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CALVELLO - LA PIAZZA

E' il centro del paese; è la cerniera su cui si aggira tutto il complesso cittadino; è il crocevia, ora allungato fino alle “chiuse”, per l’accesso ai rioni: Trinità, San Nicola, Piano, con diramazione a Sant’Antuono; tutti equidistanti e posti a raggiera.
Punto d’incontro di ogni attività, per l’incremento degli scambi e delle relazioni umane, il rione “Piazza” è sorto e si articola intorno alla Chiesa di San Giovanni Battista. Il suo sviluppo fu lento e condizionato dalla espansione degli altri rioni. E’ un insediamento misto di “chianaiuoli”, “santantonesi” e “sannicolesi” (La Trinità sorgerà più tardi). Assomma in se le doti e le qualità di questi rioni, ma con l’accentuazione di una mentalità basata su calcoli precisi, inconfessati ed esclusivistici; di relazioni umane più distaccate; di un portamento più freddo; di un avvertito senso di sufficienza e superiorità che li fa considerare una “elite”, soffusa di impalpabile pseudo cultura e sfumata distinzione. E’ gente d’affari che sa quel che vuole; tutta tesa a realizzare, costi quel che costi, i propri interessi e a raggiungere mete sempre più alte.
Dotata di forte intelligenza, lucida ed aperta, e di capacità non comune, sa resistere alle difficoltà reagendo con coraggio e perseveranza.
Il rione piazza si estende, lungo il suo asse centrale, da Piazza Sedile alle Chiuse. Gli uffici pubblici: municipio, pretura, scuole elementari, le poste, sono situati nel suo perimetro. E’ una “stazione” di arrivi e partenze degli autobus di linea. Negli immediati dintorni si svolgono: il mercato, i mercatini e le due fiere del 18 luglio e del 6 settembre.
E’ dotato di tre piazzali. ii più antico, denominato “Sedile”, perché su un muretto con gradino, giacevano sfaccendati oziosi e sonnolenti; è un triangolo più o meno equilatero. L’altro poco discosto, è un quadrilatero ricavato nei primissimi anni del secolo corrente, dall’abbattimento di casupole basse, intersecate, da vicoletti bui, stretti e maleodoranti, regno incontrastato di voraci roditori, abbandonate dai proprietari, emigrati nelle Americhe dal 1880 in poi. Erano fatiscenti e scoperchiate; ruderi sbrecciati e pericolanti. Il largo ottenuto si stende avanti alla facciata della Chiesa Parrocchiale, alla quale dona aria e luce, prospetto imponente e facile accesso. Fino allora si entrava nel Sacro Tempio per la porta laterale, ora murata per dar posto all’altare di San Giovanni.
Fino al 1931, nel bel mezzo del piazzale, un cannello posto al sommo di un rudimentale rialzo, versava acqua abbondante, a flusso continuo, in una capace vasca, sottostante. Più che una fontana era un lavatoio e abbeveratoio, ove i macellai del vicino terrano adibito a mattatoio, privo di ogni più elementare servizio, ora trasformato in abitazione, venivano a sfrattare le viscere degli animali mattati, spargendo nell’aria mefitici odori che appuzzavano tutto il dintorno. E quando ciò non accadeva, donne robuste e prosperose, dalle braccia tornite e muscolose come maschi, sciacquavano e strizzavano i panni, biancherie e stracci, alternando alla fatica canti e pettegolezzi, risate scoppiettanti e apprezzamenti.
Gli animali, allora assai numerosi, trovavano, tornando a sera dalla campagna o al mattino andandoci, un capace, e, per loro, comodo abbeveratoio.
Al fischio caratteristico dei conduttori, si approviggionavano di acqua fresca, lasciando in compenso abbondanti resti fetidi e fumanti, che rimanevano in rimanevano in loco, quale ornamento, fino all’essiccazione. Ma ciò che più aggravava le condizioni igieniche e di decoro, rendendole molto pesanti, era il mercato, da novembre a tutto febbraio, dei maiali ingrassati, con tutte le conseguenze che la loro presenza in piazza arrecava.
