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LA SPIAGGIA DEL IONIO

PISTICCI

Agl’Italiani di oltre oceano.

Perché sono oggi venuto nella gaia e luminosa cittadina, ancora pervasa di vita greca, a violare con la mia indiscrezione, sfacciatamente, il mistero millenario della sua necropoli?

Alle volte, percorrendo le strade rettilinee dei quartieri popolari, tra le file di piccole e bianche case cuspidate, o traversando gli oliveti ombrosi e le vaste vigne, sotto l'incannucciata delle pergole e il tetto vegetale dei giganti carrubi, provo una sensazione di disagio.

Quale demone insonne mi spinge fra spiriti e forme della mia terra?

La rivedo sempre, come quando la salutai l’ultima volta ritornando in Calabria per completare le mie ricerche d’ arte e la contemplai al tramonto, dalla valle del Basento, languidamente distesa sui colli, mentre un velo di rosa avvolgeva il suo candore immacolato, e, dietro la Badia del Casale, il sole già lambiva l’onda ionica e ancora fiammeggiava la cuspide luccicante e verdognola della cupola.

Era l’ora sacra alla preghiera crepuscolare.

Ricercai la Badia ed il tremulo cipresso

Ma il treno era ormai fra le brulle calanche di San Teodoro, a pochi chilometri di distanza dai colonnati per i poteri immortali di Metaponto ellenica. Il mare, lontano, coronava di scie luminose la classica costa, come una sconfinata prateria di azzurro e di roseo, di bianco, di oro, cosparsa di malachite, di zaffiri, di topazii e di lapislazzuli frementi.

Mi ero allontanato di pochi chilometri e già sentivo un corruccio, un senso di nostalgia per la terra dai vasti orizzonti.

Pisticci, visione di sogno, sei al di fuori del mondo, candido rosaio su brulla balza dinanzi al regno azzurro del mare di Omero!



Memorie

Navigare coi primi miti seguendo la scia luminosa della nave di Ulisse.

L’ombra dei colonnati giganti di Metaponto, di Taranto, di Crotone è sacra pel cuore degli uomini. La bellezza di questo mare offre una violenta sensazione, che fa impallidire e tremare.

Il paese si profila con l'anfiteatro gigante dell’Appennino sul lontano orizzonte, confuso fra le terre mediterranee, da dove mosse la prima civiltà del mondo occidentale.

I primi eroi italici conducono la loro gente ad affacciarsi sui monti dalle coste per guardare il miracolo del mare e per sagomare il ceppo della razza ionica.

Il mare di Taranto, di Eraclea, di Sibari, di Cotrone, di Locri si anima delle prime vele elleniche.

Passano pochi secoli appena e la gente del nostro immediato orizzonte, a nord, si agita paurosa.

Roma si affaccia alla storia: Venosa dà a Roma il divin canto di Orazio, riscintillante fra le brunite strofe per mille vivacissimi raggi di luce greca. Ma la costa ionica non è soltanto materiata di miti: non è solamente intessuta di tradizioni: è un divin lembo del paesaggio italico ed è degna davvero dell’aspettazione che le pagine omeriche sanno suscitare.

Rovine severe e colossali, fantasie medioevali di ricami marmorei, paesaggi rudi di monti, ampissimi orizzonti limitati dal Ionio, nidi intimi ed odorosi di mare, amene gore montane coperte di selve. Non è questo il paese, su cui si riflette e risuona la divina bellezza della natura e del pensiero dell’Ellade? Da questo ambiente squisito spirituale non si eleva forse calma e serena la filosofia telesiana?



Visioni e paesaggi

Un paesaggio pensoso, solenne e vasto come la campagna romana ed il lito ravennate, “sembra conscio di ciò che avvenne in lui ,,. L’arco dell’ Appennino forma la gradinata gigante dell’anfiteatro, che circonda la pianura palustre limitata dal regno azzurro del mare di Omero.

Affiorano in basso, profondamente erose e scalzate dall’ impeto delle acque in piena, brulle e nude formazioni argillose; più a nord smottano, contorte e corrugate, come onde di mare in burrasca, più antiche formazioni calcaree; fitte stratificazioni di schisti siliciferi, prive del manto dei secolari faggi, erose e frastagliate, formano la corona più elevata del bacino. Le foci dei fiumi Bradano, Basento, Salandrella, Agri, come braccia azzurre si inoltrano in terre quasi l’acqua volesse trarre a sé la spiaggia silente ,, che il classico mare per millennii arricchì e fecondò; e la terra fatalmente si allunga per opera dei fiumi, che portano al mare enormi strati di fango, che stesi, sul terreno argilloso, potrebbero fecondare immense distese di campagne palustri. Spiaggia deserta e selvaggia per quanto spazia l’occhio.

