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IL GRANDE EREMITISMO CRISTIANO DI DON GIUSEPPE DE LUCA

Parlare di don Giuseppe De Luca, figura eminente tra i lucani illustri del secolo ventesimo, può significare molte cose: aprire prospettive inedite ma altamente interessanti e feconde sulle vicissitudini della cultura ecclesiastica a Roma tra gli anni Venti e gli anni Sessanta; oppure sui delicati e dinamici equilibri dottrinali e politici all'interno della Curia Romana tra Segreteria di Stato e Sant'Uffizio (il "triangolo", decisivo per la storia della Chiesa e dell'Italia nel dopoguerra, tra i monsignori Tardini, Montini e Ottaviani); oppure sui rapporti, ancora timidi da ambo le parti ma sufficientemente solidi dopo la parentesi della bufera antimodernista, tra cultura cattolica e cultura laica in Italia negli anni Trenta; oppure ancora sollevare il velo su pagine molto delicate e ancora avvolte in parte, da doveroso riserbo, sui rapporti della Santa Sede sia con il gruppo della "sinistra cristiana" sia con il partito democristiano; sui rapporti della Santa Sede con l'Unione Sovietica, per incarico di Montini e di Ottaviani, con la mediazione di Togliatti. Oppure: svelare pagine inedite del pontificato di Giovanni XXIII, sulla svolta impressa da Papa Roncalli ai rapporti della Santa Sede con la politica italiana, sul placet dato al centro sinistra passando sopra le tenaci obiezioni politiche del Cardinale Ottaviani o su quelle pseudo dottrinali del Cardinale Siri.
In realtà, man mano che la figura e l'opera di De Luca si impongono all'attenzione della storiografia contemporanea, questi aspetti vengono ripresi, documentati, approfonditi; in questa sede, non vorremmo incrementare la già discreta letteratura critica in tal senso, ma puntare l'attenzione su uno dei risvolti più nascosti e più autentici della personalità di don Giuseppe: lo studioso.
Nella struttura interiore della sua personalità e nell'organizzazione della sua giornata, lo studio non era un impegno accanto ad altri impegni; esso era inteso e vissuto come l'espressione più alta anche se certamente non l'unica del suo sacerdozio; dopo una lunga frequentazione degli scritti di don Giuseppe, e sulla base di tanti lunghi discorsi che su di lui mi faceva (ormai, sono trascorsi più di trent'anni) lo zio materno, monsignor Vincenzo D'Elia, per sessant'anni arciprete della Trinità in Potenza, il sacerdote più illustre e prestigioso della Basilicata in questo secolo, sono profondamente convinto che il segreto della personalità globale di De Luca, la chiave della sua penetrazione, sia da individuarsi nell'intrinseca reciproca appartenenza della vocazione sacerdotale con quella di studioso. De Luca fu prete soprattutto studiando e si realizzò come studioso in quanto riuscì ad essere prete fino in fondo.
Se è vero che una personalità si realizza nella misura in cui coltiva una specifica dimensione intorno alla quale e in funzione della quale organizza lo sviluppo di tutte le altre, così che queste assumono senso e valore dal rapporto che le lega con quella, bisogna riconoscere che don Giuseppe realizzò se stesso, il suo sacerdozio (che non fu una dimensione, ma coincise con la stessa determinazione ontologica della sua personalità), attraverso lo studio; in quanto studioso, egli divenne il collaboratore e il consulente discreto e prezioso dei vertici del governo della Chiesa, il mediatore sagace e fidato di opposte parti politiche, l'ispiratore nascosto di grandi scelte politiche, la presenza amica e rassicurante per Papa Roncalli in alcune decisioni fondamentali del pontificato. Al di fuori dei suoi libri, della sua biblioteca, delle sue edizioni, don Giuseppe non si sarebbe realizzato nemmeno come sacerdote, non avrebbe trovato giustificazione e forza nemmeno il suo amato impegno pastorale tra i poveri vecchi presso S. Pietro in Vincoli.