Il terzo piazzale, è nato recentemente. E’ legato agli altri due da un breve cordone ombelicale, detto pomposamente corso. E’ spazioso e ben sistemato, con a sinistra il palazzo comunale, una costruzione nuovissima non proprio piacevole, priva di qualsiasi motivo architettonico. Vi aveva sede la Pretura, e, a livello della piazza, ora le Poste, con al centro una larga “Hall”, ove si incontrano amici e conoscenti in attesa della distribuzione dei giornali e della corrispondenza. Di fronte sorge l’edificio scolastico delle elementari, un complesso piuttosto aggraziato e funzionale; le linee sono mosse ed esprimono qualche accenno di motivi architettonici di un certo interesse. E’ stato ricostruito dalle fondamenta con gusto e grazia piacevole. Sotto l’ampio porticato oltre all’entrata vi hanno posto un Bar e la farmacia, un corpo aggiunto nel prosieguo sarà adibito ad Ambulatorio.
Il polo di attrazione, un tempo posto nelle due piazze “Sedile” e avanti la Chiesa, ove la gente sostava prima e dopo la celebrazione dei sacri riti, rimbalzandosi notizie, pettegolezzi e apprezzamenti vari, con crudeli e implacabili sforbiciate che non risparmiavano nessuno, ora si è spostato sul piazzale antistante il Municipio (nominato Piazza Giovanni Falcone). E’ sempre affollato da pensionati e disoccupati; da giovani, per lo più in possesso di diplomi, tanto facili quanto inutili, sempre in attesa di un’occupazione e, da ragazze allergiche alle cure domestiche, mai sazie di mostrarsi, sempre in continua gara tra loro, sorda ed esasperata, in corsa per rendere al massimo prorompenti le abbondanti e generose “grazie”, più o meno vere, costrette a stento negli specifici contenitori, ma sempre col puntino dell”asterisco” ben visibile e lo spartiacque intravisto, mercé la generosa scollatura. Stanno seduti o sui gradini della minuscola villetta comunale o avanti al bar, o passeggiano su e giù senza sosta, occupati in critiche certamente non costruttive, o a discutere di facile politica da tavolini da caffè. Uno spettacolo variopinto, deludente e dispersivo, ove la cultura non è di casa, soffocata da leggerezze, flirts e futilità.
La gioventù calvellese splende di rara bellezza, statuaria e affascinante.
Riflette tutte le meravigliose ricchezze di questa terra privilegiata, nel suo cielo profondamente azzurro e nei suoi panorami distesi all’infinito.
I ragazzi aitanti, forti, marziali hanno lineamenti perfetti, colorito leggermente ambrato, capigliatura folta spesso fulva o castana o nera. Non si resiste ai lampi, che quali saette partono da quegli occhi neri e profondi.
Ricchi di fantasia, gioviali e sinceri, spirano profonda simpatia.
Le ragazze, flessuose e delicate, hanno visi dolcissimi, portamento regale, occhi sognanti. Le labbra di fuoco, sono tumide e delineano alla perfezione la bocca, pronta a cantare l’amore.
Sono “tanto gentili e tanto oneste” da assicurare al massimo quell’inviolabilità, ora tanto “rara”, soffusa di ardore e di attesa. Il corpo ben formato, ha proporzioni armoniose, e forme accuratamente modellate, rassodate, prorompenti: delizia e pena degli assetati d’amore. Sanno vestire con contenuta eleganza. Sono aperte, intelligenti, industriose.
Nei passeggi festivi e serali lungo il corso e per la nuova piazza antistante il Comune, sfarzosamente illuminata, stesa in un look di raffinata eleganza e, fino alla curva di Santa Maria Bertilla, le ragazze sciamano festose. La loro visione è fonte di gioia e dolcezza senza fine agli occhi. E’ il momento più bello e più atteso del giorno, quasi una pausa di riposo dopo il lavoro quotidiano. Gli affanni, le ansie e le preoccupazioni si dileguano allo spettacolo di tanta bellezza in movimento.
