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Sarconi, paesetto d’idillio - da: La Basilicata nel Mondo (1924 - 1927)

A brevissimo cammino da Moliterno verso oriente, quasi al principio del magnifico delta Sciàura-Maglia, in sito di un’amenità meravigliosa, giace Sarconi, il cui nome è dal basso latino Sòrculum, vale a dire “terra dissodata in mezzo a luogo selvoso e ridotta a cultura: pensoso paesello rustico, memore di prische grandezze, spettatore solitario e insaziato di paesaggi che dal sublime dell’orrore sorgono ancora ad attinger gli ultimi fastigi del bello incantevole.
Serba anch’esso su di un’erta rovinosa qui popolata di viti, là rivestita di una folta flora selvatica, un triste avanzo di medioevo, che nulla più dice al fiume tormentoso scrosciante ai suoi piedi tra i ciottoli e il dirupo. Castello e paese appartennero — come si ha dai Fascicoli Angioini — alla signoria del marchese Balduino del fu Ragualdo del Vasto, che possedeva benanche l'antichissima chiesa della SS. Trinità da molti anni inabissata nel letto del Maglia da una frana. Secondo testimonianze dei monografi locali e degli annali diplomatici del De Meo, detta chiesa sarebbe sorta in
epoca anteriore al 1100 e intus castrum Sarconi olim, sed modo de foris.
Ed oltre a un ponte del XVI secolo (Ponte Vecchio), di antico non vi è più che il Campanile a torre quadrata del secolo XVII, che fu eretto con un pio legato del 1655 ed oggi appare tronco della sua cima non so se per terremoto o per altro caso di fortuna. Giace nei suoi pressi, rovesciato, un blocco di macigno di lungo diametro, a facce rettangolari e scalpellate. E probabile che il lato combaciante col suolo rechi un epigrafe, dalla cui interpretazione soltanto potrebbe accertarsi se il plinto massiccio sia testimonio dei tempi romani o se dell’evo di mezzo. Dovette appartenere all'antica Chiesa Madre, ivi dentro piantato a sostegno forse del battistero. Né era la sola reliquia dell’antichità, giacché l’anzidetta Chiesa Madre, costruzione del secolo XV o XVI, parsa “informe,, al Racioppi, che nel 1853 ne scrisse, era notevole unicamente per la facciata incrostata appunto di numerose iscrizioni, intere o frammentarie, appartenute senza dubbio a Grumento e costruzioni suburbane di quella città, le cui rovine sono da Sarconi discoste appena qualche miglio. Si sa inoltre che l’interno del Tempio era nudo fuor che in alcuna parete ove restavano avanzi di affreschi del 1530, nonché talune pietre sepolcrali del 1400, era scolpito un cavaliere dormente in cotta d’armi, il quale era stato, senza dubbio, dei signori di quella terra. Quando poi, scrollato l’edifizio dal terremoto del ‘57 e costretto il clero, allor numeroso, a celebrar i sacri riti sotto quelle volte si malsicure, si racconta a titolo di facezia che l’assai rozzo sentimento religioso del popolo di quel tempo avesse ispirato alla turba dei fedeli quella strofa ch’essi cantavano in coro fra gl’inni sacri e per bocca di taluno si ripete oggi ancora.
La vorpa teni la tana, lu sòrice lu pirtusu:
e tu, Maria gluriosa, si’ senza tana e senza pirtusu. ,,

Era una plebea manifestazione del bisogno spirituale dell’altare bello e sicuro intorno a cui potersi raccogliere nella preghiera; era la potente aspirazione di quel gregge devoto a togliersi lo scrupolo di lasciar così sdrucita e rovinante la casa del Signore. Ed il canto non cessò fino a che sulle rovine del vecchio non sorse il Tempio nuovo con la sua gran porta ed i gran finestroni e le volte pulite e belle.
