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Nicola Sole - da: La Basilicata nel Mondo - 1934 / 1937

Tempo fa, tornando in questa mia terra natale, attraversavo in ferrovia quel tratto monotono e desolato, immenso e sconfinato con un mare, che va da Taranto a Metaponto. Sulle acque dell’ Ionio, leggermente increspate, io vedevo, coll’anima, un piccolo vascello da cui un giovane spingeva malinconicamente lo sguardo al lido. Pensavo a Nicola Sole, il più simpatico, forse, dei nostri poeti moderni. Nato in Senise (Basilicata) il 31 marzo 1821, ivi morì la sera dell’11 dicembre 1859. Bastano queste due date a dire in quali tempi egli Sia mai vissuto. Leggendo i suoi canti, pubblicati per sottoscrizione cittadina (Canti di Nicola Sole, con prefazione di B. Zumbini, Successori Le Monnier. Firenze), io ho sentita l’anima del popolo italiano in quei giorni d’alternativa fra la speranza e lo sconforto.

Non arriccino il naso gl’ ipercritici letterari, avvezzi a volumetti dalle tinte civettuole, zeppi di versi più o meno decadenti, impomatati e incipriati, roboanti e vuoti, che fan pensare ai tempi dell’Arcadia e fra cui la poesia onesta — io penso a te, mio bravo Lanzaleone — è giudicata antichità da museo. i canti del Sole son poesia che non muore. Immaginoso e fluente come il Monti ha, talora, l’ardimento del Berchet e del Rossetti, la fervida preghiera del Manzoni, la torva malinconica del Foscolo, sì che ti par, talvolta, di coglierlo in contraddizione, mentre ti trovi dinanzi ai diversi momenti psicologici che nell’anima sua determinano la contemplazione del mondo, Non c’è avvenimento che non accenda la sua fantasia, ed il De Sanctis fu per questo troppo severo con lui, negandogli un contenuto e una forma d’arte sua propria.

Opinione non condivisa dallo Zumbini, il quale, dopo aver fatto notare che, parte dei più sublimi componimenti, dalle Odi pindariche al Cinque maggio, sono poesie d’occasione, aggiungeva che a voler applicare i criteri qui tenuti dal De Sanctis, molti di quei poeti non sommi, ma sempre insigni che, senza arricchire di nuove immortali creazioni il regno dell’ arte, poterono e seguono a potere non poco sul cuore degli uomini , perderebbero parte del loro pregio. Pure il fondatore della critica estetica italiana dovette affermare, vinta la teoretica severità, che il Sole ha brani di vera e nuova poesia.

Certo egli fu il maggiore dei poeti meridionali allora viventi, ed in questo giudizio convergono lo Zumbini e lo Zanella.



***



Il Sole amò fortemente l'Italia e questo amore, che non lo abbandona mai, fa capolino in ogni componimento. I versi Ai Siciliani che, sollevatisi in armi, par vogliano distaccarsi da Napoli, la poesia La guerra, scritta nel marzo 1848 e le ottave Sulla tomba di Alessandro Poerio sono calde di questo affetto che io spinse fino al rimprovero. Sentite infatti quali parole la invocata ombra di Poerio rivolge agl’ italiani, che gli innalzano un sepolcro e non pensano a rendere libera la terra ov’egli dorme:



Pria che venga il Tedesco e l’ impudico

Femmineo amplesso e il vostro accaar riceva

Abbattete quest’ urna; ond’ei nemico

Non vi si segga, ed irrisor si beva



Queste parole che a qualcuno parranno oggi una figura retorica, le scriveva chi dovette trovarsi in Napoli in quell’orrenda giornata del 15 maggio 1848, fra le barricate su cui Luigi La Vista a 22 anni cadeva da eroe per la libertà della patria !

Pari, se non più intenso, fu l’affetto che il Sole nutri per la sua Terra Natale, ove 1’ ispirazione era più calda e da cui molte volte prende le mosse per assurgere agli alti concetti dell’arte e della patria. Le balze e i divi, i monti e le pianure, le albe ed i crepuscoli, le glorie e le sventure, tutto cantò con tale vividczza d’immagini e di colore che ti par, leggendo, di contemplare questi sublimi paesaggi della Lucania.

Nel dicembre 1857 il terremoto vi portò la rovina e la morte. Egli commosso, lo cantò con vigore dantesco (Zanella). Sentite quanto fervore nella preghiera invocante la clemenza al Cielo (Pe1 tremuoto in Lucania, Salmo):



Tu, Celeste Bambin, che, se li tocchi

Fumano i monti e tremano prostrati

Quasi mansi arieti ai tuoi ginocchi !...

Tu volgi alle mie valli i tuoi rinati

Sguardi ! che in essi la zampogna è muta,

Che i tuoi santi lenia sonni beati

La verginciia che venia vestuta

De’ suoi veli festivi ai tuo fienile

Fra le orrende macerie andò perduta !

Che pietà desolata e quanto affanno

Su le capanne incomberà domani!

Quanto silenzio al tuo natal quest’ anno

Signore! I tuoi potenti occhi sovrani

Su le mie valli fulminate inchina,

E più lucenti i delubri lucani,

Risorgeran da la fatal ruina!