Davanti alla pianura, nel cerchio immenso di montagne, spicca ad occidente il gruppo dentato del Pollino. L’ occhio spazia sovra un orizzonte vastissimo, che abbraccia le montagne calabre, i nodi montuosi della Basilicata, i colli gibbosi del Materano ed il lunato arco del golfo di Taranto.

Oltre la spiaggia, le isole Cherardi del Ionio, Taranto antica, possente nave d’Italia, sembra salpare verso una nuova via. Da un lato sfilano i tormentati picchi calcarei del basso Lagonegrese, del Pollino, dell’Alpe di Chiaromonte, candida e granitica fra nere giogaie boscose, il gigantesco Raparo, che nell’azzurro fa pompa della sua maestà.

Ad oriente, le aride groppe del torrente Gravina, le squallide ed incavate doline di Matera, di Montescaglioso di Palagiano e di Bernalda e tutta la pianura della Penisola Salentina, e gli ultimi declivii di Taranto, fino a perdita d’occhio si confondono lontano nell’ orizzonte come una fuga di città e di campagne sommerse.

Arco dei monti, dalle Murge di Matera alle dentate vette del Pollino, vigila la spiaggia e sta come altare di un culto. I ricordi delle antiche civiltà balzano più vivi fra così mirabile pompa di montagne e di lidi.



Dai colonnati di Metaponto ai ruderi d’ Eraclea

Ora è giusto un anno che, a compimento di un opera, alla quale avevo dato “ tutta la fede e l'energia che richiede l' ingrato lavoro di chi cimenta le proprie forze e logora la sua passione nella esaltazione della propria terra ,, potetti additare agli italiani i monumenti del piede d’Italia. Quel libro le città morte del Ionio: editore N. Zanichelli, Bologna - è l'affermazione orgogliosa della bellezza della terra classica.

Chi conosce ed apprezza questo paese, che è davanti alla scienza e alla storia e nelle braccia selvagge della natura un amante adorato, e serba gli arcani delle primavere mediterranee?

Lungo il classico lido i popoli premicenei ed ellenici elevarono i simulacri del lucido sogno dell’estetismo consapevole, è che doveva giungere a creare un impero. Perché nell’arte della Grecia e di Roma “con altre forme, con le forme figurate, continua la volontà di dominio che v’era già nel progenitore lontano, che visse nelle grotte neolitiche del torrente Gravina o nei villaggi palizzati delle terramare di Taranto e di Matera, intento pazientemente a preparare la sua arma di selce.

Ma pure qui trionfa un’arte, l’architettura periptera, che, per quanto affidata a elleniche mani, sembra sia espressa dal suolo in cui sorge, come se le sue fondamenta fossero avide e succose radici e che, quando tutto è distrutto all’ intorno, sovrasta con i suoi ruderi il deserto, come se questi fossero tenaci tronchi superstiti di un’ arsa foresta ,,. Tale è il tempio greco. “ Eretto nella solitudine marina, osserva A. Della Setane “ l'Italia antica ,, con una sola colonna superstite sul promontorio tempestoso, come a Crotone ,,, incastrato nella chiusa navata,, di un sacrario medioevale, come il tempio dorico di Taranto, “ spezzato nell’ampiezza ariosa di due ali,, come a Metaponto“ vastamente coricato e infranto ,, difronte al lago di S. Palagina, come il metapontino tempio d’Apollo (casa di Sansone), sono questi gli avanzi di una divina foresta di templi dorici ,,. La spiaggia della Magna Grecia desta un vero fascino sulla immaginazione, perché ha i monumenti, ha le memorie, ha l'arte, ha il segreto delle speranze immortali, ha l'austera bellezza della natura, ha tutto quello che esalta e rapisce l’anima umana. Le terrazze delle case di Pisticci sembrano palchi eretti dalla mano dell’uomo riconoscente, per ammirare lo spettacolo grandioso che Iddio offrì alle sue creature.