Che l’origine del paese fosse poi legata alle vicende di Grumento, città madre di quasi tutte le borgate dell’alta Valdagri, lo confermano le reliquie lapidee già menzionate ed altre uscite in più luoghi del suo territorio e ch’io stesso ho veduto qui e la — poiché adibite dall’ignoranza paesana ad uso di scalino o di soglia — insudiciate dalle scarpe di questo e di quel contadino.
A circa un miglio dall’abitato verso mezzodì, tra il piccolo cimitero sconsolato e la ripa vertiginosa del Maglia, si estende come un immenso dromo la pianura dei Campodemma, austera solitudine solatia, incastonata tra valle e monte. E' limitata a ponente da forre declivi e valloncelli acquosi, in cima ai quali si affacciano in lontananza le torri di Moliterno. A mezzodì si svolge fra le ortaglie, le querci e gli arboscelli una mulattiera che più oltre declinerà al Varco Laino fino a perdersi poi nel verde e nelle pieghe del terreno accidentato.
A levante il limite si fa bruscamente abisso; e il visitatore, che va pensieroso e disattento verso quella direzione, sobbalza ad un tratto per un moto di terrore e si fa istintivamente indietro, perché si accorge di trovarsi all’ improvviso sullo scrimolo di un immensa muraglia di argilla che piomba a picco da un’altezza vertiginosa sul greto d’un fiume. Il fenomeno sarebbe sorprendente, terribilmente strano se con varietà di linee e di forme non si ripetesse quasi ad ogni piè sospinto e se il fiume non si chiamasse Maglia: maglia d’insidie, maglia intricata di mille fantasmagorie perigliose.
Da quelle cupe configurazioni della valle, donde sormontano i selvaggi cocuzzoli del Montauro, lo sguardo rifugge per riposare serenamente nella piaga settentrionale, ove paesaggi armoniosi coi loro cento colori si compongono nella luce d’un cielo vastissimo. Innanzi, Sarconi fa capolino tra i pioppi ed i castani; più oltre Saponara si adagia in una posa di sorriso sopra i suoi colli di nuda bellezza; in fondo e in su, molto in su, è Viggiano, la bruna superba figlia di Valdagri che sotto la protezione del suo Monte osannato spiana da tanta altezza lo sguardo che sa le vie del mondo. Tutto questo osserva in disparte l’austera piana del Campodemma; e ad essa è sacro il silenzio, non rotto altrimenti che dal grido dell’aratore o dal sordo brucare delle pecore tra i greppi, ovvero dal muggito della vacca che rumina fra le ginestre del ciglione estremo senza pensare agli orrori dell’abisso che vaneggia ai suoi piedi.... Veramente “ aptior pro Musis non potest esse locus ,,.
Ma oltre il Campodemma ha un certo sacro squallore, ha quella vacuità piena d’ombre e di mistero, quella tristezza arcana dei luoghi ove sappiamo ch’esistette una città scomparsa da secoli, o più propriamente dei campi ove sappiamo che fu combattuta in antico una storica battaglia. Nel Campodemma si sente quasi il segreto memento di Maratona, di Legnano. Misteriosa espressione diffusa nel volto di altri luoghi, ma che in questo s’incontra con la realtà d’una tradizione storica, e una maggior potenza suggestiva acquista dal senso di tale realtà, o finta realtà storica.
Ed ecco in che questa consiste.
Nelle penultime fasi del periodo della punica che va dal disastro di Canne alla battaglia del Metauro — quando cioè quasi tutto il mezzogiorno d’Italia si dava ad Annibale vincitore, ma non sì che il Senato di qualche città non mostrasse di f vorire la causa di Roma contrariamente all’umore delle plebi ch’erano pel Cartaginese — l’importante città di Grumento non doveva essere certo tenera degli invasori se in Tito Livio troviamo che dopo la resa di Capua, Annone, luogotenente e fratello del feroce avventuriero d’Africa, nell’attraversare che fece la Lucania occidentale per entrare nel Bruzio, piegò il cammino verso la detta città con animo d’isforzarla, mentre un esercito romano al comando di Tito Sempr. Longo gli teneva dietro.
