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PRETURA DI ROTONDELLA: MANDATO DI CATTURA CONTRO GIUSEPPE MAZZINI

Rotondella è un piccolo paese di circa 5.000 abitanti e domina uno stupendo panorama la cui vista giunge sino al mare Ionio, a Taranto. Si erge su di un'alta collina circolare: era detta "rotonda maris". Alcuni suoi portali barocchi dimostrano un'antica nobiltà anche architettonica. È sede di un'antica Pretura che esisteva anche durante il governo borbonico. La Pretura di Rotondella era una buona "longa manus" del potere centrale borbonico. Era attenta a garantire l'ordine pubblico e pronta a punire chi lo turbava. Il Pretore di Rotondella ha emesso nell'ottobre del 1834 nei confronti di Giuseppe Mazzini un mandato di cattura che presuppone una imputazione seguita, di solito, da un processo. Molte sono le ipotesi che si possono fare. Quanto segue analizza ed esamina alcuni aspetti del periodo in cui il mandato di cattura è stato emesso. È sicuro che l'atto è collegato alle attività della Giovine Italia. La Giovine Italia aveva il suo centro a Malta dove Mazzini aveva i suoi seguaci e la polizia borbonica i propri informatori. L'isola si trova al centro delle rotte marine, che collegavano i Paesi in cerca di libertà o che combattevano per conseguirla: Spagna, Portogallo, Grecia, Italia. Malta era divenuta dunque rifugio di esuli politici e centro di cospirazione. Luigi Settembrini in "Ricordanze della mia vita" riferisce che nel periodo intorno al 1834 i liberali napoletani (soprattutto quelli del circolo del Poerio, cui il Settembrini fu molto vicino) avversavano profondamente il mazzinianesimo. Scrive, infatti, il Settembrini: "oggi non si vuol sapere di sette" e ciò perché tra il 1848 e il 1860 l'iniziativa politica era passata definitivamente alla classe dirigente moderata, che aveva condannato la politica rivoluzionaria. Considerava le sette una necessità del popolo servile (non solo suddito) perché cessano: "quando l'idea che le ha formate non è più segreta né di pochi, ma pubblica e generale, e deve diffondersi e valere per tutti". Osserviamo, ora, i prodromi della Giovine Italia in Lucania. I liberali lucani erano accusati di appartenere alla Giovine Italia, mentre in realtà vi erano tra loro precursori dell'unità d'Italia ed altri che seguivano l'ideale federalista, cioè la Confederazione degli Stati Italiani.
Nel 1832 venne in Lucania, dopo essere passato da Napoli, un giovane fiorentino, Giovanni Palchetti, per vendere le opere di Vincenzo Gioberti, il quale si adoperava affinché il Papa fosse il capo della Federazione degli Stati Italiani. Ebbe un incontro con i fratelli D'Errico di Potenza, nella cui casa si riunivano Massoni e Filadelfi. A Bosco, nel Cilento, la popolazione, incoraggiata dall'anziano canonico Antonio De Luca, che aveva contatti con i Filadelfi della zona, si sollevò nel giugno del 1828, proclamando la Costituzione di tipo francese. Il colonnello Francesco Saverio Del Carretto, ministro di polizia esoso e tirannico, represse l'insurrezione mandando a morte 26 persone, compreso l'ottantenne canonico De Luca. Al paese fu cambiato nome. A Potenza Vincenzo D'Errico, di Palazzo San Gervasio, assieme ai fratelli Michele, Agostino e al nipote Pasquale Ciccotti, fondò un circolo di "galantuomini", i cui aderenti erano soltanto ex carbonari. Al circolo venne dato il nome di Giovine Italia e ne divenne presidente Vincenzo D'Errico. Dopo la rivoluzione del 1799 (Peucezio, Il sud e l'unità, Laterza Bari 1966, pag. 23) i Borboni dispersero coloro che formavano la classe fornita di vera cultura e che venivano ironicamente chiamati "i pennaioli". Per interesse dinastico rivolsero la loro simpatia all'immondizia della plebe", nonostante una buona parte fosse nascosta tra i boschi per vendicare i soprusi subiti dal "popolo basso" nei secoli passati. I briganti non avevano conseguito una vera protezione e venivano sopportati dal governo centrale, perché ristabilissero la "giustizia alterata dalla ribalderia dei nobili e dei ricchi". Venivano sopportati perché al momento opportuno il re li avrebbe "usati" per combattere gli avversari. La classe colta aveva subito, dopo il 1799, prova di grande crudeltà soprattutto da parte della regina Maria Carolina per vendicare il delitto compiuto dai repubblicani francesi ai danni della sorella Maria Antonietta. Sono stati compiuti da Ferdinando IV, da Maria Carolina, da Nelson e dai loro complici atti di perenne vergogna e di