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CALVELLO - LE ATTIVITA' OPERATIVE

Da tempo le attività operative dei calvellesi si sono incentrate nell’agricoltura, nella pastorizia e nell’artigianato.
I fertili terreni di San Pietro hanno riempito i granai di ottimi prodotti, e dato abbondanti succedanei diversi. Inoltre, a ridosso delle colline e per l’intera ‘Isca”, i vigneti, disposti in vasti e larghi filari, producono un vino dal sapore asprigno, sufficientemente robusto e, specialmente, profumato e gustoso.
L’artigianato si è da sempre articolato nella lavorazione della creta, un composto particolare ed esclusivo locale, un agglomerato unico per la produzione di manufatti di ogni genere, e segnati da impronte particolari e propri di questi prestigiosi artigiani. Il tutto veniva preparato nelle botteghe e laboratori a conduzione familiare, con torni rudimentali azionati a piede, quasi primitivi: dalla manipolazione della creta alla creazione dei modelli dalle decorazioni alla cottura nei forni a legna.
Mentre i padri e i figli lavoravano la materia prima, le donne pestavano la creta nei mortai, dosavano i componenti per la decorazione e dipingevano quell’uccello” che è rimasto la vera specialità di questi figoli, in uno alla delicatezza e sfumatura dei colori. Purtroppo quest’attività, i cui prodotti sono oggi rivalutati e ricercati, è quasi del tutto scomparsa; quel poco che ancora si produce non ha più la raffinatezza di un tempo. Gli artigiani si sono ridotti, attratti da guadagni più immediati e remunerativi, e con essi si sono perduti i segreti dell’arte.
E’, invece, in netta ripresa la pastorizia e l’allevamento degli animali, specialmente bovini, con la conseguente maggiore produzione casearia, laniera e di carne; anche se sono scomparse quelle attività collaterali dei vaccari e dei pastori, che nelle lunghe giornate all’aperto, o d’inverno nelle masserie, si dedicavano alla confezione di vari oggetti in legno, di vivace fantasia e di delicata fattura.
Oltre alla lavorazione della creta e alla produzione casearia, particolarmente nota quest’ultima per la squisita bontà dei caciocavalli e “mandeche” (butirri), fiorì fino al conflitto mondiale ‘15- ‘18 un artigianato vario e sempre raffinato, che impegnava molte forze produttive, con conseguente agiatezza, sicura e consistente. Si articolava in varie branche e si sminuzzava in specializzazioni diverse:
- i barilai (‘varricchiari”) soddisfacevano le richieste, anche esterne, di recipienti per la cantina e di uso domestico. Da ricordare le graziose “galette” e le capaci “garraf e” presenti in ogni famiglia; servivano per l’acqua potabile.
Mentre, le “iasche”, le “iaschette”, i “iascuncieddi” e gli “iascuni”, erano per il vino,che, se assunto da questi contenitori con l’aggiunta all’imboccata de ‘lu canniedd”, si vestiva di un profumo e di un sapore del tutto particolare, senza dimenticare il dolce solletico procurato all’ugola dal gorgogliare festoso e fresco della briosa bevanda.
Vanno ricordati gli scotellari (‘scut’ddari”) produttori di recipienti di solito rotondi, servivano per la custodia di frittate, peperoni e patate, cucinati all’uso “d’fori” e sposati con salsicce e soppressate. Consumati con avidità e conseguente accurata leccatura delle labbra e delle dita, all’ombra dei faggi e accanto al mormorio delle acque chiare e fresche di “Colantonio” o della “Pescatara” o della “Catarina”, sempre generose nel dare la giusta freschezza al vino, procuravano delizie al palato che i moderni contenitori non riusciranno più a darci.
I “forgiari’ (maniscalchi) provvedevano alla ferratura degli zoccoli degli asini, dei muli e cavalli, in numero assai notevole allora, quando la lavorazione dei campi era l’occupazione primaria, ad ‘azzariare” zappe, zappette e zapponi e ad arricchire e ornare i focolari di alari, camastre, “iataturi”, molle e palette per il fuoco. Fabbricavano anche i vomeri a punta, il mezzo primitivo per dissodare la terra, tirati dai bovi a “paricchi” o da stanchi asinelli e muli decrepiti..
I “chiovaruli” soddisfacevano le richieste dei calzolai, di “attacci”, nelle varie forme e grandezze e chiodi di ogni dimensione e per ogni uso della falegnameria.
Dai telai uscivano teli e coperte, dai disegni fantasiosi e dai colori sgargianti e accesi. Vi attendevano in particolare ragazze prosperose, in alternativa al ricamo o/e alla preparazione del corredo.
Mentre col tocco delle mani delicate e celeri azionavano i fusi e i vari ingranaggi, non tanto semplici, degli arcolai, si scambiavano tra loro scoppiettanti risate, maliziosi sorrisetti e apprezzamenti sui giovani, con conseguenti lunghi sospiri che scuotevano le “grazie” a ruota libera, e imporporavano le vellutate gote, mentre le labbra si aprivano, nell’attesa di baci pregustati nei sogni.
