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LA SPIAGGIA DEL IONIO - 2

La foresta di POLICORO

Tristezza dolce del tramonto sul pantano di Policoro!

Triste, spoglia, spettrale è la piana intorno al castello massiccio, che incombe sulle bianche case allineate dei villici.

Solenne, nel fulvo mareggiare della pianura ondulata, la campagna giunge incolta sino alla foresta, che si distende dalla foce dell’ Agri alla spiaggia, paludosa del Sinni in un trionfo di vegetazione tropicale: e riveste il pantano come onde vegetali lanciate tra il cielo e il mare.

La foresta di Policoro è un’ immensa oasi nel deserto della costa del Jonio. La spiaggia di Eraclea, guardata alle spalle dall’erta ripida dei monti lucani brulli, quasi raschiati, spogliati fino alla roccia, è fluttuante di ulivi, di grandi querce, di potenti carrubi, di pruni e di favolosi pini tremolanti, che hanno qualcosa di religioso ben più solenne delle eterne conifere alpine.

Ricordo “un autunno trascorso in quotidiana comunione col deserto,, del Jonio. In vista dei superstiti colonnati di Metaponto e dei ruderi di Eraclea, “testimoni umani sulla totale morte,, pensavo alle opere colossali degli italiani di oltre oceano ed all’azione italianissima dell’ ultima rinascita. Il sentimento nostalgico ci accompagna. Il ricordo della terra natia diviene intenso e così ardente che ci appassiona fino al delirio. Spesso questa passione, questo richiamo delle rovine, questa voce possente della razza nostra fa risuonare il canto nostalgico dei minatori basilicatesi fra le rocce delle gallerie o delle caverne carbonifere americane, o sui docks interminabili — voce solitaria dispersa nel gran vortice rombante delle città mostruose. — Un getto di poesia erompe dall’intimo e ripiendoci l'anima di musica e di freschezza ineffabili; e i desideri e le speranze s’alzano con un felice ardire.

Un dramma di stirpi su questo teatro. Qui solo le ceneri piene dei fati di millenni di civiltà. Nel tratto tra Eraclea ed il fiume Sinni fu combattuta la prima grande battaglia del famoso re Pirro contro i Romani. Di fronte alle azzurre onde del mare si scontrarono i due eserciti; per sette volte le legioni di Roma compatte, audaci mossero alla carica contro schiere di elefanti carichi di torri, sormontate da italioti e da greci armati di lance e di strali. Tutta la selva è fecondata da ossa di eroi.

Qui tutto e morto, ma tutto può rivivere all’improvviso in uno spirito che abbia una dismisura e un calore bastevole a compiere il prodigio ,,. “Quale“ ardua colonna, quale igneo deserto — scrive Gabriele D’Annunzio, che ebbe una visione biblica “ delle rovine della civiltà di Roma — quale stagno “febbrifero, qual più ermo più nudo e più tragico “luogo può vincere questo, nella virtù di accendere la scintilla sacra della follia? ,,.

Quali germinatori più fecondi? Gli eroi nuovi si uniscono agli eroi antichi “invasati da una forza misteriosa e incalcolabile,, e parlano dinanzi ai colonnati immortali o dinanzi ai tripodi crotoniati, additando il genio della stirpe custode d’innumerevoli destini.

Qui rupi, piani, abissi, borri e vallicelle — benché percorse le micidiali pianure malariche da uomini taciturni e curvi, che pel latifondo, per 1’analfabetismo, per la terra arsa e priva d’acqua offrono uno spettacolo di genuina barbarie primitiva — sono pur pieni d’ogni vestigio, serbano le radici della vita del pensiero e dell’arte. Come immaginare la grandezza di una resurrezione?

La lotta è qui tra la barbaria medioevale, — che colti fondo, col deserto, coi letti palustri dei fiumi e con la malaria ancora trionfa, — e la gente nuova, che col rimboschimento, con le bonifiche, con le vie di comunicazioni, col lavoro alacre tenta di rendere feconda questa piaga frumentaria. La rinascita avanza travolgendo i resti del Medio Evo.

