INDICE

Avanti >>

.

FRANCESCO LOMONACO

FRANCESCO LOMONACO

tratto da "La Basilicata nel Mondo" 1924 - 1927
tratto da "La Basilicata nel Mondo" 1924 - 1927

Dopo avere tutta una notte di settembre vegliato e vagato, grande ombra vivente e pensante, nella inerte ombra morta dei chiostri e dei vestiboli della Certosa di Pavia, che Gian Maria Galeazzo Visconti eresse per i tripudi mistici della sua anima inquieta, Francesco Lomonaco — illividendole appena l’alba rinata — si gettò nelle gore torbide del Navigliaccio

Aveva trentotto anni. Le battaglie del suo pensiero non erano ancora né compiute, né vinte; la liberazione e la unificazione del popolo d’Italia, ch’Egli aveva profetato, sembravano ancora tanto remote, in quel 1810, che incalzando al dissolvimento dell’epopea napoleonica sotto i cimiteri di neve della Russia e preparandosi a calpestarla sotto i passi ferrati degli eserciti dell’Alleanza, irrigidiva al vento della reazione le magnanime aspirazioni di libertà; il suo genio non aveva ancora detto il suo verbo definitivo, né impressa la sua traccia di fuoco sul cammino doloroso e glorioso, per il quale le genti umane muovono lentamente, inconsciamente, inesorabilmente, dal principio del mondo, senza potersi mai fermare, cadendo spesso, risollevandosi qualche volta, alla conquista di un destino — parimenti oscuro di trionfo o di sconfitta.
Quale mistero, dunque, quale debolezza, quale sconforto umano, quale mancanza di fede attrassero Francesco Lomonaco — salvato nel 1799, alla forca borbonica, da un errore della sbirraglia verso il povero nulla della fossa del Navigliaccio; quale improvvisa caligine scese ad avvolgere nella notte senza via il pensiero, che aveva meditato il « Rapporto al cittadino Carnot » « Il colpo d’occhio sull’Italia » i « Discorsi letterari e filosofici » « L’analisi della sensibilità » nel quale libro, partendo da Montaigne, precorreva il moderno positivismo scientifico, intuendo per primorcome la volizione non sia che effetto del principio di causalità, e sgombrava così i cieli nuvolosi della indagine filosofica ai voli di Arturo Schopenhauer?
Nessuno sconforto e nessuna caligine, nessuna miseria o dolore individuale potevano piegare quello spirito. La ragione speciale e propria della morte volontaria di Francesco Lomonaco va ricercata — come ammonì Filippo Masci — nell’antitesi tragica fra il suo ideale etico-politico e la congiura aulica, oggi storicamente nota nei suoi particolari e dettagli, la quale tentò di soffocare quell’ideale nella sua persona, come già lo aveva soffocato in Bruno e in Galliano, e non già col sangue del martire, ma travolgendo nel fango la reputazione dell’apostolo. La sua morte volontaria fu l’oscuro episodio di un grande dramma storico. L’ ideale napoleonico fugava e vinceva l'ideale italico, di cui Francesco Lomonaco era il filosofo e il profeta.
Le persecuzioni uccidevano moralmente l’apostolo dell’ideale vinto. « Se vissi sempre indipendente e Worioso, voglio morire indipendente e gloriosissimo ». Il corso della storia aveva travolto il suo ideale; il sentimento della sconfitta del suo ideale travolse il sacerdote.
Che cosa disse all’Invisibile, in quella sua tremenda vigilia notturna di morte, nella Certosa di Pavia, Francesco Lomonaco? Mistero!
Noi sappiamo che il pensiero della giovinezza di Francesco Lomonaco fu arrestato nella sua realizzazione da una volontà di morte, superiore alle stesse ragioni della lotta e della vita. E per questo ci appare più grande e più nobile il Profeta, che, lasciando volontariamente incompiuta la opera sua, si affida, per il suo compimento ineluttabile, alle generazioni dell’avvenire, per le quali — mutato l' iniquo corso della storia — il suo « verbo »sarà « fatto ».
Che importa se, nel giorno della rinascita e del trionfo del suo ideale, nessuno del popolo immemore andrà a genuflettersi sulla ripa del Navigliaccio di Pavia, se è dimenticato il Profeta, quando il popolo, ch’Egli avea divinato, cammina nella storia, lungo le vie, ch’Egli aveva tracciato alle sue ascesi?
Ma se un rito il popolo d’Italia dovesse mai celebrare a sé stesso, l’alare più degno non potrebbe essere che la sponda del Navigliaccio. E le parole del sacrificio non potrebbero essere che quelle, che Francesco Lomonaco scrisse nel « Colpo d’occhio sull’Italia ». « Popolo futuro d’Italia! A te io dedico questo mio travaglio, qualunque si sia; giacché a te è riserbato di compiere la grand’opera. L’esperienza dei tempi scorsi, le lezioni della infelicità dei tuoi avi, le cure dei tuoi più cari interessi, i lumi sempre crescenti della filosofia e della ragione, che ti faranno sentire il ridicolo e l’odio de’ re selvaggi, la memoria di essere stato il proprio paese spesso esposto alle conquiste, ma non mai interamente soggettato, dandoti il sentimento delle tue forze, ti spronerà a rovesciare le barriere che la mano del delitto ha innalzato, ed a solennizzare la gran festa del patto della Confederazione, — come Gioberti, Mazzini e D’Azeglio, Lomonaco era fautore della Confederazione degli Stati Italiani — la quale fisserà l'era della tua grandezza.
Popolo futuro! Se noi ci troviamo in mezzo alle spine della libertà, tu gusterai la soave gioia di coglierne le rose, nel giardino della morale, del costume e della virtù. Addio ».
Tale la profezia, tale il testamento di amore di Francesco Lomonaco al popolo d’Italia, al popolo futuro d’Italia, quello, che, forse siamo noi, che, forse, non è venuto ancora. Ma, mano a mano che gli eventi si assumono la cura di far intendere al popolo italiano il valore della sua libertà, e quale immenso bene essa sia, tale da difenderla contro tutte le insidie, il popolo italiano si accosta spiritualmente al suo Profeta. E Francesco Lomonaco rivive, immortale come la sua Idea, divenuta Realtà di Popolo e di Patria.