Del fatto d’arme ivi avvenuto così parla lo stesso Livio:
“ Quibus diebus Cumae liberatae sunt obsidione, isdem diebus et in Lucanis ad Grumentum T. Sempronius cui Longo cognomen erat, cum Hannone Poeno prospere pugnat. Supra duo milia hominum occidit et ducentos octoginta milites amisit: signa militaria ad quadraginta unum capit. Pulsus fin ibus lucanis, Hanno retro in Brutios sese recepit. ,, (Ab Urbe condita, XXIII, 37).
Ora, qualche erudito dei tempi andati, seguito nella sua ipotesi da altri, pose, se non erro, il luogo di questa battaglia per l’appunto nella piana del Campodemma, e pare che le ragioni di questa sua congettura fossero piuttosto di valuta e di sostanza se è vero che ad alcuni contadini, nel principio del 1700, venne fatto di rinvenire dissodando il suolo un’infinità di ossa mezzo bruciate ed una copiosa quantità di denti umani belli ed interi. ,, (Domenico Cassino, Difesa dei Com. di Molit., Mars., Sarconi... Nap. 1818).
Comunque, è da ritenere che tale ubicazione sia parziale e che il suo difetto consista nell’ impiccolire il campo di una battaglia tra due eserciti numerosi, i quali non avrebbero potuto convenientemente manovrare se non in un terreno due volte più esteso del Campodemma.
Piccolo irrequieto paesello di rustici, Sarconi. Un mucchietto di case (...“ come tutto è pittoresco! esclamava il Racioppi vedendole specchiarsi nel fiume “ quasi tutte nascoste entro padiglioni di dematidi e roveti ,,)... un mucchietto di case solcato di vicoli come dall’aratro, con in mezzo anche la casa deserta de’ miei avi. — Ed in fondo è la Chiesa tutelare. Ritta li, sulla ripa scoscesa del Maglia, alta e solenne, essa le tien tutte innanzi e sotto di sé quelle bianche casette fumanti: e pare che le vada chiamando a parlamento e che le poverine si sporgano e s’accalchino l’una su l’altra per sentire che cosa voglia la voce della Madre.
Ed ella forse dice: “Figlie dilette, sia la pace con voi! Il mondo è tanto grande, tanto numeroso; e per questo è pieno di querele, è pieno di piati, è pieno di strepiti. E gli uomini del mondo, come i bambini scalzi che nutrite voi giocano a nocino coi castellini di noci, così quelli giocano a nocino coi castelli delle loro sostanze, dei loro onori, delle loro virtù; che l’uno tende a buttar giù quello de l’altro. E così il mondo è pieno di strepiti, è pieno di piati, è pieno di querele. Ma il mondo è tanto grande, e voi siete tanto piccine e poi tanto poche. Chi vi fa torto? Nessuno vi fa torto; nessuno vi toglie quello che il campicello e il bosco e la vigna vi danno. Orbene? siate contenti, sia la pace con voi.
Ch’ io non oda più quel vento molesto della montagna brontolarmi come una volta: — Ehi, ehi, cosa stanno a schiamazzare i villani di costaggiù? E da un pezzo che si fanno sentire!,,
La Madre dice: “ come una volta. ,, Perché una volta le casette stavano, si, ad ascoltare; ma poi una picchiava ad un’altra e diceva: “ O che l’hai sentito? Quando vuoi smetterla?,, E quella rispondeva: “Quando tu sarai andata in rovina ,,. E un’altra diceva allora: “ Ma in rovina ci andrai tu se non mi rendi quel che mi devi ,,. E tutte poi dicevano: Alla Corte ci vediamo, ci penserà la Corte ,,...