Era dolce soffermarsi ad ascoltare menie, stornelli e strambotti, rimbalzanti dai laboratori e che le voci argentine delle tessitrici, a volte melanconiche, a volte festose, spandevano nel cielo, sognando l’amore.
Fino al principio del secolo corrente, lungo la vallata dell”Isca”, si coltivava la canapa. Dopo il raccolto, veniva curata negli appositi stagni e poi battuta dai “capizzari”, lavoratori addetti alla scorticatura delle canne, e le cui fibre venivano affastellate dalle donne. Non si comprende come mai questa coltura sia scomparsa; eppure procurava buoni guadagni. Non molto numerosi, ma assai attivi, erano i tintori per la coloritura della canapa, che le donne scardavano e tessevano, come sopra detto.
Particolare rilievo merita la lavorazione della carne suina nelle forme tradizionali e intramontabili: salami, soppressate, pezzenti, filetti affumicati, estremità in salamoia. A tutt’oggi questi prodotti rappresentano una specialità calvellese, per lo squisito sapore, l’accurata confezione, la scrupolosa conservazione nella sugna, in vasetti e vesciche, e per la giusta stagionatura alle travi della cucina fumosa.
Il gusto particolare delle carni suine calvellesi è dovuta al fatto che gli animali crescono allo stato brado e si ingrassano con i frutti di querce (ghiande), cerri e farri, alle cui radici sostano in perpetuo, come in un vero Paradiso, fino al momento della mattazione.
Il maiale rappresenta una vera ricchezza per ogni famiglia. Il suo allevamento è assai diffuso, raccogliendone il frutto nei mesi invernali. Il maiale è così assurto all’onore del latino di raffinato gusto oraziano e stile classicheggiante.
L’interpretazione di quanto segue è agevole e alla portata di tutti, perciò, non vi è bisogno di trascriverne la traduzione, ne diamo un assaggio: “Porcus sordium imago ac luxsuriae
Lo si ritrae nella sua “sede “, quale moralizzatore, così: è un acrostico:
“Porcus in hara grundit,
os continuo exercens,
retro secernit stercora,
copiosa, male olenta.
Ut homo lutulentus
sine decoro ac mente”i
Viene celebrato anche come maestro:
“Grundit in hara porcus,
saetosus, lutulentus;
et sus Minervam docet,
ex cathedra paestilentiae.
Magis magisque homo
cogitat se esse doctus,
dum truculentus sedit
in sterquilino foedo, ignobilisque rudis “.
La tradizione dei padri ci ha lasciato per la cucina piatti particolari, delicati e gustosi: le varie paste, le minestre di verdure sparse, i minestroni di tanti prodotti della terra, dal grano al mais e ai vari prodotti succedanei. Il tutto insaporito dagli ottimi formaggi, sapientemente lavorati, stagionati e conservati.
Tra i mestieri, si direbbe più distinti, non vanno dimenticati: la falegnameria, l’ebanisteria e la lavorazione della pietra. Le prime ci hanno lasciato pregiate opere d’intaglio e d’intarsio, sparse anche nelle famiglie di semplici contadini, oltre che nelle Chiese e in edifici pubblici. Peccato che l’avidità di voraci antiquari, e la scarsa sensibilità dei proprietari, hanno depauperato tanta ricchezza. Gli altri, gli scalpellini, ora del tutto scomparsi, si sono immortalati nei meravigliosi portali delle vecchie case gentilizie, nelle due pile per l’acqua santa esistenti nella Chiesa parrocchiale: una datatal694 è di finissima fattura a fiori, con il mascherone (diavolo) al centro della vasca, a dar certezza al detto: “il diavolo e l’acqua santa”, e l’altra molto grande, in precedenza adibita a fonte battesimale, datata 1614 con altri sibillini segni, tuttora non decifrati.
Molto interessanti le pile della Chiesa di San Nicola e Santa Maria “de Plano”, da riportarsi entrambe al 1300; mentre la conchiglia per l’acqua benedetta del Santuario Monte Saraceno, porta impresso il nome dell’artista: Lapetina, è del 1857. Gli scalpellini fornivano alle famiglie i mortai (pisasale), nelle varie grandezze, finemente intagliati con fiori e simboli.
Si differenziano, invece, dai figoli (lavoratori della creta) i ceramisti. Questi da tempo scomparsi, ebbero vita breve, lasciando pochi ma significativi segni del loro passaggio. Nel palazzo dei De Porcellinis, ora degli eredi Di Trana, trovasi una vasta cucina ben conservata, maiolicata con disegni a fiori e con stemma del primo proprietario.Hanno una forte somiglianza con alcune mattonelle del pavimento del presbiterio di Santa Maria “de Plano”, ormai consunte quasi del tutto.
Ultimamente un antiquario di Faenza in giro di ricerche nel Teramano, ebbe da un collega quattro mattonelle 18x18, che composte a quadrato, riportano, sulla parte smaltata a disegno floreale, la scritta latina: “Combimus operam meam Giosuè Dell’Aquila di Calvello”.