Nacque in Montalbano Ionico, — a specchio dell’azzurrissimo golfo di Taranto, lungo le cui prode fiorì la civiltà regale della Magna Grecia — il 22 di novembre del 1772 dal dottor Nicola e da Margherita Fiorentino.
La sua prima giovinezza passò tranquilla, pensosa, operosa. A diciotto anni, quasi ancora adolescente, si recò a Napoli, ch’era allora, veramente, il cervello d’Italia, il gran crogiuolo, nel quale si fondevano, si amalgamavano, si selezionavano tutti i tumulti, che un secolo di verità scientifica aveva trasfuso nello spirito della generazione giovane, incitandola alla rivolta ideale, vi frequentò i corsi universitari, e vi conseguì le lauree nelle facoltà di giurisprudenza e di medicina.
All’annunzio della Rivoluzione Francese, tradusse e divulgò nel Regno delle Due Sicilie — viatico di rivolta — il « Contratto Sociale » di Gian Giacomo Rousseau, che dissolveva il principio della investitura divina dei re, in nome del principio del popolo sovrano, e poneva, di fronte al diritto regio, il diritto del cittadino, l’elezione contro la investitura; collaborò nel « Monitore Napolitano » di Eleonora Pimentel Fonseca.
I moti politici del 1 799 lo trovarono, sdegnoso e ardente come Farinata, sulle barricate della libertà, col popolo e per il popolo, cantando l’inno satanico della luce e della glorificazione al sangue liberatore. Forse pure Egli generosamente pensò che da Napoli potesse cominciare per tutta Italia l’era nuova della sua storia, e infaticabilmente operò perché quella lotta di popolo quasi inerme contro « la negazione di Dio » avesse le risonanze dei cori di Eschilo, la grandiosità purpurea e onnipotente delle fatali battaglie di Omero, nelle quali gli stessi Iddii intervenivano, spettatori e attori, arbitri e vindici, feriti e feritori. Un anno da epopea, il 1799, che Francesco Lomonaco, ventisettenne, visse e patì con tutto il suo profondo cuore leonino, piagato insanabilmente dal crollo della Repubblica Partenopea, dall’eccidio, che ne seguì, dei più insigni patrioti, eccidio al quale Egli stesso fu sottratto dall'inconscio errore di uno sbirro della reazione sanguinaria.
Scampò nell’esilio. Emigrò prima in Francia, poi a Ginevra, ma a Milano, solitario e fremente, scontento sempre, crucciato di sé e del mondo, affannosamente visitando tutte le terre libere, come per cercare in esse un angolo, ove rifugiare il suo sogno, la sua idea. Come Dante, come Foscolo, così soave cantore, così aspro guerriero, lo tormentava il pensiero, lo assillava il dubbio che il suo ideale fosse una inconsistente chimera, una divina raggiante utopia, se tutti gli sforzi, tutti i sacrifici, tutto il sangue dei popoli non bastavano a portare sulla terra il bene della libertà. E il popolo stesso lapida tanto spesso i suoi Profeti, per non saperli comprendere!.
Divenne aspro, inaccessibile, chiuso. Aveva cenere sull’anima, cenere sulla bocca, cenere sulle mani. Solo sulla cima più alta del suo pensiero splendeva e ardeva la lampada della sua fede. Non utopia, no, la sua, realtà di domani, eterna.
Di quella eternità ideale, che fa il pensiero dell’uomo, immortale, come il pensiero di Dio, e nello spirito dell’uomo rivela quella luce dell’infinito, che si chiama il genio ».
A pacare la sua tormentosa ira di esule, Alessandro Manzoni, giovanissimo, gli mandò il famoso sonetto, che riportiamo:
« Come il divo Alighier l’ingrata Flora errar fea per ... ».