Ma così per avventura non fu sempre. Che anzi, da buon pezzo, questa non grida, quella non piange, quella non strepita e impreca più tanto; né più la Madre si dispera; né dunque il vento della montagna continua a brontolare “ come una volta ,,: e tutto poi fa pensare che se lo schiamazzo delle piccole villane or già s’ode in sordina, domani addirittura cesserà.
Pur tra questo e quell’orto, tra questo e quel muricciuolo, piacque al cielo di far rampicare qualche gracile e solitaria ramicella di quelle edere oraziane che sono “ doctorum praemia frontium ,,.
Nel secolo XVIII visse a Saponara, contemporaneo ed amico di Carlo Danio, il dottore in legge Niccolò RAMAGLI, che nel declinare degli anni suoi trapiantò la famiglia a Sarconi. La sua attività di erudito e di legale acclarato si esplicò segnatamente durante le fortunose vicende dei secolari litigi giurisdizionali tra la Collegiata di Saponara e la Cattedrale di Marsico, di cui si fece già menzione ne La leggenda di Myento apparsa nel fasc. III, anno II della Rivista. — Con l’intento di chiarire tali vicende ab ovo, il Ramagli frugò minutamente negli scaffali polverosi della Chiesa e trasse alla luce cartapecore, documenti e notizie senza fine, che gli riuscì di raccogliere e ordifiare in un lavoro di fitta mole dal titolo “ Memorie Grumentine-Saponariensi.
Il libro, scritto nel povero latino del secolo, crebbe sotto i buoni auspici di Carlo Danio e divenne ben presto per eruditi ed erudiendi un “ arsenale d’ogni guisa di notizie.
Assai lo compulsarono, così inedito com’era, gli storiografi regionali dell’epoca successiva; e tra essi primeggiarono il Roselli, il Racioppi e il Caputi, che attinsero al Ramagli o sul Ramagli si fermarono nelle loro indagini storiche più o meno rigorose, lasciandone frequenti e larghe menzioni nelle loro opere. Di esso, ch’è in gran parte oggetto dello studio racioppiano Agiografia di S. Lavero, non s’ebbe mai alcun esemplare a stampa, e al presente se ne conservano due sole copie a pennina di amanuensi: una nella biblioteca comunale di Saponara e l’altra in quella di Moliterno, essendo andato perduto l’originale che apparteneva alla famiglia dell’autore.
Di veneratissima memoria sono ancora a Sarconi gli Avvocati GIUSEPPE ARNONE e VINCENZO RAMAGLI: quello nato nel 1815 e morto agli albori del secolo nostro; l’altro vissuto 84 anni dal 1834 della sua nascita. Entrambi versatissimi nelle discipline giuridiche, godettero ottima fama e riputazione in tutta l’alta Valdagri, essendo teatro dei loro dibattiti i fori di Moliterno, Saponara e Viggiano, ch’essi tennero incontrastati e assiduamente per oltre mezzo secolo.
I due valorosi giureconsulti, da veraci propugnatori della giustizia, nel cui sentimento incorrutibile avevano temprato il loro carattere serenamente austero, furono, sì, sempre avversari, ma cavallerescamente; e non avveniva la vittoria dell’uno senza le sincere felicitazioni dell’altro, e non accadeva mai che al fine d’un caloroso dibattito i due non s'incontrassero per risancire la loro eterna amicizia con una cordiale e tradizionale presa di tabacco. L’Arnone e il Ramagli parteciparono poi insieme alla cosa pubblica; e con il loro concittadino BENIAMINO ROMANO costituirono essi quel decantatissimo triumvirato, al quale va ascritto dal paese il periodo del maggior suo splendore.
Serenissimi tempi quelli, in cui il popolo attendeva pacificamente alle sue feconde occupazioni rurali, e nel giorno del Signore gremiva la piccola casa del Comune per intingere il cuore in un pò di amor patrio, di orgoglio e di piacere, e pendeva della bocca degli eletti alla tutela dei suoi diritti.
