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Alla ricerca di Heraclea e Siris

ARCHEOLOGIA TRA SETTECENTO E OTTOCENTO

All'architetto francese Louis Jean Desprez (nato ad Auxerre nel 1743 da un fabbricante di parrucche e deceduto nel 1804) il Louvre di Parigi ha dedicato di recente (estate 1994) una mostra di incisioni, disegni, acquerelli e dipinti.
Il Desprez fu tra i più prolifici disegnatori ed architetti che nella primavera del 1778 intrapresero, sotto la guida di Dominique Vivant Denon (n. 1747 m. 1825) incaricato di affari del re di Francia alla corte di Napoli dal 1778 al 1785, per conto di Jean Baptiste Claude Richard (n. 1727 m. 1781), abate di Saint Non, il "Voyage pittoresque ou Descri-ption des Royaumes de Naples et de Sicilie" (Paris, 1781 1786, 4 Tomi in 5 voll.).
La passione per l'antico spinse al viaggio in Magna Grecia (Puglia, Basilicata, Calabria), in Sicilia e Campania, scrittori, antiquari, pittori e disegnatori.
Furono soprattutto i francesi a divulgare e far conoscere nelle altre nazioni europee le bellezze naturali ed urbane, il vasto e desueto patrimonio archeologico, monumentale ed artistico del Mezzogiorno d'Italia. Lo rivisitarono e reinterpretarono nell'immediatezza della percezione, propria dell'estetica del Settecento.
I viaggiatori francesi, partiti da Napoli, dopo aver attraversato la Puglia, sbarcarono in terra lucana a Torre di Mare (Metaponto); raggiunsero poi con la barca a vela a loro disposizione, Torre di Policoro, dopo sei ore di navigazione con un brutto vento. Dalla spiaggia ionica mossero verso il castello, un tempo appartenuto ai Gesuiti, l'ordine religioso che vi gestiva una fattoria "con cinquemilalire di rendita", messo al bando dal Borbone dal regno di Napoli e di Sicilia alcuni anni prima (1773).
All'epoca della visita dei francesi l'ex feudo di Policoro era in gestione alla cosiddetta Azienda dell'Educazione, che l'aveva data in fitto ai montalbanesi Giuseppe Domenico Federici, appartenente ad antica famiglia gentilizia, ed al dottore in legge, Pietro Troyli.
Quando i viaggiatori vi giunsero il "governatore" del castello di Policoro era assente, in quanto impegnato in una battuta di caccia.
I francesi ebbero modo così di compiere escursioni nei dintorni del castello, camminando e passeggiando "dappertutto" sino al rientro dell'agente "su una specie di carro, trainato da due curiosi bufali".
Il Desprez eseguì lo schizzo ed il disegno del castello; altri si posero alla ricerca delle rovine dell'antica città di Heraclea, attribuendo ai Gesuiti (come riferito dai loro nemici) la sparizione o dispersione di "tutto ciò che vi era di prezioso negli scavi" eseguiti "da lungo tempo" in quel luogo.
Dal sopralluogo compiuto ricavarono la convinzione che Heraclea fosse "effettivamente la più distrutta tra tutte le città celebri dell'antichità".
Fecero, però, osservazioni ancora oggi valide ed importanti ai fini della riconsiderazione della topografia dell'antica città e delle ricerche archeologiche.
"Tutto ciò che si può distinguere affermavano a proposito di Heraclea è il luogo della sua ubicazione". Lo riconobbero "nel rialzo della sua cinta, ed in una piccola vallata circostante" che sembrava fosse servita da fossato". Su quel lato, infatti, erano state ritrovate tombe antiche, mentre ancora visibili erano "molti frammenti di vasi greci di estrema finezza".
Definirono "pianeggiante" e dalla "forma allungata" il "territorio che la città occupava", dichiarando peraltro la propria oggettiva difficoltà a "determinarne in modo esatto l'estensione" a causa delle "spighe di grano ...molto alte", che occupavano il suolo. Tutta quell'area apparve a loro "disseminata di resti di marmo, di rivestimenti spezzati e di piccole pietre di mosaico..., soprattutto in un luogo... maggiormente scavato dai Gesuiti", che si riteneva avesse "fatto parte di un magnifico tempio". D'altra parte il ritrovamento, avvenuto alcuni giorni prima del loro arrivo di "una testa in marmo ...molto grezza e infinitamente degradata" rappresentava "una prova certa che un tempo le arti vi erano coltivate".
Sin qui la ricerca dei viaggiatori francesi riferita alle rovine di Heraclea sulla collina di Policoro, pur tra l'ondivago riscontro di testi e citazioni letterarie di autori antichi e contemporanei, tra cui quelle del canonico Alessio Simmaco Mazzocchi e di altri.