Ai tempi nei quali non v’erano né radio, né televisione e né altro svago per una vita meno monotona e stanca, il possesso della ragazza era l’unico bene sognato, agognato e perseguito: la gioia piena, atta a soddisfare il giovane.
I duelli rusticani per assicurarsi in esclusiva “le grazie della bella”, si effettuavano nelle radure dei campi o negli “nett” dei boschi, alla presenza o meno dei testimoni, ma quasi sempre della ragazza contesa, pronta a gettarsi tra le braccia del vincitore per una donazione totale, e correre dietro la spina per celebrare la vittoria, alla faccia del povero vinto, giacente dolorante sull’erba umida e costretto a sentire gli spasmodici sospiri incontenibili e frenetici dell’amore. I guanti di sfida che si scambiavano i contendenti del tutto particolari, pensiamo, creando, saranno stati i seguenti, o simili: “Lu furciedd è lu mio - la roncola la toia; Vidimminciell noi e doi”- oppure: “Cuncett vole sub a me! - Non metterti ‘n miezz tra essa e Me”.
Altra espressione più forte: “Vatt a fa f....sotto la spina - vole solo a me la Cuncettina.
A cui il rivale rispondeva: “Nun è lu vero! Tu si Bugiard - t’aggia a affett’ come a lu lard”.
La donna è certamente il dono più bello e più prezioso fatto dal Creatore all’uomo doborante per le vie difficili del mondo, perché la sua dolcezza, la sua beltà, l’amore immenso che ci dona sono l’unico vero conforto nella asprezza della vita; il solo rifugio sicuro nei pericoli, l’indispensabile aiuto nelle necessità. Purtroppo questo dono è stato il più delle volte strapazzato, sfruttato ed emarginato con il conseguente grave danno per l’armonia del creato. E’ necessario ritornare al più grande rispetto per sì grande, meravigliosa bellezza.
Gli amori e i flirts tra i giovani, come è nell’ordine naturale delle cose, sono numerosi, seppur nascosti, ma non tanto. Un tempo gli incontri erano difficili, a differenza del giorno d’oggi, per la strettissima vigilanza dei genitori e fratelli.
Pur tuttavia, come risulta dai registri di Battesimo, molti erano allora i neonati depositati sui sacrati o nei confessionali delle Chiese.
La “caduta” di una ragazza era la notizia -regina e il boccone prelibato per il pettegolezzo nei vicoli, per le vie e per le piazze, nelle famiglie e financo nelle Chiese durante le sacre funzioni, con sommessi scambi, accenni e ammiccamenti. Nasceva subito “la canzone”. Le storneliate immediate e feroci, rimbalzavano di campo in campo durante la sarchiatura dei seminati, la spigolatura nelle ristoppie, la vendemmia, la raccolta delle castagne. Folti gruppi di ragazze, allora impegnate in questi lavori, ora non più, si scambiavano, incrociandosi, messaggi e risposte con voce spiegata a tutto campo, che l’eco portava di giogo in giogo, di balzo in balzo tra i monti e le colline, i boschi e le radure, tutti attenti a cogliere intera “la notizia”. Ne trascriviamo un breve esempio “ad perpetuam rei memoriam”, così come pervenutaci tra i tanti, per il suo gusto amaro, seppur geniale; per la sua crudeltà, raffinatezza e spontaneità della composizione.
I nomi variavano a secondo le circostanze.
1) “Cuncettina va a la giardin -'dov’ l’aspett’ cumpò Rucch in’ Cuncettinana=Cuncettina com ‘hai là!
2) “Siti iuti a la massaria- avit’ fatt’ la fessaria Cuncettina-na =Cuncettina com ‘hai là!
3) “Quann’ camm in’ fai tutta rossa - te s’è fatt’ la panza gross’ Cuncettina- na-Cuncettina-na com’ hai là!