Il genio “rivelatore della potenza della stirpe, osserva il poeta ne “LA VERGINE DELLE ROCCE,, deve estendere oltre ogni limite “ 1’orizzonte della sua coscienza, abbracciando e i giorni e gli anni e i secoli e i millenni, perché la sua verità emanante dalla somma “della vita vissuta dagli uomini fino all’ora presente, “sembri un foco in cui possano accogliersi, armonizzarsi e moltiplicarsi le energie ascensionali del più gran numero di generazioni, per proseguire più direttamente e più concordemente verso idealità più pure.

Il latin sogno d’imperio si addensa e si fa più tenace, così che gli eventi non potranno dissiparlo e distruggerlo,, per sempre.



Francesco Lomonaco



Radiosa di sole, illuminata dalla luce del pensiero di Francesco Lomonaco, dal magistero dell’arte di Melchiorre, architetto della corte di Federico II, e dal richiamo dei suoi martiri, Montalbano “ si profila ben sagomata,, sopra un colle, alla riva sinistra dell’Agri, dinanzi al mare Jonio smeraldino ed alla vasta pianura, che costituiva, in un lontano tempo della nostra storia, la parte più organicamente definita e possente dell’Italia antica.

Se c’è un paese che può vantare uno svolgimento originale del pensiero, dal periodo greco al Rinascimento e dal Rinascimento ai giorni nostri, questo è appunto il piede d’Italia; e, nel “ medesimo tempo “— ci osservano Guido De Ruggiero e Antonino A.nile — non v’è paese che possa deplorare con “maggior diritto del nostro il disconoscimento più “pieno della vita mentale ,,. Come tanta vita di pensiero in una regione abbandonata per secoli e desolata?

E tempo che Bruno, Telesio e Campanella trovino il loro posto nella storia del pensiero come precursori di Cartesio, di Spinoza e di Locke; Vico come il geniale presentimento di Kant; Galluppi come la coscienza più compiuta del Kantismo e Francesco Lomonaco come precursore dell’ unità e dell’indipendenza italiana.

Questa affermazione dei nostri diritti nel campo del pensiero era già stata fatta da Francesco Lomonaco, da Vincenzo Cuoco, nel periodo della Repubblica Partenopea e poi da Bertrando Spaventa ai primordii della nostra unità politica, ma gli italiani allora non ne compresero il significato “ i1 primo insegnamento “dello Spaventa, come quello del De Sanctis, non “trovò menti preparate a riceverlo. Non così oggi “che nella rinascente italianità noi impariamo a vivere in comunione col nostro passato, consci che “ogni sviluppo della vita speculativa è solo possibile“ mediante una più salda continuità con la tradizione “storica ,,. La nostra patria non si è fatta nel 1860, ma si va facendo ai nostri giorni, da quando l’intrepida e combattiva legione degli scrittori nazionali, Errico Corradini, Ermenegildo Pistelli, Giacomo Venezian, Domenico Oliva, Alfredo Oriani, Luigi Federzoni, Benito Mussolini, Francesco Coppola, Roberto Forges - Davanzati, additando la missione di Roma nel mondo, e la legge del dovere verso la Patria, ripetono quel rito, per cui il Nazzareno sta nella nostra memoria come segno di redenzione ,,.

I primi germi del bene politico, nell’età dei nostri avi, spuntarono — osserva il Colletta dal suolo di Napoli: “ ma sempre fu visto trasformato il merito in delitto, la buona fama in infamia.

La tirannide degli stranieri e il dispotismo feudale e teocratico avevano reso possibili tutte le nefandezze e le brutalità della corruzione morale e della decadenza intellettuale. Nel secolo XVIII una schiera di scrittori gettò i germi delle idee nuove, che dovevano liberare la società dalla servitù secolare. I liberi pensatori napoletani precedettero gli scrittori francesi. Il Vico, il Giannone, il Gravina, poi il Filangieri, il Genovesi, il Serra ed altri tracciarono i nuovi principi contro l'assolutismo e segnarono i primordi delle riforme civili e costituzionali.

Più tardi grandeggiarono due lucani: Mario Pagano e Francesco Lomonaco, che presero parte importante nella difesa della repubblica partenopea. I filosofi di Francia, più fortunati, provocarono quella terribile esplosione sociale, che iniziò un’opera nuova nella storia dell’ umanità.