Questa lunga premessa, che è naturalmente più d'una premessa, fa intuire e trasparire il nodo cruciale del nostro discorso: in che senso De Luca fu uno studioso? Come egli intese e visse la sua vita di studio? Noi non abbiamo alcuna remora nell'affermare che la caratteristica specifica, emergente della personalità di don Giuseppe sia stato il suo modo d'intendere lo studio, e di conseguenza le forme e le modalità della testimonianza cristiana nel mondo della cultura, da quella ecclesiastica (con relative conseguenze nell'organizzazione degli studi ecclesiastici e teologici) agli orientamenti nei rapporti con quella laica; è lì la radice del suo dissenso, discreto ma netto, con alcuni orientamenti del governo della Chiesa sotto il pontificato dell'undicesimo e del dodicesimo Pio, un dissenso discreto ma esplicito, soprattutto nei rapporti con la cultura moderna. Non potendo, nello spazio di un articolo, affrontare in modo organico e documentato la posizione del De Luca, ci limitiamo ad alcune scarne annotazioni.
Una prima caratteristica della concezione deluchiana dello studio è data dalla laicità, dove il termine non va inteso nel significato di 'non confessionale, ma di "non clericale". Esperto e appassionato conoscitore, come pochi della storia del pensiero cattolico e dei sentieri della cultura cattolica, De Luca non si rassegnava ai gretti limiti imposti all'impegno culturale del cattolicesimo da una inveterata mentalità che, ossessionato dalla psicosi di stato d'assedio ereditata dalla reazione antimodernista e da una persistente ostilità nei confronti del pensiero e della cultura moderna, liquidati come errori e deviazioni, insisteva ad identificare cultura cattolica con apologetica, cultura cattolica con spazi appositamente tracciati e chiusi non solo verso le espressioni della cultura laica ma anche verso tutta una serie di pensatori e opere cattoliche che erano in odore non dico di eresia, ma di ... imprudenza o inesattezza dottrinale. Tale valutazione si fondava di norma sulla denuncia di una mancata o insufficiente adeguazione ai canoni di un neo tomismo di scuola, culturalmente sterile, di cui il pensiero moderno non sapeva né saprebbe che farsene e col quale si rifiutava giustamente di aprire qualsiasi dialogo. Un neo tomismo (o neo scolastica) che faceva torto prima di tutto a Tommaso d'Aquino, quello autentico, non quello ... commentato; oppure, non si adeguava al tomismo rivisitato da un Maritain, nuovo profeta dello cultura dell'Azione Cattolica in Italia, una cultura su misura per chi intendeva rivestire di apparenze nuove contenuti obsoleti, di chi intendeva dialogare con la cultura laica avendo idee non proprio chiare sulla propria identità cattolica; ma la scelta per Maritain risultò vincente, perché era quella di Giovanni Battista Montini, e dunque della FUCI, dei laureati Cattolici, del Concilio di Papa Paolo VI: non però di De Luca.
Egli insisteva, al contrario, per un deciso ritorno alle fonti: ci sarebbe infatti da indagare quanto la riscoperta di Newman, almeno in Italia; debba appunto a De Luca; o anche quella dei Padri. Insomma, le più alte fonti della cultura e della pietà, sconosciute al collaudato patrimonio della pastorale devozionistica, rigorosamente lontana dalla Liturgia (l'accusa il cui senso ci riesce del tutto incomprensibile di "liturgismo" fu rivolta, a metà degli anni Trenta, dal Cardinale Vicario a monsignor Montini, e di fatto ne provocò la rimozione dalla carica di assistente nazionale dalla FUCI) e della Bibbia, ma intasata di preghierine, devozioni, tridui e novene, furono chiamate e riscoperte dall'impegno intellettuale ed editoriale (si veda la storia dei primi anni della editrice Morcelliana!) di De Luca, entusiasta alunno alla scuola di sant'Alfonso de' Liguori.