4) “Nun t’è servut’ lu putrusin’ - e manc’ l’erba cavallina. Cuncettina-na = Cuncettina com’ hai là!
5) “Si iuta pur da la mamman’ - E si turnat’ chien’ e san’. Cuncettina-na = Cuncettina com’ hai là!
6) “A nov’ mis’ nu criatur’ - te l’hai tenè p’ crepatur’ Cuncettina - na = Cuncettina com’ hai là!
7) “Cumpà Rucchin’ se n’è iut’ - e tisi mis’ cu nu curnut’ Cuncettina - na = Cuncettina com ‘hai là!
8) “Pur lu curnut’ t’ha lassat’ - E mò tu sì n ‘abbandunat’ Cuncettina - na = Cuncettina com’ hai là!
Fortunatamente tutto questo non c’è più! Ora non si chiamano “cadute” perché questi episodi sono di ordinaria amministrazione.
D’altra parte le scienze chimiche e mediche sono tanto progredite da stendere un fittissimo velo che tutto nasconde. Comunque per allora e per oggi: “Oh tempora! oh mores!!
Dopo aver ricordato, per doverosa esattezza, anche se al negativo, alcuni aspetti del costume calvellese, riteniamo di servire la verità storica riportando, a dimostrazione della forza e decisione di carattere, della fierezza e coraggio di spirito delle donne calvellesi, un episodio emblematico, fra i tanti che si registrano.
Quando si trattò di resistere alle angherie del potere dispotico del Reame delle Due Sicilie, feroce sfruttatore e insaziabile divoratore delle sostanze del popolo, le donne sostennero valorosamente, là dove gli uomini non erano riusciti, le insurrezioni popolari, piegando con la loro irruenza la forza militare asserragliata nel Castello, sede della Corte marziale permanente. Il maniero fu espugnato e i detenuti liberati.
La fierezza e la determinazione delle donne di allora, le riscontriamo in quelle di oggi, sempre attente e vigili a salvaguardare la dignità famigliare, i valori della Religione e delle libertà sociali.
Come già detto, l’edificio più interessante del rione è la Chiesa Parrocchiale di San Giovanni Battista. Fu edificato agli albori dei ‘400, quando l’intero complesso abitativo calvellese era nel pieno sviluppo socio-economico e artistico culturale..
Se ne avverti il bisogno perché l’abbazia benedettina era in completo abbandono e la Chiesa di Santa Maria de Piano caduta.
Rovinò la prima volta coi terremoto del 1646; e la ricostruzione fu lenta e sofferta. Fu riaperta al culto il 1717. E’ di stile romanico lucano, ed è a croce latina, articolata in tre navate, sorrette da robuste e grosse colonne in S. Antonio di Padova, restaurata di recente è di scuola spagnola, autore ignoto, è oggetto di studio muratura. L’abside o catino, illuminata da un grosso finestrone, che attende ancora i vestri istoriati, offre al visitatore un aspetto d’insieme solenne ed armonico.
Dalla confluenza dei bracci della croce si innalza una cupola possente, e insieme snella, che dona all’intera struttura del Tempio una maestosità basilicale.
Una ininterrotta teoria di cornicioni si rincorre e si snoda lunga tutto il perimetro, in una progressione di motivi di linee che offrono all’occhio un aspetto armonico di prospettive in movimento, come all’infinito.
Una imponente scalinata in marmo, con al sommo una ricca bluastra in marmo policromo, che ripete negli archetti i motivi architettonici del tempo, porta al presbiterio, ampio, spazioso e funzionale, ben in vista, con un altare marmoreo di notevole pregio, a sua volta sormontato da una grossa croce.
La sacrestia, già altare del SS.mo Sacramento, è spaziosa, con un balcone-loggia che la inonda di aria e di luce e che si affaccia sul fiume “La Terra”, di fronte al “Timpo del Castagno”, al “Volturino”, alla “Serra di Marsico’. Al di sopra del bancone, che ha occupato il posto dell’altare del Sacramento, campeggia, incorniciata di marmo, una grossa tela raffigurante l’ultima cena.