Ma non indugerò sui componimenti d’occasione, che pur hanno un alto pregio letterario per contenuto o per la struttura dei verso (Pel filo elettrico dei due mondi — Pensieri sulla eloquenza delforo penale — Addio, Giuseppe Verdi — Epistola a Giuseppe De Blasiis, ecc...); non sugli idilii, in cui la delicatezza del sentimento e delle immagini raggiunge talora effetti altissimi (Le due madri — La fanciulla e l’artista, ecc) e tanto meno su quelli d’indole religiosa (L’ Immacolata — Il Carmelo — Il Cantico dei Cantici) che sono meno riusciti.

Basterà accennare all’Inno all’Ionio per ricordare degnamente il poeta. Quale alta intonazione in questa poesia che è l’apoteosi della Lucania e che io giudico la migliore del volume! Se alcuno me l’avesse letta senza indicarmene l’autore, io avrei pensato a qualche componimento inedito del Foscolo, scritto durante chi sa quale ignorata escursione in Basilicata. Il Sole amò il cantore delle Grazie, col quale ebbe comune l’ammirazione e l’affetto per la Grecia (V. Epistola a Giuseppe De Blasiis) e cercò, forse, in lui 1’intonazione per cantare degnamente la terra che lo vide nascere.

Ma veniamo all’Inno.

Il poeta (come tempo fa a me parea vederlo su di una piccola nave) solca 1’Ionio e ne contempla il lido, su cui qua e là, come stelle, ardono i fuochi dei casaii. La sua fantasia si muove nei tempi di cui s’è perduta la memoria e chiede al mare quali regni egli mai coprisse prima che tonasse la voce che pose legge alle acque.



Immensa, arcana

~ de’ tempi la notte. Unica luce,

E dubbia, forse, che la rompa, è il grido

De le passate genti a le novelle

Genti creduto, o dei pensanti il guardo

Violator de la terra profonda.



Ma la notte dei tempi si rischiara, la storia gli viene in aiuto e i giorni gloriosi de la Magna Grecia gli passano dinanzi.



O Magna

Grecia, qui fosti! Questo mar fu specchio

A le tue scole cittadine, ai tuoi

Interrogati oracoli profondi,

Ai tuoi sonanti portici! Qui fosti,

Divin paese, unica gente!



E qui furono Metaponto ed Eraclea!

Qui Pitagora eterno i templi aperse dei rinnovati studi e qui venivano i discepoli e qui le donne, le gentili obliando opre e le danze, a meditar severamente sui marmi del suo liceo. Qui la civiltà e l’arte ebbero lo albergo, qui rifulse il latino valore, qui Pirro alla vittoria maledisse!

E il creato era una lira e le onde e le boscaglie gemean musica.



Or la spica e il lentisco occupa i seggi

Di quelle auree città: silenzioso

Volge il Bradano al mar l’onda romita.

Spesso il Lucano agricoltor, spezzando

Quei putridi novali, in elmi aperti

E in rotti brandi coll’aratro offende;

E spesso il solco riconduce al sole

Lapidi eterne, ove la man degli avi

Pose leggi immortali. Ove Eraclea

Stette, ombreggian le selve; e il cinghial scava

Fra le macerie e i lividi pantani

Discontinue colonne...

.e non un arbor vedi

Che d’ombra amica le pianure allegri,

Ove tu, Metaponto, un dì sedevi

De le tue ville suburbane al rezzo.

Despota il sole e inesorato incende

Quelle mute campagne, allor che infoca

Le fulve giubbe del Leon: non odi

Aura che spiri fra le secche ariste,

O gli spazi del mar, che fuman lenti,

Colla punta de l’ale agiti. Immoto,

Pestifero, affannoso acre si addensa

Per questo cielo solitario; i fiumi

Spiran la morte del villan, che, adusto

E risoluto nelle membra, indarno

I venticelli de l’aprii, le fresche

Rugiade del mattin, morendo, invoca!



Ma tutto risorgerà! Entro quei campi spunteranno di nuovo il cedro e l’olivo e 1’usignuolo ripeterà le sue melodie. Detersi e puri scorreranno i fiumi a fecondar campagne e ville e tu, o mare, accoglierai in festa le antenne dell’Adriatico e del Tirreno.



Senza vergogna la ventura prole~

E senza pianto guarderà le tue

Sponde, o Ionio sublime! A questi lochi

Trarrà soyente ad ispirarsi. E voi,

Adriache antenne, e voi, Tirrene, in festa

Approderete fra quest’acque, e fide

Concordi voci dalla ricca sponda

Vi accoglieran! Le grandi alme sublimi

Di Colombo e di Gioia alte pe’ mari

V’entreranno le vele, e a flovi liti

Vi guideranno, o gloriose navi

Messaggere d’ un mondo!...



E con questo vaticinio, il cui compimento sembra ancora molto lontano, 1’ inno finisce.

Ho qui dinanzi 1’Ionio e le sue pianure e scrivo sugli avanzi di chi sa quali grandezze! Tutto è silenzio intorno e il mugghio delle mucche, la voce stanca del bifolco, l’ansare affannoso del mare sembrano l’eco lontano delle passate genti. A tratti il fragore della locomotiva ne turba la quiete e sulle pianure corre un risveglio, che par quasi un accenno alle luminose e ricche età dell’avvenire. Oh! bisognerebbe che voi foste con me, o lettori, per sentire davvero i 545 versi di quest’Inno, che avrei voluto trascrivervi interamente!.

E finisco, lieto d’aver rinverdito un ricordo, più lieto ancora se mai avessi suscitato in qualcuno il desiderio di leggere questi Canti che costituiscono un legittimo orgoglio della Terra Lucana.



da: La Basilicata nel Mondo - 1934 / 1937

Autore: PIETRO MARRESE

 

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