Il Municipio s’era allora virtualmente trasformato, per quel popolo innocente, in tutto ciò che vi ha di più alto e di più onorevole al mondo dei probi: era il fratello carnale della Chiesa benedicente; era ad un tempo il foro, il teatro, la scuola. Ivi il popolo sollevava la sua ignoranza alla comprensione del giusto e del dovere; ivi attingeva la fede e l’entusiasmo per il travaglio di tutti i dì; ivi esso poteva liberamente aprire all’adunanza il buon proposito divisato nella verde solitudine del campo. Gran bella cosa quel triumvirato, che innanzi al Crocifisso e al ritratto dei Reali discuteva le quistioni d’ordine pubblico con tanto di fervore e di competenza come pochi consensi anche oggi ed altrove sanno fare; e poneva ne suoi deliberati amministrativi tanto fiore di dottrina giuridica quanto forse non si trova in una comparsa conclusionale.
Spesso era l’artifiziosa cabala d’un ricco finitimo che bisognava demolire, spesso si trattava d’ infrangere l’alleanza d’un potente signore altramurano con qualche autorità superiore entrambi congiunti ai danni del Comune; o di dimostrare destituito di fondamento legalitario un provvedimento piovuto dal di su; oppure da oppugnare ex professo un decreto prefettizio per incompetenza o abuso d’attribuzioni, e d’ invocare quindi con la penna ed ex ore un decreto reale favorevole al Comune e avverso le provvidenze del potere provinciale.
Tutto questo si operava alacremente, con rettitudine impareggiabile e volontà di bene dal Ramagli, dall’Arnone e dal Romano; attorno i quali il popolo si stringeva in armonia di sentimenti per raccogliere e partire la messe opima di tanta proficua operosità.
Né importava assai che le travi tarlate della piccola casa del Comune cedessero (come un giorno avvenne) al peso di tanti corpi e che tutta l’assemblea piombasse ad un tratto giù, in un buio e muffito piansottanu: il popolo di Sarconi, come già quello dei liberi Comuni antichi, continuava ad assembrarsi a parlamento nella piccola Piazza; e sotto il tetto dei cieli sereni, agli echi delle volte domestiche, questo piccolo Comune rustico dell’Italia di Oberdan acclamava le vittorie della propria laboriosa libertà: ed in tal modo la sua felicità cresceva per virtù de’ suoi uomini migliori.
Ai poteri comunali, nel quarantennio successivo, si avvicendarono con i cattivi anche dei buoni regimi amministrativi, come quelli del Tedesco, del Lauria, del Robilotta e del Petrocelli; ma purtroppo la piccola età dell’oro per Sarconi era già tramontata più di un decennio avanti il tramonto del secolo.
Della vecchia onorata generazione abbiamo tuttavia qualche superstite e qualche rampollo. Non taceremo dei più noti, quali senza dubbio ci sembra che siano il Cav. Uff. Avv. GIUSEPPE MELE, l’Avv. Comm. GIUSEPPE FRUGUGLIETTI ed il Segret. Comun. GIUSEPPE RAMAGLI. Il Mele, figlio del Dott. Domenico e fratello del Farm. Vito nonché del valente Ing. Nicola, non peranche cinquantenne è già da qualche tempo Sostituto Procuratore Generale di Arezzo. Fulgidissimo esempio di magistrato integerrimo, egli costituisce il sommo e più legittimo orgoglio del suo piccolo paese. Il Fruguglietti, valoroso brillante civilista e penalista dei fori di Moliterno, Lagonegro, Potenza e Napoli, fu già consigliere e Deputato Provinciale per il Mandamento di Moliterno e Sarconi. Il Ramagli, infine, e uomo di rettitudine assai singolare, versatissimo negli affari di legislazione amministrativa, e che in quasi 50 anni d’esercizio professionale ha profuso la sua saggia operosità di soprintendente amministrativo in molti Comuni lucani, sì da meritare più volte dai provetti la distinzione di primo Segretario Comunale della Provincia. Assai sobrio, schietto e modesto, amantissimo della sua terra nativa, il Ramagli è stato sempre schivo di onori e di più alte cariche, pago dell’ammirazione e del sincero entusiasmo che ha saputo suscitare in tutte le popolazioni da lui amministrate.