Ha un notevole valore artistico, e la si colloca a mezzo del ‘600. Non se ne conosce l’autore. Essa merita tuttavia un attento esame, per la delicata distribuzione dei colori, vivi, caldi, delicati. La scena è movimentata.
L’espressione dei visi degli apostoli denota chiaramente la vivacità della discussione nella quale sono impegnati: mentre il Maestro, paziente, esprime una dolcezza infinita, pur di fronte al tradimento di Giuda, il cui volto è torvo e nero, atteggiato al sarcasmo e all’ingratitudine. La tela riproduce uno spettacolo veramente impressionante, in tutta la sua drammaticità, sconvolgente e paurosa.
Alle pareti sono sistemate altre tre tele: un Sant’Antonio di Padova del ‘600, notevole per la vivacità dei colori, ma alquanto manierato negli atteggiamenti, comunque di buona mano; denota nell’autore ignoto, un animo assai sensibile; un San Gennaro, in atteggiamento di estasi, con l’ampolla del sangue in una mano e l’espressione classica del viso; la terza tela è assai compromessa, tanto che si stenta a identificare il personaggio raffigurato: forse si tratta della Veronica. Da un attento esame di tutto l’insieme, deve trattarsi di un’opera del ‘400; infatti, malgrado il forte degrado, si notano sfumature particolari ben curate e sprazzi di colori vivi e caldi. E’ stata restaurata recentemente con non molta fortuna, non si è riusciti,infatti, a decifrare granché e i dubbi restano.
Nell’interno del Sacro Tempio si conservano altre pregevoli opere d’arte.
Una tela raffigurante San Giovanni Battista, giovane; è di scuola napoletana, la si data al pieno ‘600. Ha una forte espressione ed è anatomicamente perfetta.
Lo sfondo è luminoso; i colori intonati, sfumati, delicati e vivi.
Sulla parete della sacrestia troneggia, nella sua inconfondibile bellezza, un meraviglioso dipinto, certamente il più prezioso che si abbia a Calvello: la Madonna di Costantinopoli. E’ un’opera classica del ‘500, della migliore scuola fiorentina. Ha un volto dolcissimo, materno, profondo; non ci si stanca a guardarla. Ha un sorriso che affascina. I lineamenti del viso sono perfetti e gli occhi, dallo sguardo incantevole, infondono pace e suscitano tenerezza e commozione.
Tra le sculture lignee vanno annoverate:
1) la Vergine SS.ma della Pietà, opera del ‘400. Una mano espertissima ha raffigurato la Madre di Dio, con il Figlio morto in grembo, in un dolore profondo, ma pacato e sereno. Il volto scavato è segnato da rughe che incidono e segnano le carni; gli occhi lacrimanti, contemplano, stanchi ed arrossati, il Figlio irrigidito dal freddo della morte.
2) Un San Giovanni Battista, dal viso scavato di asceta, immerso nella contemplazione; la sua figura è forte, la mano robusta, segnata da grosse vene, impugna il vincastro, ed ha accanto l’Agnello. L’opera è attribuita ad un artista sconosciuto del ‘500.
3) Un Cristo crocifisso a grandezza naturale, posto in una nicchia marmorea, modellata a croce; è una scultura di rara bellezza del ‘700 e dalla espressione intensa. L’acuto strazio delle carni martoriate, lo spasimo dell’agonia, lenta e penosa, e il lancinante, profondo dolore, sono visibili nell’atteggiamento del capo rivolto verso l’alto, come in un’invocazione disperata d’aiuto. E’ un’amarezza acerba e crudele, ma soffusa e calmata dalla rassegnazione. I muscoli sono tesi in uno sforzo disperato di resistenza, e in un vano tentativo di liberazione, mentre il sangue imporpora le carni straziate.