Che sia la pianura di Metaponto e di Eraclea nell’ora del tramonto quando la gigantesca scia azzurra del Ionio si dipinge di rosa, non c’è lingua che possa dire. E un incanto, un’estasi, un sogno, è un confuso viavai di immensi pensieri, un tumulto di memorie grandiose e di speranze arcane, in cui la mente si perde come nel mare lontano senza confini. La breve pianura frumentaria, che lo sguardo abbraccia senza fatica, è il punto più storico di tutto il mondo. E una solitudine di oliveti, di pianure frumentarie, di valli, di calanche nude e argillose, di monti curvi al silenzio ed alla morte. L’insidia sta celata negli stagni, dove le acque e le erbe imputridiscono sotto i giuncheti; l’aria umida fluttua densa nelle valli del Basento, della Salandrella, del Bradano, dell’ Agri e del Sinni (i fiumi che durante l'inverno dai monti della Basilicata portano al Ionio la poesia delle leggende e le acque delle nevi, e durante l’estate accolgono acque inerti e pigre, quando la malaria avvolge le masserie di San Basilio, di Metaponto, di Scanzano, e Policoro, prossime al mare). Il mare si batte la spiaggia e la bagna e la lava, canta l’inno dell’eterna giovinezza, si increspa in sorrisi infrenabili, si arruffa e sconvolge in fremiti di forza titanica, sempre salutifero e purificatore.

Una leggenda, traendo “ motivo dal ricordo della Scuola Italica e dall’insegnamento scientifico morale e civile compiuto dai fuggiaschi Crotoniati e da Pitagora nel tempio di Metaponto ,, che si erge con superba saldezza, tutto biancheggiante per la pietra tufacea, che è nella sua compagine, narra che i superbi colonnati del tempio di Cerere (o di Minerva?) siano stati ideati e costruiti da una stirpe di semidei o “ dagli eroi palatini, che, nel tempo dei tempi, venendo quaggiù a compiere le loro prodezze, tra una prodezza e l’altra, trovassero negli architravi di queste colonne la mensa più adatta alle loro gagliarde merende.

Così la leggenda commemora, al cospetto dei ventiquattro secoli che ci guardano dall’alto della bella rovina (osserva un geniale e dotto scrittore tarantino: Vito Forleo) il fondatore della Scuola italica, che andò incontro alla morte per la provocazione dei demagoghi ,,. Fino a pochi anni or sono, la purezza della linea architettonica trionfava nel tempietto metapontino d’Apollo Licio, che aveva una iscrizione greca ed aveva le colonne scanalate, i capitelli dorici, il sima adorno di teste leonine, ed il meandro geometrico sostenuto dalla cimasa di ritmo ionico. Ma per un recente terremoto la sua interezza andò perduta: e il colonnato rimane come uno scheletro informe ed enorme qua e là recante le orme del suo grande splendore. E accanto al sacrario, le mura tufacee, che chiudevano Metaponto roggia e fiorente, si elevano ancora presso il lago di Santa Palagina.

Dello stesso sepolcreto metapontino, nel museo di Potenza, sono conservate la cimasa policroma piatta del tempio di Cerere (Tavole Palatine), la cimasa scolpita del tempio di Apollo, le monete con la spiga matura, simbolo della pianura ionica, alcune maschere tragiche in terracotta, una stele funeraria, la statua di Apollo, che fino a pochi anni or sono serviva da paracarro nel cortile di una casa patrizia di Bernalda, un piatto con figure di pesci su fondo nero ed una statuetta tanagrina. Della nobile arte di Metaponto ellenica amo ricordare il tripode bronzeo scolpito raccolto nel museo di Berlino (illustrato nell’ opera “ monumenti dei Lincei VII - 1897 tavola VIII); i mosaici, evocanti la speranza con la melogranata, ed un giovinetto che getta gli strali al busto del Dio Mercurio, tratti dai rottami delle colonne Palatine, e conservati nel gabinetto delle medaglie del Louvre (illustrati dal Lenormant nella “ Grande Grece ,,) ; il cratere adorno dei segni dell’ alfabeto acheo (Museo di Taranto); le vivaci ciniase policrome e le anfore custodite nei musei di Taranto, di Napoli e nella casa del Barone Francesco Campagna in Napoli. Il mirabile e fastoso tripode bronzeo del Museo di Berlino è composto di tre esili aste adorne di palmette ioniche sostenute da ciampe di fiere, in alto, fra palmette e sotto archi, si delineano tre bufali simboli di un’altra città achea della costa: Sibari. Come coronamento del fastigio si elevano teste di cavallo e leoni genuflessi.