Ma lo spirito di Francesco Lomonaco era ormai irreparabilmente turbato. Nell’esilio di Francia, quasi per amara vendetta della sua idea di libertà, che gli eventi e la storia sembravano negare, scrisse il « Rapporto al cittadino Carnot » nobile e fremente protesta contro l’orgia regia di sangue, uno dei tre libri, gli altri due sono il « Contratto sociale » di Rousseau, e « L’ésprit des bis » di Montesquieu — che calarono e sigillarono la pietra tombale sul regime tirannico ed assolutistico.
A Ginevra, spingendo lo sguardo aquilino sulla penisola italiana, per dare alla sua idea un corpo, una conistenza, una presenza reale, un’anima e un volto, scrisse il « Colpo d’occhio sull’ Italia ». Mirabile libro, nel quale la potenza lirica del pensiero è solo superata dalla fiamma della inspirazione, che trabocca, come da un’urna inesauribile, dal sentimento patriottico e dal dolore umano dello scrittore, il quale, attraverso la sua passione e il suo genio, il suo cervello, può assurgere al fastigio mistico del Profeta, e dettare al suo popolo, non ancora nazione, ma misero, nemico, asservito, e diviso da frontiere delittuose, le più grandi parole di fede, che mai siano state dette, né da Dante, né da Macchiavelli, né da Guicciardini, né da Mazzini, al popolo d’Italia.
Col « Rapporto al cittadino Carnot » e con il « Colpo d’occhio sull’ Italia » Francesco Lomonaco riceveva il battesimo della gloria e la consacrazione della grandezza morale e mentale. Battesimo e consacrazione, che se potevano appagare l'uomo Lomonaco, accrescevano però il cruccio e l’angoscia del filosofo e del profeta, che si sentiva sempre più solo, come Tommaso Campanella, nella « città del sole » del suo sogno di liberazione di un popolo, che confinava col mito, e sembrava destinato a rimanere in eterno senza compimento; mentre nel suo spirito, nel suo pensiero, che avevano avuta la chiara visione dell’unità d’Italia, emergente, in un prossimo avvenire, dal fato della storia, dal corso profondo delle idee e degli eventi, i quali, apparentemente, superficialmente, temporaneamente la negavano, cadeva ogni giorno una scena dell'infinito dramma di tormento, che lo doveva sospingere verso la fossa del Navigliaccio.
Si rifugiò nel passato. Per credere e far credere alla futura gloria e alla futura felicità degli italiani, costrinse il suo pensiero gigantesco a meditare sulle virtù civili e militari della stirpe italica, ai tempi della sua gloria, e scrisse « Le vite dei famosi capitani d’ Italia » e « Le vite degli eccellenti Italiani che gli meritarono il titolo di « Plutarco d’Italia ».
Tutta la sua opera di scrittore e di filosofo è emanazione della sua fede nella virtù risorgente della Nazione italiana. Con « Le vite dei famosi capitani d’Italia » e con « Le vite degli eccellenti Italiani »Francesco Lomonaco forniva i precedenti storici al « Primato degli Italiani » di Vincenzo Gioberti, e « metteva innante » al popolo italiano i titoli della sua gloria passata, le oscure, indomabili e inespresse forze etniche e ataviche della stirpe, che dovevano condurla alla resurrezione.
Con « Il trattato della Virtù Militare » additava all’Italia il mezzo della resurrezione. Nessun popolo è grande, se non fa da sé la sua unità la sua indipendenza e la sua grandezza, se non le feconda col suo sangue e non le conserva col suo valore.
