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CALVELLO - IL TEMPO LIBERO , TEMPO IMPEGNATO

Un tempo...la divisione messa in testata non c’era.
La vita iniziava il lunedì e terminava il sabato sera, monotona e stressante senza scosse o novità di rilievo.
La successione eterna del “dopo al prima” e viceversa (=il tempo) era regolata, nelle attività del mondo rurale, dalla luce del sole. Ci si levava al primo bruzzolo incerto dell’alba, e si “staccava” alle prime ombre, al “riporsi’
dell’astro luminoso, con le brevi soste de ‘lu muzzico”, circa le 10.00; il pranzo al “tocco”; la “murenna” alle 16.00, pasti assunti con molta fretta e spesso in piedi, eccetto la sera per la cena, con un desinare abbondante.
Era ancora buio quando le strade cittadine verso “fora” si animavano al ticchettio sul selciato delle calzature con pianta di legno, delle donne, dei “zambitti” chiodati degli uomini e degli zoccoli ferrati dei muli, cavalli e somari, trascinanti, legati alla coda e per la cannacca al collo, pecore e capre, belanti e restie.
Gli scambi sulle condizioni e previsioni del tempo e di altri fatti di attualità, fatti a voce alta, si incrociavano ai nitriti e ragli dei quadrupedi in un bailamme confuso ed assordante che svegliava gli ancora sognanti sotto le coltri, o disturbava gli amplessi mattutini delle coppie, in amore, costretti, da tanto chiacchiericcio, a lasciare il letto ed a iniziare pur essi, controvoglia, la monotonia del giorno.
Il tram-tram quotidiano iniziava per i contadini con un viaggio, normalmente di circa 2 ore, per raggiungere il campo, spesso fatto a piedi, da chi ed erano i più, non disponevano di una “vettura” (mulo, cavallo, ciuco), gravati per di più degli strumenti di lavoro (zappe, sarchiottoli, falce, accetta, ecc.) e della “spesa” (cibarie) raccolta negli “stiavucchi”, e bisacce sistemate sulle spalle.
La sera del sabato, dopo la cena a base di minestroni o di pasta fatta in casa (strascinati, nanatelle, ferriciedd, i formati più rapidi a confezionarsi), la pasta “accattata” era solo per le grandi solennità, gli uomini si recavano al “salone”, già affollato di clienti abbonati, vocianti in un ambiente saturo di odori nauseabondi, nell’attesa del proprio turno, per passare nelle mani del barbiere e per radersi la barba di una settimana o sfoltire la criniera di quattro o cinque mesi.
Il più “distinto” -si fa per dire - e accorsato “salone” di allora era, come vistosamente indicato a lettere cubitali sull’insegna dell’ingresso, la “barberia igienica” di “Mastro Chicco”, perpetuo e fervente dissertatore del “micrococco”, delle sue insidie e pericolosità mortali. Il “micrococco di “Mastro Chicco” era sulla bocca di tutti, e tutti ne conoscevano le medicine per salvaguardare la propria salute, indicate naturalmente da “Mastro Chicco”: un tipo caratteristico che si piccava di medicina, si spacciava specialista in Igiene e profilassi, nonché di farmaci per uso umano e veterinario.
In casa le donne attendevano alle faccende domestiche, al lavaggio dei panni sporchi e a tenere a bada “i ziti”. Il sabato sera, infatti, era dato alla visita de ‘lu zitu” alla “zita”, visita che si protraeva fino a tardi, con l’osservanza di un rito, quasi liturgico, molto meticoloso.
I “promessi sposi” dovevano sistemarsi, se d’inverno, ai due lati del focolare, se d’estate ai due capi della “buffetta”, con in mezzo la mamma, o una sorella, o un fratello, comunque mai l’uno accanto all’altra. La vigilanza, pur strettissima non era mai sufficiente ad evitare, o per una distrazione o per un compromesso col guardiano, lo scambio di baci appassionati, di morbide carezze e finanche di inebrianti tocchi delle forme della ragazza.