Tutto uno svolgersi di molti secoli di storia segna le rive meravigliose della solitaria città marinara che, con le colonie achee del litorale, provocò la distruzione di Siri Ionica e vide sostare lungo il suo classico lido le schiere di Pirro, d’Annibale, i ribelli di Sparti, ed i consoli romani Terenzio Varrone, Claudio Marcello e Fulvio Flacco.

Una visione di gloria e di sangue sorge davanti alla mente pensosa, che ritorna con la memoria agli antichi tempi: in questi luoghi le legioni di Roma fiaccarono per l’eternità lo spirito ellenico.



Eraclea

Dal folto della boscaglia e degli aranceti, a breve distanza del Pantano, si elevano gli umili abituri di Policoro, uscenti dagli amplessi della verdura come ombre di antichi misteri: bianche case cuspidate messe in linea e ben contornate di pini, all’ ombra del castello dei Berlingieri, che fu elevato contro i corsari saraceni.

Ivi, dalle tombe scoperchiate, tornano al sole le eleganti anfore che evocano il magistero della gloriosa arte di Zeusi, il pittore eracleota dalla bellezza, le cui grandi opere popolarono i templi di Crotone, di Girgenti, di Eraclea ed i teatri delle città della Grecia.

Il lido è sparso di rottami sperduti sulle onde del tempo e raccolti dalla terra; ed il vomero del bifolco urta ancora nelle ossa dei soldati di Pirro e delle legioni del console Valerio Lavinio, che combatterono tra l'Agri paludoso ed il Sinni. Tra il verde degli alberi, a pochi passi della Badia di Policoro (ove furono trovate le tavole bronzee, che portano incise le leggi dell’antica Eraclea — Museo Nazionale di Napoli — il capitello ionico e la scultura della fortuna conservate nel Museo di Potenza, le piramidette fittili raccolte nel Museo del marchese Lucifero di Crotone e le magnifiche monete argentee eracleote, che sono adorne della testa di Atena con elmo fregiato delle figurine di Scilla), i massi tufacei levigati e giganteschi delle mura di Eraclea sono sepolti per metà nel terreno e coperti da piante incolte. I ricordi di un dominio tramontato per sempre si confondono con le espressioni della più semplice vita boschereccia.



Siri

Pochi ulivi lungo il piano squallido e solatio... Fra le dune del Sinni echeggia ancora il canto mesto di Isabella Morra, celebrata da Angelo de Gubernatis, che “ ristampò le belle rime e rievocò la sua tragica fine nel castello di Favale, dove era stata relegata dai fratelli e crudelmente trucidata

Tra questi aspri costumi

Di gente irrazional, priva d’ ingegno

cantò la giovinetta sventurata, anticipando di qualche secolo il grido angoscioso del Leopardi contro il natio borgo selvaggio.

Solo dopo Montalbano, avvolta nel grandioso velo del suo verde per breve tratto della china montuosa, e vigilata dal ricordo di Francesco Lomonaco, - precursore del V unità italiana, scrittore celebrato da Alessandro Manzoni - i monti si levano sullo sfondo con le loro architetture spaziali ed aeree.

Quando i coloni achei distrussero Siri — - i cui piani frumentiferi furono decantati da Temistocle, che invitò i cittadini di Focea a ripopolare la città italica —-gli esuli siritini, portando seco 1’artistico simulacro della dea Minerva, quadro famoso nell’antichità, si recarono ad Eraclea e qui rinnovarono più deliziose le costumanze patrie.

Di Siri, — rivale di Sibari in opulenza, in ricchezze, in lusso, in mollezza — restano i ruderi tufacei del monte Capopola, le terme latine adorne di “opus reticulatum ,,, le pietre scolpite delle quali furono edificate le mura medioevali della torre eretta contro i Saraceni sui bassi piani: restano le lamine bronzee conservate nel Museo Britannico di Londra frammenti forse di corazze, adorne delle immagini di eroi in lotta con amazzoni ed il ricordo del martirio che santificò la metropoli grande e gloriosa. — Rimontando il Basento si incontrano Bernalda, ricca per commerci, Montescaglioso celebrata per la Badia normanna, Pisticci, Tricarico turista, colonie metapontine dalle cui tombe balzano splendide ceramiche attiche che sono raccolte nel Museo di Potenza - e San Mauro Forte, dove Vittorio de Cieco rinvenne, sopra una stele funeraria di elegante sagoma piramidale, una iscrizione arcaica del IV secolo avanti C.