L’Istituto nazionale della Ceramica le riporta al 1700 e provenienti dalla Lucania. Probabilmente la cucina dei Di Trana è opera di questo artista, trasferitosi a Volturino in Capitanata e di poi a Castelli e a Faenza. Da questa Città un signore chiedeva all’autore notizie di questo Giosuè Dell’Aquila, dal quale pensa di discendere. Purtroppo non è stata ritrovata nessuna notizia, e il tutto è avvolto in un fitto mistero.
Calvello, come un pò tutti i centri lucani è diminuita come popolazione, dissanguata dalle massicce emigrazioni e dalla forte denatalità. Dopo l’unità d’Italia vi fu il grande esodo verso le Americhe; gli abitanti si ridussero da circa 10000 anime a poco più di 3000; e quando sembrava riprendersi, ecco verificarsi un altro massiccio espatrio. Al termine della guerra 1939-45, la popolazione si è sparsa per l’Italia e all’estero, con le conseguenze di un radicale cambiamento di mentalità, di costumi, non sempre in meglio, e la perdita delle sane tradizioni dei padri.
Hanno concorso al depauperamento della popolazione ripetute sciagure naturali. Il paese è situato alle falde del Volturino, un antico vulcano spento nella notte dei tempi, ma che ha mantenuto un’attività interna, significata dalle acque sulfuree e ferruginose che sgorgano dalle sue viscere e dai giacimenti di ottimo petrolio, attualmente in corso di perforazione.
E’, perciò, una zona sismica. I vari movimenti tellurici che si sono succeduti nella sua storia, hanno lasciato tracce profonde, tuttora visibili. Si ricordano: i terremoti del 1646 che distrusse gran parte dell’abitato, compresa la Chiesa parrocchiale; quello del 16dicembre 1857 che causò circa 112 morti, rovinò buona parte del centro del paese e ancora una volta la Chiesa parrocchiale; e l’ultimo, che tutti ricordiamo, del 23/11/1980, del quale portiamo ancora i segni profondi di distruzione e di pene.
La vita cittadina, pertanto, si è appiattita in una linearità stanca e monotona, senza registrare alcuno sforzo concreto e di largo respiro, per un decollo di attività che investa le forze lavorative disponibili, per una più forte speranza, quale potrebbero essere la ripresa dell’artigianato, la lavorazione dei prodotti della pastorizia, del notevole patrimonio boschivo e del turismo, con la creazione delle infrastrutture necessarie.
L’emigrazione ha sì elevato il benessere economico dei lavoratori, ma questi hanno preferito stabilirsi fuori del paese natio, aggravando così l’inesorabile declino di ogni attività residua, con l’inarrestabile diminuzione della popolazione che, come risulta dai dati dell’ultimo censimento, si è ulteriormente assottigliata.
Occorre un impulso nuovo e deciso che scrosti gli strati di vecchiume e di inerzia, accumulati da troppo tempo, e ridia lucentezza di vedute, larghe aperture, coraggio e speranza, fagocitando le attività con iniziative nuove e concrete, investendo privati e associazioni, senza attendere interventi esterni o dall’alto, che non verranno mai.
Le forze giovanili aspettano di essere impegnate per la rinascita di Calvello così ricca di storia, di arte e di possibilità produttive, per le numerose ricchezze naturali di cui dispone.
Per tutto quanto sopra descritto, al momento della revisione della nostra storia, si intravedono buone prospettive di soluzione dei molti problemi. A parte la localizzazione nel nostro territorio di un vasto giacimento di petrolio di buona qualità, il nostro sguardo si rivolge all’opera di ricostruzione sapientemente attivata e che ha radicalmente trasformato l’aspetto dell’abitato, ora ripulito, abbellito ed espaso in un panorama largo e lucente.
Le abitazioni si sono dotate di ogni conforto, e il tono del viver calvellese si è elevato, con accentuazione di distinzione, ricercatezza e civetteria. Non mancano sulle facciate di alcune case distici antiiettatori, in un buon latino quale: “Nichil cornibus in adverso situ, pretiosius est; Nichil honore hic exelsius”.
Sono sorti, colmando una lacuna di sempre, luoghi per la ristorazione, locali di divertimento e svago, e circoli di cultura. Lo sport può usufruire di un campo regolamentare, atto alle diverse competizioni. Tuttavia, manca un locale capace e degno di ospitare opere teatrali e per riunioni in occasione di celebrazioni particolari. L’unico teatrino esistente, ma insufficiente, è posto nella ex cripta. E’capace di circa 100 posti a sedere e dispone di un palchetto sul cui proscenio campeggiano le scritte in un facile latino: “Inc De Bonis loqui necesse. Deumque laudare”. E: “Deo optimo nostro-lumen unum inter gentes illucescet - Cristus dominus- de Bonis omnibus, fons et origo”. Al lato destro del palco, vi è una grossa tela di autore ignoto; è del 1614, vi sono raffigurati Vescovi e Santi. Abbisogna di urgenti restauri.


da: "Calvello - storia, arte, tradizioni"
di Luigi De Bonis
su autorizzazione dell'autore

Autore: Luigi De Bonis

 

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