E' a questi viaggiatori francesi che dobbiamo dunque significativa precisazione dell'area in cui emergevano rovine di Heraclea e della sua acropoli.
Soltanto studi e ricerche archeologiche posteriori ne avrebbero acclarato la esatta ubicazione e partizione, ponendosi ancora la necessita di ulteriori studi e scavi riferiti ad Heraclea e Siris e alle forme insediative di quest'ultima città. I viaggiatori ebbero modo di apprezzare la squisita ospitalità del "governatore" del castello di Policoro. l'offerta di un "eccellente, abbondante buon vino", del "gelato", da loro definito "un genere di lusso di grande valore sulle rovine di Heraclea" e del "cioccolato", a loro offerto al risveglio per la partenza verso "Anglona, a cercare ancora le rovine di un'altra città, l'antica Pandosia", nel vano tentativo di trovare ulteriori rovine di Heraclea.
Lungo la strada di Anglona ebbero modo di apprezzare la bellezza del panorama che si offriva ai loro sguardi.
Da lì era possibile vedere "con lo stesso colpo d'occhio' le valli ed i percorsi dei fiumi Agri e Sinni e l'Appennino "adorno di collinette e colmo di ridenti e piacevoli particolari: boschetti, città, castelli".
Nella fantasia degli artisti e dei pittori francesi si apriva il palcoscenico dell'antico.
L'autore del testo del "Voyage" annota infatti, con fare da critico d'arte, l'accensione storico evocativa di nuove visioni nei paesaggi ritratti dallo Chatelet e dal Desprez.
Così ne sottolinea lo stato d'animo: "I disegnatori erano nell'entusiasmo del pittoresco di un luogo dove tutto si collegava nella loro immaginazione, nella persuasione che era quello dell'antica Heraclea: il nome, il ricordo di Zeusi animavano in loro ancora di più l'amore per l'arte". Lo Chatelet eseguì il disegno raffigurante la celebre e rustica fontana posta alle falde meridionali d'Anglona (L. Quilici, Siris Heraclea descripsit, Roma, De Luca ed., 1967, p. 193 n. 3). Ritennero che quella valle fosse "servita da cinta all'antica Heraclea". Allora era "ricoperta di fitti alberi, e di aranci nella estensione del terreno" e formava un boschetto che dava "al meglio l'idea che l'immaginazione si fa dell'Arcadia felice".
Nella chiosa critica riferita al disegno dello Chatelet, l'autore del "Voyage" sottolinea con acume: "aggiungendovi qualche nobile e felice soggetto dell'idillio, se ne farebbe un paesaggio greco". E conclude così: "si può dire che tale è la situazione in cui questo genere di finzione è consentito".
Il disegno del Desprez (L. Quilici, op. cit., alla pag. 193, nota 3 e a pag. 92, fig. 188) afferma che la panoramica dell'ansa del Sinni fu presa da Conca d'Oro nei pressi dell'attuale Pane e Vino, frazione di Tursi, lascia intravedere sullo sfondo della composizione l'Appennino e "l'immenso bacino nel quale scorrono i due bei fiumi".
Nel commento alla tavola si afferma: "ciò... forma il più splendido paesaggio, del più grande carattere, e nello stesso tempo la mappa fedele del luogo".
Nella chiosa critica é precisato: il "disegnatore, prendendo un volo più alto e storico, si trasportò nell'epoca in cui lo stesso Zeusi abitava (quella) bella contrada", raffigurando il "celebre pittore dell'antichità circondato dalla sua scolaresca mentre fornisce a questi discepoli le lezioni della sua arte".
Con sagacia critica veniva annotato dunque, sin da allora, la propensione del Desprez alla visione storica attraverso un innesto immaginifico nel paesaggio reale.
Altre furono le sensazioni e le osservazioni dei francesi nel prosieguo del loro viaggio in terra lucana.
Discendendo le alture di Pane e Vino, attraversarono un bosco. Il Pantano di Policoro, "già celebre nell'antichità ed un tempo onorato come foresta consacrata".
"Il silenzio, gli oscuri misteri che regnano sotto le immense querce, vecchie quanto il mondo" ricordavano ai viaggiatori "l'imponente santuario dei Druidi".
Importanti risultano, anche sotto il profilo faunistico, le annotazioni riferite alla "bella foresta" attraversata sino ai bordi del fiume Sinni, guadato con dei bufali.
La "foresta era abitata da una folla pacifica di animali e selvaggina di ogni specie; cinghiali, daini, caprioli, per non dire delle martore e degli scoiattoli di cui vedemmo una grandissima quantità che si portavano a spasso sulle nostre teste di albero in albero", annotarono stupiti i viaggiatori francesi.
Giunti poi al luogo detto "gli Bagli", nei cui pressi sovente si rinvenivano "monete romane", raggiunsero l'imbarcazione a vela che li attendeva nella "rada di Rocca Imperiale, in cui il torrente Calandro, che vi sfociava, separava la Basilicata dalla Calabria Citeriore.