La necropoli di Pisticci

Amore o lotta, tutta la gioia è nella vita: scialba parvenza è l’oltretomba.— Ulisse — osserva Aless. Della Seta nella poderosa opera “l’Italia antica ,, per compiere impresa arrischiata, scende nell’Ade e ne torna dopo aver ascoltato l’accorato lamento d’Achille, che - vale meglio essere in terra il servo di un uomo povero che il primo tra i morti. Solo una figura di pietà, chiusa nel suo manto, aveva infatti l'olimpo greco ed era la sconsolata - Demetra, la santissima madre, cui era stata rapita la figlia per farne la regina dell’Ade.

E intorno a sé, nelle vie luminose, Pisticci ellenica scopre le sue tombe, chiama i suoi dei e gli eroi dell’antica civiltà mediterranea.

Bianca sul suo colle argilloso, “ con la nota gaia della vita agreste che tutta la pervade ,, la piccola D’ante attica severa è il magnifico vaso a figure rosse, che rappresenta una giovine donna in piedi vestita di chitone pieghettato e d’himation (manto) aderente al flessuoso corpo - e in atto di porgere lo specchio ad una compagna, che è in atteggiamento di meraviglia, mentre un’altra donna s incammina verso sinistra, volgendo il capo indietro per guardare le amiche. I volti pieni di espressione recano

l’impronta della mano febbrile d’un artista e toccano la più alta espressione della vita.

Un’hidnia a figure rosse, orlata di ovoli e di palmette, evoca Peleo, che, coperto da clamide svolazzante aperta sul fianco e fermata con fibula sulla spalla destra, insegue — stringendo due lance l’affascinante Tetide che, in atto di spavento, protende le braccia e volge il capo, di profilo, verso il guerriero. “ Dietro Peleo appare una giovine donna in chitone e mantello: fugge, muovendo la testa indietro per fissare la scena.

Una mirabile lehythoio di forma attica adorna di un meandro interrotto da quadrati a croce con punto nero centrale — porta una Nike alata “ di profilo, coi capelli cinti di tenia, ravvolta nel chitone e nell’ampio manto (himation) orlato di nero ; vola verso una stele sepolcrale con gli avambracci protesi in alto.

Il disegno, di esecuzione rapida, mostra sicurezza e bontà di stile attico da riferirsi al V sec. av. C.

Sembra che la gioia trionfi nelle tombe della necropoli di Pisticci. La musica e la danza tenevano largo posto nelle abitudini dei popoli italo-greci. Arti sorelle, ed allora indissolubili, esse si trovano rappresentate in molte pitture vascolari della bella terra basilicatese. Abbiamo nel Museo Nazionale di Taranto tre anfore, sulle quali l'amore e la sensualità più raffinata trionfano con Menadi e Sileni portanti il riso e la gaiezza.

Un cratere riproduce la scena palpitante di due Sileni nudi, che corrono verso una menade vestita di ricco chitone a corte maniche e d’himation orlato di nero, “ la quale, mentre è in atto di camminare a destra, volge la testa di profilo verso sinistra col tirso fiorito nella destra di contro ai Sileni.

Altra scena bacchica è disegnata con magistero su un cratere a campana adorno di figure rosse: “ al suono della doppia tibia di un Sileno nudo, saltellante, una Menade in chitone donico e collana, col tympanon tenuto su nella sinistra, danza a braccia aperte in movimento entusiastico, col capo rivolto verso altra Menade, che è vestita di chitone e danza con grazia tenendo le braccia abbassate e le mani in giù.

La vivace figurazione greca fa pensare alle tradizionali danze dionisiache della tarantella, che oggi ancora sono ballate a suon di nacchere e di tamburelli all’aperto con frenesia dalle festanti vendemmiatrici, che eternano i profili ed i costumi ellenici dinanzi ai bianchi casolari dei vigneti ed al mare Ionio smeraldino.

Accanto a queste preziose anfore — nella stessa sala del Museo di Taranto — si eleva una mirabile kelebe di forma attica, sulla quale è disegnata una scena dionisiaca con figure violentemente atteggiate, che fanno pensare alle Baccanti della tragedia di Euripide.