Vincenzo Monti, al quale il Consigliere Ministro per l'Interno della Cisalpina rimise l’esame del « Trattato » ne scrive e ne giudica così « Il libro della "Virtù Militare" da voi rimesso al mio esame, e uno dei pochi che io reputo degni della superior protezione. Quest’opera, per mio parere, è ben divisata e ben eseguita importantissimo lo scopo a cui mira, perché tendente a formare il soldato non solamente forte ed intrepido, ma virtuoso. Tutto quello che può fargli sentire la dignità del suo grado e innamorarlo del suo mestiere, tutto vi è toccato con sommo giudizio, e stimo che niun militare lo possa leggere senza invogliarsi ad essere onesto. L’erudizione, di cui il libro è condito, sembrami tutta scelta e bene applicata.
« L'autore ha trasfuso i più bei pensieri, le più belle sentenze degli antichi scrittori sulla materia che egli ha preso a trattare, le ha espresse con precisione e con brio, le ha vestite sovente di novità e di una certa aria di sentimento che palesa tutto ad un tempo l'uomo filosofo e l’uomo dabbene e sensibile. Protesto insomma che la lettura di questo libro mi ha sommamente dilettato e istruito senza darmi tempo a notare qualche negligenza, qualche licenza di lingua, lasciando ai pedanti il pesai le parole più che le cose. ».
Nella Cisalpina, la sua opera poderosa di scrittore patriottico si congiunse armoniosamente alla su a illuminata, serena e austera opera di umanista. Spetta, infatti, a Francesco Lomonaco il merito di aver rivelato Giambattista Vico agli Italiani, di averlo mutato — come espresse Benedetto Croce — « da gloria napoletana in gloria italiana ». E apertamente lo riconobbe Giuseppe Giusti, il quale, nella prefazione al Panni, scrisse « Le opere del Vico giacquero molti anni dimenticate, o noncurate, finattanto che non furono rimesse in onore da Vincenzo Cuoco, dal Lomonaco, e da altri ». E di Lui umanista e filosofo fa speciale menzione Giosuè Carducci, nelle « Letture del Risorgimento italiano ».
Ma il ciclo filosofico di Francesco Lomonaco comincia e si conclude negli ultimi cinque anni della sua vita — dal 1805 al 1810 — nell’estremo rifugio di Pavia, ove tenne la cattedra di storia e geografia nella Università, dalla quale avevano insegnato e ammonito Vincenzo Monti e Ugo Foscolo, Alessandro Manzoni e Alessandro Volta.
Tragedia di uno spirito titanico, di un pensiero atto a tutte le audacie del concepimento! Come più Francesco Lomonaco si sentiva stretto dal cerchio della morte, che gli serrava il cuore, tanto più il suo genio si librava a volo nei cieli infiniti e senza via della indagine e della speculazione scientifica, per arricchire il patrimonio ideale della « Verità » alle genti umane delle generazioni future, cui fu costantemente fisso il suo pensiero.
Nell’ordine economico, la sua filosofia si riannoda alle antiche dottrine di Pitagora e di Archita, alle moderne teorie di Fickte e di Schelling.
Nell’ordine religioso, Egli, che, nel « Colpo d’occhio sull’Italia » ha fustigato sanguinosamente Chiesa e Papato, proclama che « la religione è forza e potenza di ogni umano eroismo ».
Nella « Analisi della sensibilità » Egli non solo precorre ed annunzia il moderno positivismo scientifico, tracciando le orme, su cui avrebbe camminato Arturo Schopenhauetir nel suo « Mondo come volontà e come rappresentazione » ma precorre anche il Morel, nella teoria della degenerazione, distinguendo fra uomo normale e uomo anormale; e, riprendendo il cammino di Cesare Beccaria, precorre la evoluzione della sociologia criminale.
« Come i premi elevano l' individuo umano, cosi le pene lo deprimono e lo avviliscono per cui i primi appartengono agli stati liberi, le altre sono proprie del dispotismo. »