L’umanità del Figlio di Maria, martoriata e vilipesa e su cui si sono sfogati i più bassi istinti della cattiveria, soffoca la visione della divinità.
L’artista ha voluto accentuare l’aspetto umano dell’ultimo atto della vita terrena del Redentore, piombato nella solitudine e nell’abbandono, ispirandosi ad una delle ultime parole del Crocifisso: “Mio Dio, mio Dio! Perché mi hai abbandonato?”.
Sottostante la mensa dell’altare, lo stesso autore ha scolpito il Redentore schiodato dalla croce e in posizione di riposo, col volto disteso e rassegnato, come in attesa del risveglio. Sembra sprofondato in un sonno ristoratore, dopo tanto patire.
4) Un ambone, sistemato su una grossa colonna della crociera; è un delicato lavoro di un artigiano locale, scomparso da poco. Si notano vivace fantasia nella concezione e attenta cura nelle rifiniture. E’ certamente un bel pezzo di un artigianato che agonizza per i pochi che vi si dedicano, e la perdita dei segreti dell’arte, che i padri tramandavano ai figli. E’ datato 1902.
Tra le sculture in pietra e in marmo sono di notevole interesse:
1) un altare del ‘400, proveniente dall’ex cripta, ora sistemato nel cappellone di San Michele, ha marmi pregiati, artisticamente ben lavorati;
2) una pila per acqua santa, in pietra locale con al centro della vasca una testa demoniaca cornuta; è opera di artista molto esperto per i fregi scolpiti con rara maestria. E’ datata 1694;
3) un’altra grossa vasca, pure in pietra, estremamente semplice e priva di qualsiasi disegno, ad eccezione di una croce e della data: 1614. Era adibita a fonte battesimale fino a pochi anni fa.
Ora è stata destinata ad una seconda acquasantiera; mentre per l’amministrazione del Sacramento del Battesimo si è provveduto con un moderno fonte in marmo di Carrara, che porta l’iscrizione in acrostico: “HINC DE BONIS CHRISTI DITAMUR”.
Il prospetto della facciata esterna del tempio è segnata da tre porte, di cui quella centrale ha un portale in marmo e al sommo una nicchia vuota, che attende da sempre una statua, o un bassorilievo, o un quadro. Il lato nord è ad archi. Il più grande serviva da ingresso laterale, ora murato, ed ha conservato un prezioso portale del ‘400, con al sommo dell’architrave l’iscrizione: “Fuit homo missus a Deo, cui nomen erat ioannes.
Il terremoto del 16/12/1857 provocò gravissimi danni al sacro edificio e ci vollero molti anni per la ricostruzione. Una pietra trovata sotto il pavimento, in occasione della sua rifazione, porta le seguenti parole che ricordano nel simpatico dialetto calvellese, le vicende del tempio:”1857 CARI LA CHIESA SE COMINGIO’ 1862 SE FINI’ 1895 DIRETTORE GIOVANNI VITACCA E FIGLI FECE”.
Ecco come il parroco del tempo, Don Michele Perilli, annotò nel registro dei morti la terribile sciagura: “Una duplice terribile scossa terrestre avvenuta alle ore 5,00 della notte del 16/12/57 adeguava al suolo con due terze parti dei fabbricati di questo paese anche la Chiesa Parrocchiale ed i monasteri dei Minori Osservanti e delle Teresiane, lasciando il resto dell’abitato quasi tutto crollante; e quegli infelici che uscirono dalle case dopo la prima scossa fatale furono per lo più vittime delle pietre.
La Chiesa fu rifatta, ma non sulle vecchia fondamenta, almeno per una buona parte. Si notano lievi asimmetrie. Fu riaperta al culto il 1896. Purtroppo il sisma deI 23/11/1980 l’ha di nuovo gravemente danneggiata nelle sue strutture portanti. E’ stata consolidata e riaperta al culto. Ora con la ripresa dei lavori si avvia al termine di quanto programmato: la rifazione del pavimento, il ripristino dell’organo, la revisione dell’impianto elettrico e la messa a punto di tutto il sacro edificio.