Ma il cuore dell'impegno di studio di De Luca fu l'appassionata dedizione allo studio dei grandi classici, con un approccio rigorosamente filologico. La sua grande testimonianza fu la dedizione allo studio per sé, senza finalizzarlo o strumentalizzarlo in direzione di un'immediata finalità pastorale, di una motivazione apologetica: lo studio apparentemente severo e arido, colto come una delle esperienze originarie e decisive della vita cristiana, come grande palestra di ascesi e di testimonianza, come missione intesa a rivendicare il primato e la centralità cosmica di Cristo: tutto è suo, amava ripetere, anche la cultura. De Luca non aveva bisogno di costruirsi sacrestie da cui mettersi a "insegnare" agli "altri", ai "lontani"; egli studiava, con un impegno, una passione, un acume che senza rumore gli attirarono l'attenzione, la stima, l'ammirazione dell'intesa cultura laica italiana, con a capo Benedetto Croce: la realizzazione dell'Archivio per la storia della pietà, (col conseguente, successivo intenso interessamento per gli Archivi ecclesiastici), che fu il sogno di tutta la sua vita e per il quale Pio XII non trovò il modo di elargire nemmeno una lira (fu Montini, in quell'occasione, a mandare a De Luca un'offerta personale di centomila lire!), costituì l'unica (o quasi) espressione della cultura cattolica capace di sintonizzarsi effettivamente con quella laica e di mostrare che le possibilità di un dialogo tra cristianesimo e pensiero moderno non passavano necessariamente (o forse non passavano, tout court) attraverso le scelte istituzionali del cattolicesimo.
Grazie a quella realizzazione e alla sintonia che su di essa fu possibile innestare, De Luca s'incontrò con le inquietudini, le esigenze, le obiezioni, gli aneliti di una delle maggiori personalità della cultura e della filosofia italiana del secondo Novecento: il mio maestro Pietro Piovani, che in lui vedeva le realizzazione concreta di un rapporto cristianesimo pensiero moderno, culturalmente maturo e consapevole dei termini del gigantesco problema (se De Luca fosse vissuto e avesse partecipato al Concilio, probabilmente certe ingenuità della "Gaudium et Spes", per cui la Chiesa postconciliare ha pagato un prezzo enorme, sarebbero state evitate), e soprattutto capace di valutare e recuperare il valore del pensiero moderno, senza grettamente risolverlo nelle (comode) proposizioni del Sillabo. In una lettera del 22.8.75, Piovani attirava la mia attenzione su una citazione veramente cruciale di De Luca: "Dedicarsi nella solitudine allo studio puro sembra chi sa che stoltezza; è invece timore di Dio, è inizio di sapienza. E' il grande eremitismo cristiano, è una preparazione, (sulla croce) a contemplare Dio. Ci siamo dimenticati che l'anima non la salviamo senza impegnare a fondo l'intelligenza".
Siamo convinti che un dialogo credibile e autentico tra cristianesimo e pensiero moderno che è ancora da venire nonostante tante dichiarazioni solenni quanto inutili possa trovare nell'esperienza e nell'insegnamento di De Luca una altissima e valida ispirazione: la Chiesa del Duemila, del terzo Millennio, non pare avere un futuro credibile né nelle organizzazioni né nelle manifestazioni oceaniche di massa, né nel "mostrare i muscoli" cercando intese e interferenze col potere cívile; ma nel ritorno allo stile di vita e di testimonianza di cui don Giuseppe De Luca costituisce il più alto esempio nella chiesa italiana.