« La severità delle pene, anziché arrestare il torrente dei misfatti, lo ingrandisce e lo rende più rapido. Altronde si sa, che la pena è la perdita di un diritto violato, sicché alla scala dei reati deve corrispondere esattamente quella delle punizioni. Allorché si vuol essere troppo severo, la natura riurta. Quei sovrani, i quali hanno negletta questa massima, sono stati uccisi o hanno perduto gli stati. La storia dei mostri dell’ Impero Romano è molto eloquente, per mettere a giorno questa verità. Filippo II perdé le province unite per lo motivo esposto.
« Io desidererei che nel comminare le pene, si avesse in mira di dare un correttivo al reo, mentre si presenta l’esempio alla società. Questo effetto si può conseguire con soffocare la passione, che ha depravato il cuore, e mettervi un contrappeso. Converrebbe, dunque, punire il delitto di ambizione colla pena d’infamia, il furto col travaglio, gli eccessi dell’avarizia colla muta ».
È una teoria nitida, chiara, precisa, nella quale si scorge l’occhio della mente profetica di Francesco Lomonaco, adusato a scrutare e a scorgere, tra le nebbie dell’avvenire, la luminosa favilla del futuro destino umano.
Nel 1809, quasi dalle soglie dell’Invisibile, verso le quali già lo incalzava, serrandolo, la sua implacabile tragedia interiore, pubblicò i « Discorsi letterari e filosofici ».
Le cagne della intolleranza si scagliarono sul filosofo, precipitando la catastrofe del suo spirito e della sua vita. « I Discorsi » così potentemente organici e sistematici, pur nella loro forma frammentaria e aforistica e nella loro fenomenica disparità di materie dalle più astruse ed eteree disquisizioni metafisiche ai più umili casi della piccola vita comune, immane congerie, accumulata da un genio gigantesco, che la anima del suo palpito vitale, furono sequestrati. Le idee cardinali del libro erano una condanna implicita del Governo e della Società. Pur attraverso la difformità apparente delle materie, nelle quali la varietà è impastata nell’unità, quella tremenda unità morale e ideale dei « Discorsi » consistente nel contrasto tra le virtù e il vizio, contrasto, che si traduce nell’apologia della virtù e nella satira del vizio; lo spiritualismo e il criticismo puro, onde tutto il libro è pervaso — spiritualista è, nei « Discorsi », il materialista dogmatico de « L’Analisi » — spaventarono quel governo, sbigottirono quella società, che reagirono con la persecuzione, forse con la calunnia. Il filosofo idolatra della virtù e della libertà, cui già il tarlo del suo ideale irrealizzato aveva reso le fibre migliori del cuore, volle sottrarsi — libero e glorioso — a quella canea intollerante, che gli mordeva le ginocchia e tentava di addentarne l’anima, per voluttà di denudarla, di dilaniarla. Si ritrasse sulla sponda del Navigliaccio, e scomparve nel gorgo flavo. Al contrario di Bruto, che, morendo, rinnegava la virtù:
« O virtù, tu sei un nome vano ! »; il filosofo di Montalbano, morendo, la chiamava così : « O virtù, figlia della natura, madre della felicità, legittima sovrana del mondo, tu, ancorché l’universo si naufraghi, pure galleggi su le onde tempestose; armata dell’egida di Minerva, non ti lasci atterrire né dalla malizia degli uomini, né dalla prepotenza della fortuna, né dall’ira degli elementi; insuperabile compagna della verità, deplori le illusioni che fermentano il basso orgoglio del potente e la stupida insensata ferocia del malvagio. Solo ti compiaci di guardar la beatitudine delle anime che, per tuo mezzo divenute cittadine del cielo, considerano la terra come un grano di sabbia gittato nell’ immensità dello spazio ».