Dioniso barbato, con lunghi capelli cadenti, annodati dietro le spalle e cinti intorno al capo da “benda trapunta sopra una ghirlanda di edera, vestito di lungo e ricco chitone ionico e indossante -1’himation, siede sopra un mulo e tiene nella sinistra il cantaros ,,. “ Il Sileno nudo fa atto di fermare “ il mulo, mentre, con la mano destra alzata, mesce il vino da una cinochoe alzata nel cantaros del dio.

Una menade, vestita di chitone ionico, ricco di pieghe, e d’himation, che le delinea il flessuoso corpo, segue Dionysos e “ solleva con la destra il tirso appoggiato alla spalla e con la mano sinistra la fiaccola fiammeggiante ,, (1).

La scena clionisiaca ora descritta richiama, per magistero ed inspirazione, altre figurazioni bacchiche della stessa necropoli. Sul tavolo da lavoro dell’umile compilatore di queste pagine, da oltre un decennio, si eleva un vaso a campana di stile attico, che ha in alto un fregio di palmette, in basso un meandro geometrico interrotto da quadrati a croce, e nel centro la figurazione di Dionysos sbarbato e nudo, cavalcante il mulo, preceduto da un Sileno e seguito da una Menade che, in atteggiamento severo, vestita di chitone ricco di pieghe e d’himation, minaccia col tirso un altro Sileno nudo, il quale protende le braccia in atto di difesa.

Altra scena bacchica è riprodotta su un cratere di Pisticci conservato nel Museo di Potenza: una Menade, avvolta nel classico chitone dorico e nell’ampio himation, danza piena di soavità e di grazia col nudo Sileno. La bella anfora proviene dalle campagne ubertose di San Leonardo, che si delineano ricche di frutteti e di olivi sulla vasta verde spianata orlata di agavi fra le aspre nude calanche del Basento ed i burroni gibbosi e spogli della Salandrella, fino al Bosco di S. Basilio verso il mare Ionio. Proviene dal frutteto Paolicelli, dove il Quagliati raccolse — pel Museo Nazionale di Taranto — armi, armille e cicale ornamentali celebrate da Aristofane: opere del V secolo av. C.

Alcune figurazioni vascolari di grandiosa concezione, come il mirabile e tipico cratere, che trionfa nel Museo Nazionale di Napoli, e riproducono alati putti guidanti una biga tirata da fiere superbamente disegnate — opera che forse faceva parte della collezione Rogges — evocano una età di slancio di tutte le forze culturali e di svincolamento dello spirito artistico attico. Ottenendo che la forma significhi sentimento ed espressione, l’arte raggiunge su questi colli il suo scopo la sua cima.

Io mi auguro che le tombe di Pisticci, fortunatamente ricuperate nella loro integrità a documento scientifico scrive Quagliati — siano il principio di una serie di osservazioni e di raccolte da farsi con scrupoloso intendimento di apparecchiare e d’offrire il materiale necessario per studiare e risolvere fino a che sia possibile la questione della storia ceramografica nella Lucania. E comune opinione che Pisticci ricevesse in commercio molti vasi d’importazione, oltre che dalle Puglie, anche dalla Grecia.

“I vasi a figure rosse, nelle tombe esaminate, non hanno né per la forma, né per 1’argilla, né per lo “stile, nessuno di quegli spiccati caratteri ideali, che “si incontrano nei vasi lucani. Essi invece confermano piuttosto i prodotti commerciali dell’arte vascolare corrente.

Ciò posto, acquista importanza la scoperta, in queste tombe, di vasellame indigeno geometrico, che fin’ora si tenne strettamente proprio delle popolazioni indigene dell’Apulia. Da quanto io vado osservando, di volta in volta, e accuratamente, in queste regioni dell’Italia meridionale e da quanto anche altri hanno ormai occasione di osservare, apparisce che il vasellame geometrico dipinto a colori si restringe alle tre Puglie (Messapia, Peucetia e Daunia) ma sia anche nella Basilicata, a Matera cioè, (ed a Castelmezzano: Museo di Potenza) ed anche in quella parte della Basilicata che non è Apulia, ossia nella Lucania; certamente dunque anche a Pisticci, dove io ritengo il genere di vasellame geometrico di fabbrica locale e di carattere indigeno.

