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IL CARMINE ( ‘PICCOLO’ E ‘GRANDE’ ) NEI FRAMMENTI DI VITA SOCIALE

L’attuale Santuario della Madonna del Carmine di Laurenzana ebbe, almeno originariamente, se non la denominazione, certamente le caratteristiche della cappella extramoenia, posta come fu in quell’estrema periferia del territorio abitato, che la toponomastica locale, qui come altrove, significativamente chiamò per noi "Punta della Terra".
Questa espressione, certamente più forte, estromise — gradualmente ma per sempre — l’iniziale intitolazione dell’agglomerato circostante a quel Sant’Antuono cui pure contemporaneamente l’insorgente rione cresciuto attorno alla chiesetta s’era richiamato.
È pur vero che il ricordo di Sant’Antonio Abate mantenne — sino agli anni Cinquanta — la sua eco lunga nella cavalcata del diciassette gennaio, (cui seguivano la benedizione degli animali davanti al Carmine e l’assembramento vociante dei pastori in licenza che, davanti alla stessa chiesa, contrattavano, o fingevano di farlo, la nuova annata lavorativa, aprendo con le loro fogge strane e la loro — un po’ sguaiata — gestualità pittoresca il tempo di carnevale), ma è altrettanto vero che, nel corso di quegli stessi anni cinquanta, il rione aveva già smesso la denominazione ufficiale di un tempo, sostituendola con un più generico "Bassocarmine"
Per tutto il Seicento, il Settecento e l’Ottocento il Santuario restò la Cappella della Madonna del Carmine e chiuse, come ancor oggi chiude, nella parte “bassa” del paese, la parentesi nord di questa centrale linea cardinale, simmetricamente con San Vito — che fece e fa la stessa cosa — sulla punta “alta” dello stesso.
Soprasanvito e Bassocarmine, diventeranno, poi, riferimenti zonali orientativi e, ad un tempo, discriminanti strapaesane (“altesi” e “bassesi’ vennero chiamati spesso i residenti dislocati nell’una o nell’altra zona) per un non breve tratto di microstoria locale nel mentre che le due chiese racchiusero, come tra parentesi, l’intero centro abitato.
Il Seicento ed il Settecento assistettero in Laurenzana al sorgere di numerose cappelle, a vario titolo e con diverso destino; qualcuna conobbe presto il degrado se non proprio, a lungo andare, la scomparsa, qualche altra, per congiunture particolari, scopri al contrario un suo ruolo ed un destino migliore.
Quasi sempre, nella costruzione di una cappella, era un prete a prendere l’iniziativa, “suo sumptu” come dicono le iscrizioni e con l’aiuto della pietà dei cittadini, come si affrettano poi a completare. A sollecitarla erano motivazioni d’ordine diverso: il bisogno di una ‘cappellanìa’ per un neo sacerdote, la volontà della famiglia di appartenenza di veder avviato al suo interno un destino migliore, la necessità popolare di dover pregare sempre qualche santo in più: San Pietro, San Giorgio, San Canio (sic), San Vito, San Silvestro, San Cristoforo, San Nicola... Un avvicendarsi, comunque, di cappellanìe ecclesiastiche e, talvolta, di cappellanìe laiche.
Quasi tutte, in ogni caso, partivano in sordina e sposavano alle esigenze pratiche di un clero pletorico il cuore semplice e assai devoto degli umili.
Il ‘piccolo Carmine nacque, in un momento attualmente ignoto, agli albori del Seicento. Il simbolo ricorrente dell’aquila coronata induce a pensare all’intervento dei Caetani dell’Aquila d’Aragona (tra i quali abbiamo sin qui individuato i nomi di donna Enrichetta Carafa Caetani d’Aragona, Don Alfonso e Don Francesco Caetani d’Aragona, quest’ultimo già, con certezza, titolato Duca di Laurenzana nel 1611); la composta semplicità della cappella congiuntamente al tema di “Maria Regina e via al Paradiso delle anime purganti” induce per altro verso a pensare alla schietta religiosità popolare. Le carte, tuttavia, non fanno misteri e definiscono la “Ven.le (sic) Cappella della Madonna del Carmine” di Laurenzana, in un primo momento, cappella di proprietà comunale e successivamente cappella ducale, in un alternarsi di competenze e di attenzioni che vanno dalla Università alla feudalità laurenzanesi, seguendo ed inseguendo — come vedremo — i destini umani e quelli della storia.
I Caetani, subentrati nel feudo laurenzanese nel 1606, risultano oggettivamente i più compatibili nell’azione di patrocinio, anche con i primi segni cronologici rilevati dal La Cava nello stemma sistemato sull’architrave rimossa (1611) del portale anteriore, e non è assolutamente fuori luogo pensare alla ancor perdurante corona ducale sull’attuale arma della municipalità come ad un relitto dell’aquila coronata che si posò sulla stessa a suggello del nuovo possesso e nel segno di un nuovo tema religioso. I duchi del Vaglio e di Belgioioso — dopo una ulteriore parentesi, nella condizione di suffeudatari (sempre dei d’Aragona), dei De Ruggieri-Filangieri — diventeranno di lì a poco gli ultimi definitivi signori laurenzanesi, acquisendo per doti le terre e mantenendo in qualche modo la condizione