Conscio delle manchevolezze e delle esigenze di un ufficio municipale, essendo Segretario del Comune di Casalbuono, pubblicò nel ‘94 un pregevole opuscolo sull’Archivio Comunale, a cui fece seguire nel 1918 la Storia del consorzio d’irrigazione del Comune di Sarconi: lavoretto interessante per i fatti che vi sono esposti, con esattezza concisione ed equanimità, intorno al menzionato periodo aureo della vita sarconese.
Della prefazione e di qualche altra sua pagina riferiamo qui appresso quel tanto che ci parta essere di compimento e d’ausilio all’assunto di questa tenue monografia.
Sarconi è posta a m. 635 sul livello marino. Il suo territorio, in parte pianura e in parte montuoso, confina coi Comuni di Moliterno, Castelsaraceno, Spinoso e Saponara di Grumento.
Il suo stemma è composto su tre monti e sotto i monti fiume, acqua verdastra, fondo cielo. Lo stemma è sormontato da corona murale. I tre monti sono le due Difese e la Serra, il fiume ai piedi è il Maglia; ma. l’acqua verdastra non avrebbe più ragione di esservi perché bonificati i terreni Pantani, che in tempo remotissimo furono paludosi. La popolazione del Comune è ora ridotta a poco più di mille abitanti, non già dalla malaria, come anticamente accadeva, ma dall’ emigrazione sempre crescente 1910-18 per le Americhe, la quale è stata causa dell’abbandono dei terreni montuosi, in cui 50 anni or sono fiorivano l’agricoltura e la pastorizia come quasi in tutti i Comuni della or derelitta Basilicata. Infatti, nell’ ra presente, i nostri operai agricoli rimasti non coltivano intensivamente che la sola pianura irrigua, come i possessori dei vigneti — che ne sono la continuazione — coltivano con molta cura le loro vigne tanto produttive che il generoso vino testè si esportava anche nelle Americhe.
Si ha quindi produzione, quasi ogni anno abbondante, di fagioli di specie diverse e di patate rosse e bianche, che si esportano nei comuni vicini.
Anzi i fagioli, che sono una veri specialità di Sarconi, vengono anche incettati a centinaia dai negozianti forestieri , i quali ne riforniscono Napoli e dintorni. La maggior parte dei fagioli, che si producono nel territorio irriguo, rappresenta per Sarconi un secondo raccolto dello stesso anno, poiché essi si seminano sulle stoppie non appena falciato il grano, nelle prime due decadi di luglio, mentre un altra qualità di essi si coltiva insieme coi granoni dal mese di maggio in poi.
Con questa invidiabile risorsa la cittadinanza sarconese, a cui supera anche il raccolto delle mele e d’altre frutta per l’inverno, senza omettere quello non trascurabile dei pomidori e dei peperoni, non lamenta quasi mai la miseria, neanche negli anni di persistente siccità estiva, che invece suole far perire le coltivazioni negli altri Comuni dove non esiste irrigazione.
Chiunque passa pel nostro territorio, traversato dalla bella e comoda strada provinciale Agri-Sinni, che un dì certamente non molto lontano vedremo fiancheggiata dalla ferrovia, non può non ammirare le sue bellezze e la sua feracità; giacché ai suoi occhi presenta il quadro di un’amena, deliziosa e vasta pianura costantemente verdeggiante, ricoperta com’è di vegetazione cereale da novembre a luglio, e di granoni e fagioli da questo mese (ed anche dal maggio) a ottobre, con uno splendido ed ampio orizzonte, circoscritto da monti e da colli più o meno alti e ridenti
Uno dei più vitali interessi della generalità delle famiglie di Sarconi è stato e sarà sempre l’irrigazione della vasta pianura nel suo tenimento con le acque del fiume Sciàura, la cui derivazione ed uso han dato luogo per circa un secolo a frequenti dispute e contestazioni fra quei cittadini ed alcuni cospicui proprietari del contermine Comune di Moliterno, nonché con le autorità governative. Sciàura, o Sora, questo affluente di destra di uno dei maggiori fiumi della Basilicata — qual’è l’Agri— si offre non solo all’irrigazione su vasta scala, ma altresì all’animazione di due molini, siti a pochi metri dall’abitato stesso, e con quasi tutto il suo volume, della portata di 414 litri al secondo: un vero tesoro. ,, (R. Ramagli).