viltà inumana. La storia è a tutti nota. Nel regno delle Due Sicilie la Carboneria trovò molti proseliti. Varie sette composero questa società segreta: I Filadelfi, I Patrioti Europei, I Greci, I Decisi, I Pellegrini Bianchi, Erranti, Trinitari. Gli affiliati alla Carboneria si chiamavano tra loro cugini. Gran Maestro era la persona presso il quale, in gran segreto, si riunivano. Vendita era detto il luogo di riunione. Il Cerimoniale era simile a quello massonico ed in particolare a quello delle logge coperte. A Potenza avevano sede la magistratura ed il Senato dei Carbonari di Lucania, i quali aspiravano ad avere un Parlamento. Nel giugno del 1820 i delegati di tutte le vendite si riunirono a Potenza in una grande assemblea carbonara generale. Vi erano repubblicani pronti a piantare l'albero della libertà, ove mai il sovrano non avesse concesso la costituzione. Altri invece, fedeli alla monarchia, aspiravano ad avere dal sovrano la costituzione. Un'altra setta, era nomata dei "Calderari" (antagonista dei Carbonari) o "La setta dei Rivellesi". Rivello è un paese dove tutti o quasi esercitavano il mestiere di calderai girovaghi. La sconfitta del re di Spagna (determinata dalla rivoluzione di Cadice estesasi poi a tutto il regno e conclusasi con la concessione della Costituzione agli spagnoli) indusse alcuni militari a ribellarsi al re. A Nola nei primi giorni del mese di luglio del 1820 due tenenti di cavalleria, Michele Morelli e Giacomo Salvati, riuscirono a staccare un contingente armato e marciare verso Avellino gridando "viva il re e la costituzione".I moti si propagarono nel territorio di Lecce, nella Capitanata, in Lucania, con a capo Guglielmo Pepe, ex generale di Gioacchino Murat. Aspiravano tutti ad avere la Costituzione. Il re, avendo constatato che anche l'esercito appoggiava la rivolta, annunciò, in un proclama, di concedere la Costituzione come quella concessa dal re di Spagna e nominò il figlio Francesco (nato il 1777 e morto il 1830) duca di Calabria, reggente del Regno e suo vicario generale. Il Regno di Napoli ebbe la Costituzione e Francesco ne chiese al padre la ratifica. In tutti i paesi della Lucania subito sventolò la bandiera di colore rosso, celeste e nera. Furono rinnovate le cariche, i consigli distrettuali e provinciali, i sindaci, i nuovi decurioni e vennero indette le elezioni per eleggere i deputati al Parlamento napoletano. Generale fu l'entusiasmo per l'elezione del Parlamento. I delegati giunsero a Potenza, Matera, Lagonegro, Melfi per eleggere i rappresentanti del Parlamento napoletano. Si votò, ovviamente, per censo. Gli eletti furono: Domenico Cassino di Moliterno, Carlo Corbo di Avigliano, Innocenzo De Cesare senior di Craco, Paolo Melchiorre di Lauria, Francesco Petruccelli di Moliterno, Donato Sponzi di Avigliano oltre i supplenti. Francesco mantenne una condotta equivoca, anche perché l'Austria non condivideva tale novità. L'imperatore fece capire che avrebbe mandato l'esercito a ripristinare l'ordine turbato ed il regime assoluto di Ferdinando. Infatti nel 1821 - nel mese di aprile - gli austriaci entrarono in Potenza. Nell'ottobre del 1821 giunse a Potenza il maresciallo Roth, commissario del Re, con la Corte Marziale scortata da 600 militari austriaci con l'intento di processare e punire i rivoltosi (Decreto Reale 30.7.1821. Cfr. D'ANGELLA, Storia della Basilicata, Vol. II, pag. 531). Il re non fu leale nei confronti dei cittadini che intendevano modificare, in parte, la Costituzione spagnola con l'introduzione della libertà di culto. Il re volle inviare a Vienna una delegazione per informare l'imperatore del nuovo assetto politico, quando l'esercito austriaco era già pronto ai confini del regno. La Lucania fu mobilitata ed il nuovo governo costituzionale ne decretò l'armamento. L'esercito fu formato ed a capo fu posto il generale Pepe. I Carbonari furono sconfitti nella valle del Monte Velino (Rieti) e poi ad Antrodoco sino a quando gli Austriaci giunsero a Napoli il 24 marzo 1821. L'11 aprile 1821 la Costituzione fu revocata e venne nominata una Giunta di Stato per giudicare i Carbonari rivoltosi. Gli esponenti di maggior spicco tra i carbonari si allontanarono dai luoghi di residenza sia per sfuggire all'arresto sia per organizzare la reazione contro il re spergiuro. Tra i maggiori promotori della riscossa figurano: Giuseppe Venita, nativo di Ferrandina, Carlo Mazziotta medico di Calvello ed il capitano Domenico Corrado; vi aderirono, poi, il prete