Abbiamo ricordato, nelle pagine precedenti, le tante Chiese e Cappelle tuttora esistenti: sono 13, ma Calvello è sempre stata molto ricca di edifici sacri, eretti dalla generosità del popolo. Basti ricordare che nel 1543, come annotato nella pubblicazione di P. Antonio Grillo: “Acerenza e Matera - La visita pastorale della Diocesi esistevano le Chiese di: S. Sebastiano - Santa Sofia - Sant’Angelo - l’Annunciata - Santa Lucia - San Zaccaria, già allora diroccata - Sant’Elia, pure rovinata - San Domenico, ridotta a rudere - San Michele e la Parrocchiale di San Giovanni Battista, officiate da: undici sacerdoti - due diaconi - tre suddiaconi - e undici chierici.
Da questo piccolo cenno tramandatoci dalla cronaca, l’umile ancella della storia, si rafforza la certezza della caratterizzazione fortemente religiosa della popolazione, e della sua apertura mentale e maturazione culturale e artistica.
Ma volendo scandagliare in profondità, per una conoscenza la più completa possibile del popolo calvellese, cosa assai difficile, bisogna dividerne la storia in tre lunghi periodi.
Il primo si estende fino al 1500 circa; é il più fecondo per lo sviluppo della cittadina, impegnata in una intensa attività di ogni campo: dall’agricoltura all’edilizia, dal disboscamento della contrada S. Pietro all’artigianato, alle arti nobili della pittura, scultura e all’allevamento del bestiame, in un crescendo culturale notevole. Il carattere specifico del calvellese si manifesta particolarmente nella Religione, con le numerose costruzioni di chiese, nella libertà con la resistenza alle soperchierie del potere centrale, le continue ribellioni ai soprusi e nello spirito di accentuata indipendenza.
Il secondo periodo si ferma alla fine del 1700, alla vigilia, cioè, dei moti per la libertà dei popoli. Si consolidano le attività e si raffinano le arti; si allarga sempre più la mentalità e splende di benessere per le accresciute ricchezze. La gente è notevolmente recettiva per le novità che incalzano, è gioviale ed estroversa, cresce culturalmente e guarda oltre la ristretta cerchia delle montagne, è intraprendente, ansiosa di conoscere e di comunicare con gli altri popoli. E’ coraggiosa e non si arresta di fronte alle difficoltà. Il termometro del progresso in tutti i campi sale sempre.
Il terzo periodo ci porta fino ai nostri giorni con una sottodivisione netta e precisa: il secolo XIX e il XX. Entrambi si connotano, in raffronto col passato, in un lento, continuo e sempre più accentuato cambiamento radicale e profondo.
L’800 è in uno stato febbrile molto alto. Il fuoco acceso dalla Rivoluzione francese divampa per tutta l’Europa. Calvello, sensibilissima a tutto quanto sa di liberazione dall’oppressione, dai privilegi e da ogni schiavitù palese o nascosta, è all’avanguardia. Diventa sede di associazioni rivoluzionarie e di cospiratori che vi accorrano da ogni parte, si congiura finanche nelle chiese!
Il potere centrale è particolarmente preoccupato di questo popolo. La cultura però subisce un arresto e non si riprenderà più, come vedremo, perché ora i problemi che incombono sono: l’abbattimento del dispotismo borbonico, la conquista di tutte le libertà e l’unità politica della Penisola. Attraverso lotte e sacrifici gli intenti saranno raggiunti, ma l’unità d’Italia delude amaramente: il mezzogiorno è abbandonato e sfruttato. I nuovi reggitori non sono apportatori di progresso. Da veri furfanti convogliano tutto verso il nord-ovest della Penisola. La popolazione scappa verso le Americhe in cerca si quel benessere promesso e non mantenuto. La “nuova Italia” ci ha mortificati, distrutti e impoveriti.