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Paesetto d’idillio. Il Pontano l’avrebbe popolato di Naiadi, tanti vi scorrono con mormorio dolce rigagnoli, sorgive e cascatelle. Io no.
Perocchè, tutti insieme, fanno già un quadro immaginoso di bellezza quei baliosi contadini dagli alti stivaloni di gomma, intenti lì a derivare dalla più grossa correntia le gore esigue onde irrigano a sazietà i loro poteri simmetrici e luccicanti al sole. (Se guardi bene e rifletti, un contadino di questi, in mezzo al suo campo, ci sta meglio che un re nel suo trono). E quelle donne abbronzate e scalze dai pazienti occhi cilestrini; quelle “ ardite villane ,, dai “baldanzosi fianchi,, e dalle vesti succinte nell’atto di compiere anch’esse una delle tante fatiche rurali. E la vecchietta che agucchia di faccia al sole badando ai panni che si asciugano e ai fichi che seccano, mentre due oche bianche sonnecchiano al suo piede e un gatto si liscia il viso con la zampa. Nel vicoletto russano intanto i maiali....
(Oh le comari scalze e sciamannate, fra breve essi faran coi, coi, e voi — ricolme i luridi grembiali di ghianda — leste accorrerete qui.)
E più lungi, in fondo al sentiero esiguo che si apre nella campagna tutta odor di spigo e di santoreggia, l’allegra carovana dei vendemmiatori mascherati di mosto come gli attori di Tespi. Nell’aria serena gli strambotti d’amore si mescolano al cigolio del picchio verde.
E più presso, a mezza via tra il bosco e la gora (il bosco ove urlano i tordi e la gora ove spittina il pettirosso) la stracca brigata dei rustici che troppo ha sudato ed ora siede intorno al cesto fumante di minestra, appié del fico cinto di felci e di erbe ragriate.
Crepita sordamente qualche arida stoppia al sole. Fumano le nebbie intorno, digradano i monti lontano, e l’ottobre sorride da tutti i seni sul verde flavo delle vigne, sul molle ondeggiare dei castani,...
Più che un secolo fa era tutto un ondeggiare di boschi per le piane e per i pendii; e si dice che tante pecore belavano, tanti pastori cantavano, ed il suolo era più ricco, la terra assai più bella e non c'era una crepa e non c'era una frana.
Ma che importava ciò se poi non ti esilarava l’ebbrezza della dolce vite ch’ora ti impampina i fianchi, o Sarconi? e se la Febbre che regnava nel tuo aere allora pestilente e crasso dirompeva la schiena e affiacchiva le braccia del tuo uomo? e se, giacendo egli inerte perché prostrato dal male, allontanava la mano dal lavoro e non poteva emulare il procacciante mercante della vicina borgata; onde il campicello periva, la miseria picchiava al suo casolare e per colmo d’ingiuria veniva il vicino a dirgli con crudele dispregio: — oh sì che ti piace la fatica, poltrone inattivo e inoperoso!—?...
Ma l’ingiuria è passata. L’ uomo febbricoso si sollevò dal suo giaciglio e vinse la rea natura. Tu creasti meschino e povero quell’uomo, ed egli fece la tua forza, la tua ricchezza e la tua virtù, Sarconi.
O Maglia, e che dirò della tua voce?