Nella primavera del 1818, quarant'anni dopo il "Voyage", partì da Napoli verso il Sud, passando per Benevento, il figlio del nobile sir William, sesto barone Craven, già ciambellano (prima a Roma e poi a Napoli) della principessa del Galles, Carolina.
Quando la principessa si trasferì a Ginevra, Craven Keppel Richard (n. 1779 m. 1851), preferì dedicarsi alla sua passione per lo studio delle antichità e della storia, al disegno ed ai viaggi.
Visitato in Puglia la Capitanata, le Terre di Bari e di Otranto, il Craven da Taranto mosse alla fine di maggio del 1818 verso la Calabria, percorrendo all'interno i desolati territori della costa ionica. Dopo una sosta a Metaponto, guadato il fiume Agri (parte a dorso di cavallo e parte con "una sgangherata barca") fu, ai primi di giugno del 1818, nel castello di Policoro, da lui definito "una grande casa colonica". Quelle terre allora appartenevano ai Grimaldi, principi di Gerace, con i quali il Craven era in rapporto nella città partenopea. Un loro agente ne soprintendeva l'amministrazione.
Nelle pagine di questo viaggiatore inglese, attento a descrivere "in modo esaustivo le reali condizioni del Sud", si rinvengono interessanti lacerti memoriali sulla vita economica e sociale nel territorio di Policoro agli inizi dell'Ottocento. Le sue annotazioni risultano, oggi, ancora di più preziose per la quasi totale assenza di studi specifici dedicati a quell'area e ad una delle prime aziende agricole a gestione capitalistica del Mezzogiorno d'Italia.
Il Craven ricorda come ormai il castello, distrutte le torri, era ridotto ad "una grande e rozza costruzione senza alcun valore architettonico". Durante il periodo dell'occupazione francese era stata utilizzata come residenza dei soldati che, una volta, accidentalmente, gli avevano dato fuoco.
Al tempo della visita del Craven il piano terra dell'edificio risultava "adibito a magazzino per i prodotti della fattoria" ed "a stalla e abitazione per i contadini", che lavoravano nella proprietà. Alcune stanze del piano superiore "piuttosto ampie e pulite", in una delle quali venne alloggiato, risultavano occupate dalla famiglia dell'agente.
La principale fonte di ricchezza dell'azienda era la produzione di olio e della liquirizia "lavorata in un grande opificio" che sorgeva nei pressi del castello. Di questi e di altri prodotti agricoli si faceva commercio con le navi.
Nella zona abbondavano "ogni tipo di selvaggina, soprattutto lepri, daini e cinghiali". La malaria, però, rendeva "inabitabili" quei "luoghi dopo la metà di giugno". Vi restavano soltanto poche famiglie impegnate "nei lavori chiesti dalla proprietà, sotto la sorveglianza dell'agente del Principe", che risiedeva, nel periodo estivo, a Montalbano Jonico, recandosi a giorni alterni nelle terre di Policoro.
Le famiglie dei lavoranti dimoravano invece sul posto in "capanne di paglia". A volte, in una sorta di guerra tra poveri, venivano bruciate, come accadde nel 1814 quando una "banda di briganti, i Buffaletti, per vendicarsi di essere stati licenziati dalla fattoria", appiccò il fuoco alle capanne degli altri lavoranti.
Il Craven fornisce le cifre degli occupati fissi e dei lavoratori saltuari impegnati nelle diverse fasi stagionali della lavorazione agricola.
Durante la stagione invernale lavoravano nell'azienda "mediamente mille persone", di cui "solo centocinquanta" venivano impegnate stabilmente.
Riferendosi ai reperti archeologici dell'antica città di Heraclea, l'ex ciambellano inglese annotava che nel corso dei lavori di aratura del terreno affioravano costantemente "medaglie, pietre incise ed anche frammenti di statue", mentre "a circa otto miglia da Policoro" erano state ritrovate due tavole di bronzo, meglio note come Tavole di Heraclea. Una di queste, pervenuta "nelle mani di un gentiluomo inglese", fu conservata per qualche tempo presso il British Museum di Londra prima di essere custodita nel Museo Reale di Ercolano.
Di queste tavole, che riportano la misurazione e la ripartizione dei terreni "consacrati a Bacco", gioverà riportare nel dettaglio la storia del ritrovamento, così evince in diverse pubblicazioni.
Nel 1732, un contadino di Pisticci, tale Marcello Lemma, arando la terra con i buoi, trovò casualmente una lamina di bronzo con una iscrizione greca su una facciata e latina sull'altra. La lamina opistografica era mutila nel testo greco.