**

Un giudizio critico su Francesco Lomonaco? No. Il criticismo di questa nostra età moderna, che tanto si picca di super-cerebralismo, potrà facilmente trovare che il filosofo Lomonaco non ha grande originalità di pensiero, che derivò le sue idee da Aristotele e da Cabanis, che non seppe approfondire lo spirito di Vico. E potrà anche dimenticare che il fibosofo Lomonaco è spesso precursore, e che lo scrittore Lomonaco raggiunge molto spesso l’efficacia e la concisione stilistica di Tacito. Dovrà inchinarsi ugualmente davanti alla grandezza dello spirito profetico di Lui, poiché in tutta quella pleiade di pensatori e di poeti, che, confusamente, intravidero e salutarono l'unità nazionale dell’Italia, Francesco Lomonaco, solo Francesco Lomonaco, antivedendo il corso del fato storico, che pur sembrava dargli torto, in chiarissima visione, previde la figura politica dell’Italia futura.
« Qual riparo, egli scrisse, ai nostri mali ? Come imprimere alle depresse e avvilite fisionomie italiane il suggello dell’antica grandezza ? L’Unione. Realizzandosi quest’idea, gl’italiani, avendo governo, diverranno politici e guerrieri; avendo patria, godranno della libertà e di tutti i beni che ne derivano; formando una gran massa di popolazione, saranno penetrati dai sentimenti della forza e dell’orgoglio pubblico, e stabiliranno una potenza che non sarà soggetta agli assalti dello straniero. Ed anche perché sta in Europa bilancia politica, perché si dissecchino le sorgenti delle guerre, è d’uopo che l'Italia sia: fusa in un sol governo, facendo un sol fascio di forze ».

**

Se questa di oggi è l’Italia, se questi di oggi siamo gli itaflani, che Francesco Lomonaco ha divinato, tempo è che onore sia reso al Profeta della stirpe risorta.
Ma non questa è forse ancora la « Sua » Italia, né questi gli Italiani, com’Egli li volle, perché progredissero sempre sulla via della gloria, della virtù, e delle libertà civili.
E per questo il Profeta è ancora obliato, nella fossa del Navigliaccio Pavese.
Ma l’alba verrà.

Autore: tratto da "La Basilicata nel Mondo" 1924 - 1927

 

[ Home ]  [Scrivici]