Se si passa sul Ponte Vecchio per la via aperta nella roccia si vede il fiume che scorre, come quasi sempre, in mezzo a due ripe massicce adorne di vegetazione selvatica e sormontate a destra da un varco angusto serpeggiante appiè degli orridi dirupi della Difesa, nido soltanto di falchi e di gufi. La vecchia via che poi sale alla Serra, presso i ruderi d’una cascina e per un tratto non breve, è tutta di roccia solida larga e spianata, donde il nome di Pietre Piane alla contrada.
Più su, alle rovine dell’antica edicola di S. Cristofaro, essa si biforca a bivio: il ramo principale si arrampica su per l’erta boschiva fino ad attingerne la sommità ove campeggia il piccolo santuario della Vergine di Montauro. L’ altro ramo, dapprima intersecato da blocchi enormi e scabri di macigno, discende poi con pendio ora dolce ora rovinoso, tra una folta vegetazione, e in fondo alla valle raggiunge il famoso Varco Laino.
E in questo luogo una sorgente molteplice e potentissima, che dopo un lungo percorso sotterraneo originato da una probabile zona acquifera del monte Raparo, si scarica nel Maglia irruentente, prima sotto forma di cascata e poi con una polla voluminosa effluente a livello del Maglia da un gran foro pressoché circolare, somigliante alla porta di un ghiacciaio, che fu certamente prodotto nel vivo del macigno dallo stesso potere solvente e dal lavorio d’erosione dell’acqua. Opera senza dubbio proficua si compierà, come pare, fra non molto col dedurre la ricca sorgente del Varco Laino agli usi civici e agricoli della vicina Sarconi.
Al confluente del Varco Laino, sormontato da certi prismi ed aguglie di roccia che sembrano ripeterti ad ogni istante il “ numquam dimoveas,, di Orazio, l’alveo tortuoso del Maglia s’incassa fra certe ripe mostruosamente precipiti ed anguste, il cui orrore è sempre più accresciuto da una cortina di alberi cupi e misteriosi. Ricalcando ora i nostri passi e soffermandoci dubbiosi in cerca del fiume ch’è ad un tratto sparito dai nostri occhi scorgiamo innanzi a noi e a livello dei nostri piedi la distesa del Campodemma nel suo lato nord-est, e solo un fosso coperto di cespugli ci separa da quella.
Or chi direbbe che in fondo a quel fosso largo non più di tre metri e sotto quella piccola volta di. cespugli scorra il Maglia? Eppure non è altrimenti. Ché se noi ci facciamo cautamente innanzi e spingiamo lo sguardo nel fondo, ecco che i cespugli della superficie cedono d’improvviso ad un noto intrico di cupo fogliame, un tragico abisso ci si sprofonda sotto, uno scroscio non nuovo si fa sentire e ad imo, in una vasta conca di rocce, scorgiamo lo specchio cupo dell’acqua. Tra un brivido e una vertigine, tra un pensiero di morte e un fantasma di poesia, tu risali a certe infernali filiazioni della tempesta immaginativa di Dante: e presti più fede a quelle che non a te stesso, che non al fiume il quale, benché di proteiformi aspetti, con la sua voce sonante di mille armonie ti dice purtroppo e sempre che si chiama il Maglia.
Come mai questo fiume insidioso sia pervenuto ad aprirsi un alveo così formidabilmente profondo ed occulto che le sue ripe sembrano qui ad un tratto congiunte per eludere anche il più avveduto, è cosa pressoché inimmaginabile.
Il Maglia fu forse nel mito, in polpa ed ossa, quel mostro rapace che amava attrarre le sue prede terrestri ed umane entro i suoi palagi subacquei, entro i suoi aditi paurosi, e quivi le sue Ninfe ministravano gli arcani riti, quivi celebravano le sacre inferie a Plutone.


da: La Basilicata nel Mondo (1924 - 1927)

Autore: ENNER

 

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