di tributari, ma lasciando ai Caetani il titolo di Duca di Laurenzana, del quale i potenti principi di Piedimonte d’Alife si fregeranno ininterrottamente per i tempi a venire, distinguendosi addirittura con questo titolo dall’altro ramo della casata, quella che aveva i suoi feudi nello Stato Pontificio e che si fregiava, nei rampolli diretti, del titolo di Duca di Sermoneta. Resta solo da verificare, per quel che concerne la cappella, se si trattò di una costruzione ex novo o di un ripristino, anche se non ce ne sarebbe bisogno, perché i dati sin qui emersi dalle periodiche visite pastorali e dalle annotazioni negli atti notarili più antichi ne escludono a prima vista la preesistenza o, se si vuole, l’esistenza oltre quella data.
Poco si sa — e questo bisogna dirlo — del clima e delle cerimonie religiose che si svilupparono nei primi decenni di vita della Cappella. Quello che si sa è, in genere, frutto delle periodiche visite pastorali, le quali ad altro per noi non servono ed altro non si limitano a fare che registrare e dar prova della presenza di questa.
Di certo esse confermano il diritto di patronato sulla Cappella riconosciuto all’Università ed esercitato per quest’ultima da una Confraternita laicale, che si occupava di problemi amministrativi ed esprimeva quasi sempre parere vincolante sulla nomina del suo procuratore.
Non sempre, tuttavia, trova conferma, nelle carte, il clima idilliaco che tutti — nel buon nome del tempo antico — ci potremmo immaginare, soprattutto (o almeno così sembra in apparenza) per via del clero che, in qualche circostanza, dà segni di insofferenza nei confronti della presenza o, sempre se si vuole, dell’ingerenza laica nelle questioni di carattere, diciamo così, temporale.
Il vescovo diocesano, monsignor Simeone Carafa, è a Laurenzana nel 1639, nel 1640 e nel 1643.
In tutte e tre le circostanze egli visitò la Cappella, prendendo atto, per esempio, nel settembre del 1640, che qualcosa non funzionava perfettamente nei rapporti tra l’arciprete e la laicale Confraternita della Madonna del Carmine.
Storie — e lamentele — di ordinaria amministrazione.
La lamentela al vescovo nella circostanza citata, era stata inoltrata da alcuni esponenti della Confraternita, i quali non avevano gradito il comportamento arbitrario del parroco — in quegli anni don Giovanni Battista D’Messandro — che, a loro dire, avrebbe nominato, senza la preventivata consultazione, Procuratore del Carmine per quell’anno il notaio Giovanni Persio Motta. Il quale — tra l’altro — puntualmente aveva preso in con segna nella sua masseria gli animali di proprietà della Cappella subito dopo l’Assunta, quando a Laurenzana facevano “capotempo li pastori”(4). Un modo di dire, quest’ultimo, per indicare l’avvio della transumanza autunnale.
(Il vescovo — riportiamo la questione tra parentesi per comodità di chi eventualmente volesse proseguire oltre — si era sentito in dovere di aprire una specie di istruttoria, dalla quale di interessante per noi emerge solo il ricordo di un’altra antica usanza, secondo la quale a Laurenzana ogni venti d’agosto venivano designati due procuratori per ciascuna cappella del paese. Il parroco, in mattinata, provvedeva ad annunciare le nomine dei designati nel corso della messa cantata, in serata poi le confraternite procedevano e provvedevano alla loro ratifica).
Ma tornando alla Cappella del Carmine, c’è da dire — per i più curiosi — che le deposizioni raccolte dal prelato andarono nell’occasione tutte in direzione favorevole al parroco, perché i testimoni (Don Giovanni Battista Lenge, Don Francesco Manzo, il signor Gerardo Martoccia, il signor Matteo de Romano e mastro Vito de Bonamassa) riconobbero a lui e non ad altri un consueto diritto esercitato da sempre nella particolare designazione.
La cosa dà prova della presenza di introiti afferenti la Cappella, ma è anche una conferma — ed è quello che a noi interessa — che tutto quanto attiene al Carmine laurenzanese prende il via in questo inizio del secolo XVII.
Della questione, tuttavia, si perde presto ogni traccia, e così pure dell’attività della laicale Confraternita, che continuerà comunque ad occuparsi della Cappella sino a quando, come vedremo, l’Università, per gravi ristrettezze economiche, deciderà di disfarsi della gestione di quest’ultima, cedendola alla feudalità locale.
Il ‘grande’ Carmine segna, invece, un momento successivo della storia di Laurenzana, quello che si legò alla scelta ‘ufficializzata’ di una protettrice.
Il documento che ce lo testimonia è quello redatto dal notaio Domenico Grippo davanti all’altare (all’interno della Chiesa Madre) dell’allora beato — poi canonizzato nel 1671 — Gaetano, il sette agosto del 1656, in occasione della giornata dedicata al nuovo santo, il fondatore dei Teatini, appunto, protagonista appassionato della Controriforma anche nella città partenopea.

Autore: Rocco Maria Motta

 

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