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Poiché di don Giuseppe De Luca si parla é si scrive ormai con crescente frequenza, ma con conoscenza non sempre sufficiente, crediamo opportuno redigere una scheda biografica essenziale.

- Don Giuseppe De Luca nasce a Sasso di Castalda, in provincia di Potenza, il 15 settembre 1898; nel 1909, per interessamento sopratutto dello zio mons. Vincenzo D'Elia, arciprete della SS. Trinità, in Potenza, entra nel seminario di Ferentino, presso Anagni, tenuto dai gesuiti; nel 1911 va a Roma nel Seminario Romano presso l'Apollinare, quindi nel 1914 nel Seminario Romano Maggiore, al Laterano, dove ha come professore di storia della Chiesa Mons. Pio Paschini. Nel 1917 consegue la licenza liceale al "Tasso" e dal '20 si iscrive al corso di Paleografia presso l'Archivio Vaticano e alla Facoltà di Lettere dell'Università di Roma, dove stabilisce rapporti intensi, che sarebbero durati tutta la vita, con alcuni dei più insigni docenti: da Vittorio Rossi a Nicola Festa, Gaetano De Sanctis, Ettore Pais, Giovanni Gentile, Ernesto Buonaiuti.
Conseguita il 7 luglio la laurea in teologia, il 30 ottobre del 1921, viene ordinato sacerdote dal Cardinale Vicario Basilio Pompili, dopo qualche dilazione determinata da perplessità di alcuni superiori per il suo carattere giudicato eccessivamente indipendente.
Negli anni 22 23 prepara col Festa l'edizione della Poetica di Aristotele e col Rossi quella delle Familiari del Petrarca; frequenta la Biblioteca Vaticana, si lega di amicizia col Papini e collabora alla terza pagina del “Popolo” su invito di don Luigi Sturzo.
- Nel ’23 inizia il suo apostolato sacerdotale come cappellano dei vecchi, presso le Piccole Suore dei Poveri, a San Pietro in Vincoli, che sarebbe durato fino al 1948.
- Negli stessi anni, fino ai primi anni Trenta, collabora nella Azione Cattolica con i monsignori Tardini e Montini (se ne distaccherà nel ’31 con una celebre lettera a monsignor Montini); nel 27 è nominato archivista della Congregazione per la Chiesa Orientale, e inizia un rapporto molto stretto col cardinal Gasparri (di cui riceve le confidenze anche in vista di una biografia che non vedrà mai la luce) e col cardinal Cerretti, che lo protegge e lo favorisce nella sua vocazione per gli studi.
- Nel ’28 Antonino Anile lo presenta a Benedetto Croce, con cui inizia una amicizia sempre più intensa e cordiale, durata fino alla morte del filosofo. Negli stessi anni, analogo rapporto con Henri Bremond, Andrè Wilmart, Joseph de Gulbert.
- Nel ’36, su invito del Sostituto monsignor Ottavini inizia la sua collaborazione all’Osservatore Romano, nella rubrica “la parola eterna”, da cui sarebbero scaturiti i noti “Commenti al Vangelo festivo”.
- A cavallo tra gli anni 42-54 stringe rapporti e svolge una discreta ma enorme attività di consulenza e di mediazione culturale e politica, anche per conto dei vertici della Curia Romana, con Giuseppe Bottai e, nel dopoguerra, con Alcide De Gasperi, Franco Rodano, Palmiro Togliatti.
- Nel ’42 prende avvio la sua casa editrice “Edizioni di Storia e Letteratura”.
- Nel ’43 riceve la nomina di Prelato domestico di Pio XII, accettata con rispettosa ma profonda ironia di fronte alla comunicazione fattagli dall’amico monsignor Montini.
- Nel ’51 esce il primo volume dell’Archivio Italiano per la storia della Pietà.
- Nel ’56, nel corso di una celebre conferenza a Venezia per il centenario di San Lorenzo Giustiniani, nasce l’amicizia col Card. Roncalli (presente anche mons. Montini), che si trasformerà unico autentico ed estremo per la solitudine di De Luca.
- Nel ’61 suggerisce a Togliatti l’opportunità di una presenza di Kruscev alla celebrazione dell’ottantesimo genetliaco di Papa Roncalli (sarà il famoso telegramma di auguri, che avrebbe aperto i rapporti Santa Sede-URSS dopo la Rivoluzione d’Ottobre.
- Nel 1962 – 12 marzo ricoverato d’urgenza per un’operazione chirurgica, riceve in ospedale la visita di Papa Roncalli.
- Il 19 marzo, muore recitando la sua giaculatoria preferita “Veni, Domine Jesu”.

Qualche consiglio bibliografico:
De Luca G. – Ricordi e testimonianze, a cura di M. Picoli, Morcelliana, Brescia, 1968
Mongoni L. - Don Giuseppe De Luca – Il mondo cattolico e la cultura italiana del Novecento, Einaudi, Torino, 1989
Guarnieri R. – Don Giuseppe De Luca tra cronaca e storia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1991
Antonazzi G. - Don Giuseppe De Luca: Uomo cristiano prete (1898-1962), Morcelliana, Brescia, 1992



tratto da "BASILICATA REGIONE Notizie", 1993

Autore: Giuseppe Pizzuti

 

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