Eustacchio Ciani, Giuseppe Caparelli, Leonardo Abbate. Si cercò di organizzare la rivolta e Giuseppe Venita si recò a Calvello. Una spia avvisò la polizia che già sapeva, di trovarsi nella casa del frate laico Luigi Rosella ma non riuscì a catturare il Venita, ed arrestò, invece, il Rosella. Questa circostanza fece scatenare la rivolta popolare: le carceri vennero prese d'assalto ed il prigioniero Rosella fu liberato. I rivoltosi lasciarono sul terreno un morto: un pover'uomo, la guardia del carcere. Venita, Mazziotta ed altri 50 furono arrestati con l'accusa di aver partecipato alla rivolta. Venne nominata e presieduta dal maresciallo Roth, la Corte Marziale che celebrò il processo nella piazza di Calvello. Ventiquattro imputati furono condannati a morte e altri ventisei a pena detentiva. Tra i condannati a morte solo nove furono giustiziati. Tra questi vi erano i due fratelli Giuseppe e Francesco Venita, il medico Mazziotta e il frate laico Luigi Rosella. Anche a Laurenzana furono arrestati quarantasette carbonari che tradotti a Potenza, vennero processati: diciassette di loro furono condannati a morte e per quindici l'esecuzione della sentenza fu sospesa. Vennero fucilati Giuseppe Cafarelli e Leonardo Abate. Fu ucciso anche Domenico Corrado, membro di una famiglia di forti tradizioni liberali. Il ruolo di questo giustiziato è incerto: brigante o patriota? Domenico Corrado era nato a Potenza nell'anno 1782. Fu avviato agli studi da uno zio prete ma volle seguire la vita militare. Durante il regno di Gioacchino Murat combatté il brigantaggio (come premio ebbe in dono una masseria) e fu aderente difensore della Costituzione e del governo costituzionale. Partecipò, agli ordini di Guglielmo Pepe, e, nelle schiere lucane, alle sollevazioni contro i Borboni: deluso si ritirò nella sua masseria sulle Murge nei pressi di Gravina di Puglia ma il suo massaro, traditore, lo fece catturare dalla polizia borbonica in applicazione della legge 26.8.1821. Bastò la testimonianza di quattro persone che affermarono di averlo visto, armato percorrere le campagne, per essere condannato a morte. Domenico Corrado fu fucilato a Montereale, rione di Potenza, il 10 aprile 1822, davanti a una città incredula e sgomenta. Il giustiziato morì, mostrando coraggio e disprezzo della vita. Comandò, come spesso accadeva, da solo il plotone d'esecuzione, così come a Pizzo Calabro aveva fatto Gioacchino Murat, ed ordinò: "mirate al petto, salvate il volto". Le persecuzioni della polizia continuarono anche con la sostituzione del Principe di Canosa, con Minutolo, il quale inviò a Potenza il colonnello Del Carretto come commissario del re; continuò le persecuzioni che fecero orrore alle persone civili ed anche al generale austriaco Frimont (D'ANGELLA, Storia della Basilicata, Edizione Edoardo Liantonio, Vol. II, pag. 530 e seg.). La persecuzione dei patrioti non cessò. Nel dicembre del 1827 l'Intendente di Basilicata decise di arrestare di nuovo Lorenzo Nigri che, scarcerato nel 1826, era rientrato a Palmira (così si chiamava Oppido Lucano). I soliti delatori avevano avvisato la polizia che Nigri intendeva dare vita alla cessata vendita della Carboneria. Era stato, nel suo paese, il capo della rivolta nel 1821 assieme ai suoi fratelli. La polizia, ad Oppido, la notte di capodanno del 1828, accerchiò la casa dei fratelli Nigri per arrestarli. Il più giovane dei quattro fratelli, Lorenzo, preso dal panico, scappò: fu inseguito e colpito a morte dai gendarmi. Un gendarme fu ferito a morte, anche Lorenzo fu ferito, catturato e condotto a Potenza insieme con i fratelli, il maggiore dei quali aveva solo venticinque anni. Si celebrò il processo ed il giudizio fu affidato ad un consiglio di guerra, la cui sentenza, come spesso accadeva, era già precostituita. Fu negato agli imputati l'elementare e naturale diritto di difesa. La sera dell'11 marzo del 1828 venne pronunciata la sentenza. Lorenzo fu condannato a morte e subito fucilato. I suoi fratelli furono condannati a trenta anni di reclusione. Gli eventi descritti non cancellarono del tutto le vendite carbonare sparse in diversi comuni. Così non avvenne a Potenza dove i "galantuomini", ricchi proprietari, cessarono di essere fedeli alla Carboneria che fu sciolta e tutti (o quasi) divennero fedeli al re. Solo qualche artigiano rimase fedele alla Carboneria come il sarto Nicola Papariello, il quale rimase isolato dopo i fatti di Potenza e Oppido e dopo la condanna a morte di Lorenzo Nigri.