A Calvello, con l’assottigliamento degli abitanti, ridotti a poco più di 3000 anime, il ristagno della vita economica è tanto sensibile da lambire la povertà, appena lenita dalle rimesse degli emigrati. Ciò che più impressiona è l’abbattimento di una mentalità, prima tanto aperta e che ora si chiude in se stessa. Si soffoca per mancanza di ossigeno: l’ossigeno della cultura, dell’ansia del bello, dell’arte, dell’amore. Si ansima e si brancola sempre più nell’incertezza, chiusi e accerchiati da un orizzonte che le montagne restringono, vietandone il varco.
Il XX° secolo invece, caratterizzato da avvenimenti eccezionali per le due guerre mondiali, per il dispotismo nazi-fascista, i progressi e le conquiste della scienza continui e incalzanti quasi miracolistici, è pur esso inquieto e in cerca di punti di riferimento fermi e sicuri. Malgrado il benessere diffuso, regna l’incertezza e l’insoddisfazione. I costumi si degradano e i valori sono declassati da un materialismo che scende sempre più in basso.
Secondo le opinioni e le valutazioni prevalenti, non del tutto condivise dall’autore, in questo secolo Calvello ha subito un radicale cambiamento caratteriale, purtroppo in negativo, dovuto a molteplici ragioni, anche se nel complesso la sua vita si è svolta alla stregua di quella nazionale.
Si ritiene che gli uomini, frustrati per la mancanza del lavoro, ora sono più introversi e asociali, caparbi e cocciuti, difficili al dialogo e restii ad ogni apertura con gli altri. Il ventennio fascista, con l’autarchia e le carnevalate, deluse le aspettative conclamate e precipitava nel pantano della verbosità vuota, sfacciata e sciocca.
Ma fin da allora affiorava, come anche oggi, una netta differenza tra il sesso maschile, rozzo, per “la cap’ a iasc’ o a iascon” (testardi)-(termini non condivisi dall’autore), e le donne eccellenti non solo per la bellezza fisica, davvero eccezionale, ma per un grado di apertura mentale notevole. Non parliamo delle donne in possesso di titoli di studio superiori, oggi così facili a conseguirsi e che non operano alcun cambiamento negli individui, se si eccettua un comportamento di sufficienza e di notevole ignoranza anche nella disciplina studiata, ma delle casalinghe che se hanno studiato sono più colte e preparate.
Hanno un intuito più raffinato, maggiore capacità nel risolvere i problemi e adeguato adattamento alle diverse circostanze. Questa realtà riveste una notevole importanza, perché vediamo il prolificarsi di figuri presuntuosi, orecchianti; di cultura approssimativa e nozionistica. Li incontriamo in tutte le discipline: dalla letteratura alla storia, alla poesia, fatta di versi scazonti, non spontanei, il più delle volte plagiati, ed orientati verso altri lidi, con sconfinamenti azzardati: all’arte pittorica o scultorea che sia, fatta di infantilismo e di confusione.
Purtroppo non c’è più la sensibilità dei padri che dotarono le nostre chiese di tesori d’arte che noi oggi ammiriamo e apprezziamo, invece, abbiamo poetastri e verseggiatori, imbrattatele e modellatori ingenui, incerti e incompetenti, cui si attribuisce una rinomanza del tutto immeritata che li gonfia , come palloni, pronti a sgonfiarsi di fronte a persone veramente all’altezza di soppesare la nullità di questi falsi artisti o pseudi letterati.
Lo scenario come si vede non è dei più belli. Tuttavia ci sembra di vedere un cambiamento di tendenza. Le prospettive che si intravedono all’orizzonte del prossimo terzo millennio appaiono illuminate dalle luci dell’aurora che annunzia un giorno luminoso, di opere belle, ricche e degne “della storia, dell’arte e delle tradizioni” dei nostri padri.


da: "Calvello - storia, arte, tradizioni"
di Luigi De Bonis
su autorizzazione dell'autore

Autore: Luigi De Bonis

 

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