Diffusasi la notizia del ritrovamento, il dotto e stimato archeologo montalbanese, Nicola Maria Troyli, recatosi sul luogo (in contrada Luce, posta sugli argini del torrente Cavone) fece scavare nuovamente, recuperando una seconda lamina contenente una iscrizione latina solo su una facciata.
Dopo alcuni anni vennero ritrovati sullo stesso luogo i frammenti greci appartenenti alla prima lamina.
La prima lamina, intanto, venduta a Roma ad un certo Ficoroni e da questi ad un inglese, tale Briano Fairfax, capitano di bastimento, venne portata da quest'ultimo in Inghilterra e data ad illustrare al dotto Michel Maittaire, che la editò a Londra nel 1736.
Nel frattempo in Italia le due lamine opistografiche di bronzo giunsero in possesso del cavalier Carlo Guevara e vennero acquistate dal Real Museo di Ercolano, che ne commissionò l'interpretazione al canonico Alessio Simmaco Mazzocchi, il quale pubblicò le iscrizioni delle Tavole di Heraclea, commentandole, nel 1754. Tornando al viaggio del Craven, occorrerà annotare, inoltre, che il suo itinerario in terra lucana si svolse anche lungo la "strada che serpeggia i più intricati recessi della foresta di Policoro".
Nell'attraversarla, riecheggiavano nella sua mente i versi del Tasso e dell'Ariosto, mentre la memoria riandava alle foreste inglesi dei "climi più freddi", scorgendo "alberi d'alto fusto maestosi" ed un "denso sottobosco". con arbusti tipici del Sud.
"Il lentischio, il mirto, l'alloro, l'arbuto ed il timo mescolavano le varie tonalità di verde ravvivate da vivaci fiori di melograni selvatici o dai tenui colori degli oleandri, e, avviluppati in una rete di rampicanti in fiore, rose muschiate e viti selvatiche spandevano il loro profumo che sovrastava gli altri", ricorda il viaggiatore inglese.
Ai primi di ottobre del 1879 le terre di Policoro vennero attraversate anche dal professore di archeologia alla Biblioteca nazionale di Parigi ed alla Sorbonne, Francois Lenormant (n. 1837 m. 1883), che nuovo impulso diede agli studi sull'ellenismo.
Il Lenormant individuò sulla collina di Policoro "nel suo altipiano allungato, il sito archeologico dell'antica Heraclea". Dedicò nel primo volume della sua triade "La Grande Grèce", due intensi e partecipi capitoli alla storia antica di Heraclea e Siris, con significative annotazioni sul tema della vita e miseria rurale e sulla necessità di una riforma del regime proprietario e fondiario nelle terre del latifondo.
Vi sono contenuti, inoltre, cenni alla foresta di Policoro in cui esisteva "qualche capanna di carbonai".
A questa importante foresta planiziaria dislocata sulle sponde fluviali verso la foce del Sinni, sulla scorta della lettura delle pagine del Lenormant, sono dedicate, sul finire del secolo XIX, le vibranti memorie letterarie del romanziere inglese Gissing George (n. 1857 m. 1903).
In viaggio da Taranto a Crotone (dopo una sosta a Metaponto per una visita alle "Tavole dei Paladini", ovvero di Hera), Gissing attraverso in treno il bosco di Policoro verso la fine di novembre del 1897.
La memoria di questo viaggiatore era all'epoca "rivolta alla muta pace delle origini" da lui inseguita sulle rive dello Ionio, lontano dalla tumultuosa vita dei sobborghi londinesi.
Nella foresta di Policoro Gissing (al di là delle erronee supposizioni topografiche riferite a Siris e mutuate da altri), collocava "le pietre di Siris" e, dunque, l'espandersi sulla costa ionica dell'antica civiltà magnogreca.
La sua immaginazione si riaccendeva, così, sul piano letterario, in rinnovate visioni e sensazioni: "Al cader del crepuscolo oltrepassammo un tratto fittamente boscoso, che era abbastanza grande da potersi definire una foresta; i grandi alberi apparivano grigi per la vecchiaia e nella giungla del sottobosco (mirto e lentischio, corbezzolo e oleandri) erano stagni verdi, pozze profonde e opache, grigi rigagnoli. L'immaginazione subiva un fascino che era fatto per metà di paura; non avevo mai visto prima un bosco incantato. Nulla di umano poteva aggirarsi fra quelle ombre senza sentiero, vicino a quelle acque morte. Era l'ingresso al mondo degli spiriti: su questo bosco, contemplato sull'orlo del crepuscolo, gravava un silenzioso timore, quale Dante conobbe nella sua selva oscura (...). In qualche parte della foresta incantata, dove la vite selvatica si trascina da un albero all'altro, dove gli uccelli e le creature della solitudine paludosa frequentano la loro antica dimora, sono sepolte le pietre di Siris".


tratto da "BASILICATA REGIONE Notizie, 1994

Autore: Giuseppe Settembrino

 

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