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Ritornando indietro nel tempo esaminiamo ora cosa accadde in Lucania negli anni 1820-1821. Dopo il periodo che va dal 1820-1821, fra le sette aderenti alla Carboneria spicca la Lega Europea, il cui grande sostenitore era un medico di Calvello, Carlo Mazziotta. Assieme ai suoi compagni di Potenza e Ferrandina cercò di propagandare la carboneria e le sue derivazioni. Il Mazziotta, condannato a morte, come abbiamo visto, affrontò la condanna senza tradire i compagni, anche se la delazione ed il tradimento, forse, l'avrebbero salvato. Non credo che Mazzini avesse conosciuto tutti gli atti di eroismo dei patrioti lucani, perché se ciò fosse avvenuto non avrebbe denigrato la carboneria del sud. Per poter dire come fosse organizzata la Carboneria è opportuno riportarsi al Congresso di Vienna, i cui partecipanti decisero di restaurare il più possibile il potere e di limitare, nello stesso tempo, ogni libertà. I governanti dell'epoca, ignari dell'evoluzione sociale, si trovarono a dover fronteggiare forti gruppi di opposizione. Gli aderenti a questi gruppi quasi sempre rischiavano la vita tanto che gli adepti erano costretti ad agire in grande segretezza. Fra le diverse associazioni vi era la Carboneria, il cui nome fu importato dalla Francia. Questi gruppi non erano collegati fra loro e ciascuno aveva degli obiettivi molto limitati. Mazzini si affiliò a quello di Genova, forse senza condividerne le idee; lo fece solo, o soprattutto, per muovere critiche o per sperimentare le proprie idee alla luce di quelle degli altri ed anche per trovare proseliti e seguaci della sua idea tra gli studenti. Mazzini, in tre anni, pur essendo affiliato alla Carboneria nulla fece di concreto. Dopo la rivoluzione del luglio 1830, avvenuta a Parigi, fondò a Livorno una "vendita", cioè una cellula di affiliati Carbonari. Denunziato dal capo dei Carbonari genovesi, fu arrestato, processato e rinchiuso nel carcere di Savona, dove rimase detenuto per quattro mesi circa. Nonostante fosse detenuto, poteva comunicare con i suoi amici e compagni di Genova. Nel corso del processo, al posto del confino (la cui destinazione poteva essere uno sperduto paese), preferì l'esilio. Andò a Ginevra (dove un compagno di esilio parlava di lui come di un secondo Socrate), poi a Lione, Tolone e Marsiglia. A Lione incontrò diversi fuoriusciti italiani, fra cui la modenese Giuditta Sidoli. Costei si adoperava per tenere uniti gli insorti e i volontari desiderosi di entrare in Italia dalla Savoia al fine di lottare insieme con i compagni patrioti. All'estero gli esiliati erano spiati. Le lettere che Mazzini scriveva a Giuditta dai luoghi dell'esilio, prima di arrivare nelle sue mani, venivano lette dal Metternich e dalla polizia dello Stato Pontificio. I patrioti furono facilmente individuati e dovettero riparare in Corsica. Mazzini ritornò a Marsiglia per fondare la Giovine Italia, i cui iscritti non si chiamavano "affiliati" come nella Carboneria ma "affratellati"; ciò al fine di far prevalere la massima eguaglianza tra gli associati indipendentemente dal censo, dall'età, dalla provenienza o dall'estrazione sociale. La Giovine Italia, al contrario della Carboneria, aveva per suoi colori il turchino, il nero, il rosso (i maestri avevano la sigla O.V.P. - Onore, Virtù, Probità -; gli apprendisti F.S.C. - Fede, Speranza, Carità -). Aveva scelto i colori della bandiera italiana del periodo napoleonico: il bianco, il rosso, il verde. Il giuramento della Giovine Italia, che invocava Dio, l'Italia, i Martiri della Santa Causa italiana e i doveri che legano i cittadini alla propria terra, proseguiva con