Molto frequenti poi erano le cadute di fazzoletti e altri oggetti, raccolti premurosamente dal giovane, felice e fortunato, nell’atto di inchinarsi, di lanciare rapidi sguardi oltre le caviglie, su su per le ginocchia fino al limite della porta del paradiso, intravista in un alone scuro, così come sempre sognata e sospirata nei sogni e dormiveglia mattutini.
La stagione più bella e desiderata per il contadino era certamente l’inverno, e per il ristagno dei lavori campestri, e per le ricorrenze festive, e per le occasioni di riunioni. Queste ultime si caratterizzavano con la uccisione del maiale che ogni famiglia allevava per un anno intero. Era una vera festa, molto attesa, celebrata con riti particolari, trasmessi da padre in figlio. Intorno al suino sgozzato, squartato e appeso a ‘lu cruocc” del trave, si radunavano famigliari, amici e vicini di casa.
Tutti si affaccendavano nelle diverse e laboriose incombenze: lavaggio degli intestini, raschiatura delle cotenne, “pisatura” del sale, affilature dei coltelli, divisioni delle carni o altro ancora. I ragazzi si divertivano ad arrostire pezzetti di carne sulla brace e a confezionare i “sauzucchiedd”, piccoli salsicciotti, riservati a loro. Il lavoro durava tutto il giorno, interrotto dal pranzo a base non di carne suina ma di polli, agnelli o capretti, e innaffiato di vino nuovo rosso o bianco, a seconda dei gusti. Dopo sistemato ogni cosa: le salsicce e le soppressate ai travi, il lardo in salamoia, il filetto e le estremità ben custoditi, si apriva la festa che si protraeva fino alle ore piccole, tra balli, cori e divertimenti vari.
La domenica, dopo assolti gli obblighi religiosi, con la partecipazione dei grandi, genitori e nonni, alla S. Messa “Mattinale”, dei ragazzi a quella “media” e dei giovani alla Messa “bella” delle undici, il pomeriggio era impiegato dagli uomini nelle cantine, preferite quelle che esponevano “la frasca”, ad indicare la mescita di vino nuovo, frizzantino, dal colore ambrato e dal gusto raffinato, e per un undici alla scopa, o un 31 al tressette, o una briscola e una passatina a “padrone e sotto”, con l’immancabile “olmo” da appioppare “a chi so io...” dai giovani a bighellonare per le strade, discorrendo di ragazze, di conquiste e sconfitte, oppure a riunirsi in case private ad ascoltare musica folk con accenni a brevi balli unis-ex, sgraditi, perché il “ballo senza grembiale è come una minestra senza sale”. Le donne e le ragazze restavano in casa: quelle, riunite a crocchi, a pettegolare, a interessarsi dai fatti altrui, a commentare avvenimenti vari, e a scambiarsi segreti intimi coniugali; queste a ragionar di giovanotti, di flirts, o di moda, in una cornice di invidie e gelosie, spesso esasperate.
La stagione dei lavori iniziava a S. Biagio: “a Sant’ Biase la murenn’ tras” con la potatura delle viti e alberi da frutto, la zappatura delle vigne e la preparazione degli orti, per proseguire in aprile con la sarchiatura dei seminati, eseguita particolarmente dalle ragazze, e arrivare poi alla raccolta, alla vendemmia e alle comitive nei castagneti per il raduno del dolce frutto da conservare per le pastatelle di Natale. In questo periodo, se si eccettuano le varie ricorrenze religiose di maggio e giugno, non vi erano possibilità per il tempo libero. Così IERI! E OGGI?
La differenza è abissale, e ogni riferimento è impossibile. Purtroppo sono stati intaccati anche valori intramontabili di istituzioni fondamentali per il vivere sociale. E’ assolutamente necessario fermarsi, prima che il pericolo di precipitare si aggravi!


da: "Calvello - storia, arte, tradizioni"
di Luigi De Bonis
su autorizzazione dell'autore

Autore: Luigi De Bonis

 

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