Ma la Francia era unita, e libera dall’oppressione straniera. L’Italia, divisa, conosceva tutte le tirannie. E gli scrittori napoletani... ebbero la corona del martirio.

Francesco Lomonaco, 1’emigrato del 1799, l’autore del rovente “Rapporto al cittadino Carnot,, il cosiddetto Plutarco italiano, al quale il Manzoni giovinetto dedicò la sua prima poesia data alle stampe, ci addita i due termini dell’antitesi tragica che la sua vita e la sua morte presentano: il suo ideale etico-politico e la congiura aulica, the tentò di soffocare quell’ideale nella persona del martire di Montalbano, come in quella di altri insigni: Bruno, Galliano. L’ ideale napoleonico — 1’impulso francese — fugava 1’ideale italico.

La sua morte volontaria fu 1’oscuro episodio di un grande dramma storico.

Repubblicano, nel 1799 sfuggì, per un errore della polizia borbonica, al capestro, di cui perirono Mario Pagano, Domenico Cirillo ed i suoi concittadini Nicolò Fiorentino e Felice Mastrangelo; riparò in Francia. L’esule impugna la penna come una spada.

Nel suo “ Rapporto al cittadino Carnot ,, protesta contro l'orgia regia di sangue ed annunzia 1’aurora dell’ unità d’Italia; nelle “Vite degli eccellenti italiani ,, Egli mostra 1’Italia come “ la madre dei geni precursori, la maestra delle genti ,,; con “ le Vite dei famosi capitani d’ Italia ,, —— celebrate da Vincenzo Monti — mirò a ravvivare lo spirito militare ed il loro valore “che fu grande, luminoso, veramente italiano.

E tali scritti “si possono considerare i precedenti storici del Primato di Vincenzo Gioberti ,, —; nell’” Analisi della sensibilità ,,, seguendo “ il metodo “sperimentale, mostra come dall’ unico principio della sensibilità dei nervi si formi la psiche individuale e sociale,, e attribuisce “un’efficacia assoluta alla “educazione ed in questa riconosce il maggior fattore “del carattere.

Il grande precursore dell’ unità italiana — scrive Francesco Torraca — “ aveva letto e meditato innumerevoli opere antiche e moderne, italiane e straniere: ammirava senza restrizioni Omero, Tacito, Dante, Macchiavelli, Shakespeare, Vico, Alfieri; ammirava ed amava il Montagna, Michele di Montaigne ,,. “Il Lomonaco analizza e svolge ampiamente le impressioni rapide, le osservazioni sommarie del uell’ intellettuale ef[le diverse province e, Italia.



Anglona - Tursi

Nel dìscendere da Montalbano verso Anglona, in parte per le asprezze della vecchia strada mulattiera, la valle dell’Agri appare nella ricchezza delle sue opere, oltre che nella gloria dei suoi ricordi. Buona fertilità di terra e buone fatiche d’uomini volenterosi. Se qui vicino, Montalbano, con i suoi agrumeti ed i giardini ubertosi, assicura che questa non è soltanto una terra di magistri immaginosi, di umanisti, e di cospiratori, si anche di contadini coraggiosi e tenaci, di lontano 1’apparire di Senise estrae dal cofano delle cose studiate la figura di Nicola Sole.

Italia nuova, che mirabilmente si innesta sull’antica e prepara ai futuri una fortuna, più sicura e più gagliarda che non siano i fantasmi, pur sacri, delle lontane età consumantisi nelle lotte feudali!

Tursi è di fronte, lì sul colle, e richiama le lotte della sua gente araba contro la cristiana Anglona.

A contrasto, appena cessati gli orti e gli agrumeti di Montalbano, la pianura ionica appare abbandonata, nuda, palustre, perigliosa. Risalendo da Policoro verso Tursi, sulla destra del Sinni, a nord della foresta, si leva solitaria la chiesa normanna di Anglona, unico avanzo della città omonima, che era sorta sulle rovine dell’antica Pandosia. Questo sacrario, dedicato a Santa Maria, specialmente nel complesso dell’abside, del campanile e del portale romanico, è di una sorprendente, originale e maestosa bellezza.