queste parole: "convinto che dove Dio ha voluto che fosse Nazione, esistono forze necessarie a crearla; che il Popolo è depositario di quelle forze" (M. VITERBO - PEUCEZIO, Il Sud e l'Unità, Ed. Laterza, pag. 39). Coloro che aderivano all'idea della Giovine Italia dopo gli infelici moti del 1820, 1821 e 1831, non si arresero. Le idee di Giuseppe Mazzini tenevano uniti non solo i lucani. Con il pensiero e l'azione si doveva liberare la patria dalla tirannia. Il programma unitario e democratico era basato su: "Dio e Popolo", la vita come "missione" e l'esercizio dei diritti quale condizione per l'adempimento dei doveri, primo fra tutti quello verso la Patria. Il rinnovamento e l'indipendenza dell'Italia dovevano essere opera di insurrezioni popolari, preparate attraverso una diffusa opera educativa. A Potenza nel 1832 fu costituita una sezione della Giovine Italia per opera del già noto Giovanni Palchetti. Gli aderenti si riunivano presso la libreria di Giacinto Cafieri di Potenza. Non erano molti, ma tra i tanti vi erano: Olita Annibale da Pignola, Grippo Vincenzo da Potenza, Lavagna Luigi da Potenza, Ricotti Bonaventura da Potenza, D'Errico Giuseppe da Potenza, Luciani Francesco da Forenza, Pizzuti Michele da Palazzo S. Gervasio, D'Errico Michele da Palazzo S. Gervasio, Sole Nicola da Senise, Ciccotti Pasquale da Palazzo S. Gervasio, Magaldi Paolo da S. Chirico Raparo. Mazzini, deluso dai piemontesi, rivolse la sua attenzione al Regno delle Due Sicilie che, all'epoca, era il più grande stato d'Italia. Diceva che vi erano 50.000 suoi seguaci pronti a far scoppiare la rivoluzione, i cui effetti, poi, si sarebbero propagati nel sud d'Italia ed anche all'estero, da dove pervenivano segni di fermento e di rivolta. Tuttavia, come riferisce Denis Mack Smith (DENIS MACK SMITH, Mazzini, Rizzoli 1993, pag. 18) anche dai Borboni furono intercettati i dispacci inviati nel Sud, tanto che i suoi progetti per l'Italia meridionale furono rivelati da qualche delatore e tutti i suoi progetti vennero vanificati. Fervente, ostinata e ribelle era, nel sud, l'opera degli affiliati alla Carboneria. Prendiamo ad esempio Montalbano Jonico, dove vi erano diverse sette liberali che tutte si fusero in un'unica setta, cioè quella dei Carbonari (P. RONDELLI, Montalbano Jonico e dintorni, Taranto 1913, pag. 60) già molto forte a Napoli e nel Regno delle due Sicilie. I Carbonari erano prepotenti ed intolleranti, per niente rispettosi delle altrui opinioni e inclini anche a vendette personali. È ricordato un episodio quasi tragico accaduto il 30 novembre 1817 a Vincenzo Alagni di Montalbano Jonico. Fu ferito ad una gamba da una fucilata "fattagli tirare dalla Carboneria, al fine di ucciderlo, dal mandatario della setta, tale Andrea Padula". Questo episodio ed altri sono indicati dal Rondinelli. Il programma della Giovine Italia era contenuto nella "Istruzione generale per gli affratellati nella Giovine Italia". Mazzini compilò il programma in due momenti diversi, con lo scopo sia di liberare l'Italia dallo straniero sia per l'unità della nazione. La questione sociale, molto sentita dal Mazzini, sarebbe stata risolta dopo l'unità e a liberazione avvenuta. La forma di governo sarebbe stata quella repubblicana. Nel 1831 scrisse, senza avere risposta, una lettera aperta a Carlo Alberto, da poco succeduto al Regno di Sardegna a suo zio Carlo Felice, invitandolo a "fare l'Italia", a mettersi a capo del movimento nazionale italiano, rinunciando alle scelte tiranniche. Molti seguirono le idee mazziniane; naturalmente gli amici genovesi Agostino, Jacopo e Giovanni Ruffino ed il resto degli amici d'Italia sino a Napoli. Il primo vero amore