. 
Ora la festa è cambiata; come tutto, del resto, è cambiato. L'ambiente stesso è diverso: il bosco bellissimo, che circondava di fascino arcano il vecchio convento, è, ormai, solo un ricordo sbiadito nei racconti dei vecchi; la chiesa è, da molti anni, inaccessibile al pubblico, e le funzioni religiose si svolgono, ormai da tanti anni, sulla spianata antistante al convento. La statua stessa della Madonna, I'antica immagine di legno del sec. XIII, non è conservata a Orsoleo, ma giù, nella chiesa di S. Brancato. La folla che partecipa alla festa (forse più di curiosi e di gitanti che di fedeli e pellegrini) e le tante macchine rumorose, e le luci stesse, che rischiarano la notte e illuminano il palco e il pendio ad anfiteatro naturale ove da qualche anno si svolgono le varie manifestazioni, se hanno dato più spettacolarità e più sfarzo all'annuale ricorrenza, le hanno tolto la suggestione del mistero religioso e l'intima dolcezza dell'antica semplicità contadina. Ma non si poteva pretendere che le cose restassero come prima: è naturale che mutino; e, forse, è anche un bene. Solo si vuole sperare che quando tutto il complesso monumentale sarà restaurato (e sarebbe anche bene che la Regione acquistasse un po' del terreno antistante all'edificio, per piantarvi qualche albero, che fosse almeno un simbolo, più che un ricordo, dell'antica foresta); quando, soprattutto, la chiesa, ritornata, per quanto possibile, all'antico splendore, sarà riaperta al culto e alla pietà dei fedeli e dei pellegrini, quelli che dovranno decidere definitivamente a quale uso destinare il monumento, non dimentichino che Orsoleo è stato sempre e soprattutto un luogo sacro, e che nei tempi passati, i popoli della zona non lo indicavano mai con il suo nome ufficiale «Orsoleo», ma, quasi a testimoniare la fiducia filiale nella protezione della Madonna su tutti i paesi della Valle, lo chiamavano, più semplicemente e più affettuosamente, «Santa Maria» .“ 

Testo selezionato da "Memorie di S. Maria di Orsoleo" di Luigi Branco
Pubblicazione autorizzata dall'autore
      

 

 

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