Molto probabilmente in queste vicinanze morì verso il 330 av. C. Alessandro Molosso, re d’Epiro, zio di Alessandro il Grande. Egli era stato invitato dai Tarantini contro i Lucani e aveva riportato su di essi parecchie vittorie: ma presso Pandasia fu sconfitto, e, mentre stava per passare a cavallo 1’Agri, cadde trafitto da un dardo scagliato da un Lucano. Non si sa quando avvenisse la distruzione di Pandosia, ne quando sorgesse Anglona.

Questa ebbe poi a sentire gravi danni dai Saraceni, i quali s’erano, installati nella vicina Tursi. La borgata di Tursi, Rabatana, conserva ancora il nome arabo ed attesta la dimora che vi fecero i Saraceni. Tra gli abitanti di Anglona e quei di Tursi vi fu sempre rivalità; finalmente pare che, verso il 1300, la gente di Tursi abbia assediata Anglona, abbia costretto gli abitanti ad uscirne, ed abbia dato fuoco al paese, conservando il solo sacrario.

Anglona e Tursi: la cristiana città morta e 1’alpestre borgo mussulmano, rifatto cristiano e bello ancora d’un magnifico tempio vescovile e del palazzo del Seminario, ricchi di pregevoli quadri. Allo svolto del fiume Sinni, la badia di Santa Maria di Anglona si eleva nelle sue linee semplici e nella tenera armonia delle sue tinte.

Chi conosce ed ammira e ricorda più, nella stessa regione basilicatese, la bella mole, che fu innalzata nel medio evo sui declivii della pianura ionica? chi ricorda la città che fino al periodo normanno-svevo fu un vasto centro strategico posto a difesa del nodo stradale della costa e dell’ Appennino valicato fino al Tirreno? chi si avvicina più ai ruderi sparsi per la piana abbandonata, ritrovo di terracotte fregiate, in rilievo, di cervi, di giraffe binate, di mostri romanici, di intrecci, che bene indicano quali fossero il gusto, le esigenze, il carattere e la ricchezza dell’emporio commerciale e della città abbandonata?

Come si è lontani dalla realtà fra le ininterrotte file di robusti pilastri affrescati, reggenti i grandi archi lombardi e la volta a tutto sesto; di faccia al narcete saliente con le orientali e agili ogive aguzze; dinanzi alla facciata severa, che è un bell’esempio di architettura romanica pura, per la finezza della costruzione muraria e della scultura, per la grazia elegante della linea generale.

Nel mezzo della fronte austera s’apre il nobile portale a tutto sesto con poche e robuste modanature con stipiti e capitelli decorati di sculture grossolane, teste sorrette, le une contro le altre, severi simboli evangelici, vaghi fregi a denti di sega, fiori stilizzati, rozze teste di bue e di leone. Più semplici, ma non meno belli, si levano il solido campanile romanico e 1’abside, che è adorna di una serie di archi allungati e di archetti pensili. La nobile forma degli archi, la decorazione vigorosa e gustosa dei capitelli, 1’elegante apparecchio - della finestra romanica — che si apre al centro dell’abside circolare — la fastosa figurazione bizantina dei pilastri, tutto appaga 1’occhio in questo sacrario.

Per un momento si pensa quasi con invidia alla quieta vita claustrale. Ma questa solitudine di Anglona è desolante, è dolorosa. Mi auguro solo che con opportuni restauri possa essere conservato alla venerazione ed alle severe ricerche degli studiosi questo gioiello della ingenua arte di un’epoca per tanto tempo riguardata come barbara.

Intorno al sacrario normanno, che segna un periodo di transizione e mostra il lento spostarsi di tutto un insieme di mode artistiche romaniche verso i nuovi procedimenti dell’arte ogivale arabo-sicula, si è fatto il deserto, si profilano irregolari e frammentari i resti della città distrutta, sui quali, nel silenzio altissimo e nella desolazione indicibile, si arrampicano le fulve caprette: lo stesso tempio, al vespero, è ritrovo di pastori meriggianti, che, sotto le arcate adorne di immagini ieratiche bizantine e di iscrizioni greche, suscitano il flebile suono della cornamusa, rievocante melodie di melopee antichissime.


Da "LA BASILICATA NEL MONDO" - (1924 - 1927)

Autore: CONCETTO VALENTE

 

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