nascosto di Mazzini fu, forse, un'amica di sua madre e madre dei tre fratelli Ruffino. Fu un grande amore: amore di natura spirituale, caratterizzato da intimità e guida ideale e, per lui, confidente. Mazzini fu un grande maestro per i figli; il suo rimorso fu grande quando Jacopo si suicidò in carcere, nel palazzo ducale di Genova, perché convinto di essere stato tradito. Nell'attuare i propositi di "pensiero ed azione" Mazzini pensò di affidare una spedizione a Girolamo Ramorino, ex ufficiale napoleonico, al fine di "sollevare" gli aderenti alla Giovine Italia di Genova, arrivando in questa città e invadendo prima la Savoia per poi procedere sino a Genova. Il piano non ebbe successo e, scoperto, determinò arresti e pene capitali. La Giovine Italia, dopo questo dannoso insuccesso, entrò in una grave crisi, di vaste proporzioni, anche territoriali. Molti seguaci si ritirarono dalla lotta; altri si ribellarono all'ideale mazziniano, determinando lo scioglimento della "conventio" creata mediante la Giovine Italia. Rimasero, però, le basi di una coscienza nazionale ed il seme che successivamente si divulgò. Il Congresso di Vienna aveva inserito l'Italia in un gioco europeo e i sudditi, insoddisfatti della loro condizione, si ribellavano. Mazzini, facendo leva sugli ideali nazionali, ne provocò una diffusione in tutta Europa, in modo che tutti i popoli si potessero battere per la loro indipendenza: "la Santa Alleanza dei Re andava combattuta con le Sante Alleanze dei popoli". Con questi ed altri propositi, a Berna nei primi mesi del 1834, Mazzini creava la Giovine Europa. Avendo constatato l'immaturità politica del popolo italiano si era rifugiato in quella città, dopo l'insuccesso della spedizione della Savoia. Dalla Giovine Europa traevano origine quattro organizzazioni locali: La Giovine Italia, La Giovine Svizzera, La Giovine Germania e la Giovine Polonia. Non ebbe, quindi, effetti o sviluppi questa organizzazione, che rimase solo a livello tecnico-politico-filosofico. Le delusioni dell'insuccesso politico, l'abbandono della compagna ed amica Giuditta Sidoli e tante altre circostanze indussero Mazzini a lasciare la Svizzera, per andare a Londra dove, la libertà del cittadino ha, da sempre, una tutela con leggi ben precise. A Londra Mazzini ritornò sui suoi passi, riprendendo l'idea della Giovine Italia. Si dedicò agli italiani, operai emigranti, artigiani, poveri; per questi fondò l'Unione degli operai italiani. Pochi lo sanno ma Giuseppe Mazzini, oltre che protagonista del nostro Risorgimento, era anche un ottimo maestro di chitarra, sia perché la suonava sia perché l'insegnava. Il suo strumento era un "Gennaro Fabbricatore" costruito nel 1821 a Napoli e proprio questa chitarra è stata suonata, nel mese di gennaio 1998 a Milano, in una delle manifestazioni dedicate alle celebrazioni del centocinquantenario delle cinque giornate di Milano (per iniziativa della Fondazione Stelline e del Teatro Franco Parenti). Durante l'esilio Mazzini fondò una scuola di chitarra per i figli di italiani emigrati nella capitale inglese. Nel corso delle celebrazioni alla Fondazione Stelline, a Milano, il chitarrista Marco Battaglia ha accompagnato sulla "Gennaro Fabbricatore" la lettura di brani dell'epistolario mazziniano. Ritornando al nostro discorso occorrerà precisare che fu questo, all'incirca, il periodo (1834) in cui si verificò l'emissione del mandato di cattura dalla Pretura di Rotondella contro colui che nel futuro sarà considerato il capo "geniale" del Risorgimento Italiano.


tratto da "BASILICATA REGIONE Notizie, 1998

Autore: Giuseppe MOLFESE

 

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