Il compianto ed illustre archeologo Gherardo Gherardini, discutendo 1’importantissimo tema proposto alla discussione della sezione d’archeologia nel Congresso Internazionale di scienze storiche, tenutosi in Roma nel 1912 “ se e quale influsso abbia esercitato il commercio greco attraverso 1’Adriatico sullo svolgimento della civiltà e dell’arte veneto-illirica ,, rigorosamente rimandò le tombe di Pisticci nel Museo di Taranto alla fine del V. sec. av. C.

Le forme della bellezza provenivano dal Mediterraneo. Poi, su le orme irrequiete dei greci, vennero i latini, portando nel pugno una delle fiaccole più luminose che abbiano rischiarato l’oscurità del mondo. Roma raccoglie tutta 1’eredità nel suo grembo augusto. Ed i popoli italo-greci della costa ionica e della Campania comunicarono a Roma ed al mondo occidentale 1’impulso della civiltà greca. Il mantello rutilante della civiltà mediterranea, tessuto fra la bella isola di Cipro ed i colonnati solenni del Partenone, vestì — fatto più severo e più sobrio — le sue spalle poderose.



La Badia normanna di S. Maria del Casale di Pisticci

Muoviamo verso i sacri cipressi della Badia del Casale.

Appena davanti alla luminosa e sconfinata campagna, intervallata di campi e di colli mareggianti di ulivi, abbiamo la sensazione d’entrare nell’ oasi pacifica di un paesaggio orientale, intravisto durante qualche racconto evangelico, nella fanciullezza fiorente di sogni. Sostiamo al margine della stretta via coronata di aguzze e carnose agavi per poter meglio comprimere il battito crescente. Le masse cineree degli ulivi sembrano schiacciate sotto il peso abissale d’una apoteosi azzurra; un ansia febbrile muove il nostro sguardo velato, a frugare, fra i tronchi contorti e le foglie aguzze, per ricercare il vasto fabbricato della Badia ed i rari cipressi che coronano la bianca muraglia del cimitero. Ma finalmente, allo svolto del ripido e tortuoso sentiero di collina, ci appare d’un tratto la chiesa nelle sue linee semplici e pure. Questo ignoto monumento ridesta 1’impressione di umile poesia, ravvivata dall’interesse che il tempio offre sotto il doppio rispetto dell’ arte e della sua storia.

Poiché, più dei monumenti omogenei, tipi di un’arte giunta a completo sviluppo, sono forse interessanti quelli che segnano un periodo di transazione e mostrano il lento spostarsi, nella mente degli artefici, di tutto un insieme di teorie e di idee artistiche verso nuovi procedimenti e nuove creazioni. La Badia del Casale segna appunto un momento ed un episodio della transazione dell’arte dalle forme romaniche alle ogivali.

Non si conosce la data esatta della costruzione della chiesa; il più antico documento che le si riferisca parla del tempio come già esistente ed è un diploma regio del 1133, “ col quale Ruggiero, figliuolo di Rodolfo e di Emma, signori di Montescaglioso ,, (1) donava il feudo e 1’arce normanna di S. Basilio (Pisticci) alla Badia del Casale, che dipendeva dalla Certosa di S. Lorenzo in Padula.

Forse il caso farà un giorno rintracciare qualche documento relativo alla sua fondazione: scoperta più preziosa ancora sarebbe, a dir vero, quella di un qualche atto relativo ai lavori di riattamento e d’ampliamento, alle variazioni subite dalla chiesa nei primi secoli della sua esistenza.



(1) Da Serafino Tanzi, storiografo del settecento.



L’ architettura, in queste regioni del piede d’Italia, durante il dominio degli Arabi e dei Normanni, pare allontanarsi dalla tradizione, convergere verso ideali e forme che non sono più le romane. Con le imprese commerciali e guerresche, sostenute dai mercanti audaci di Bari, di Brindisi, di Taranto, di Otranto e di Amalfi — che dalle coste asiatiche portano trionfalmente in patria urne di santi — si iniziano anche gli scambi delle forme d’arte lungo le coste mediterranee.

Il libero volo dell’arte, verso conquiste più alte e nello stesso tempo più umane, si impenna al soffio della vita, che va di giorno in giorno riconoscendo se stessa. Già la fede, coi crociati, si è materiata di sentimento e di poesia. Il tempio, il palazzo, la fortezza sorgono potenti, degna espressione e sede secolare d’un sentimento civile, che vogliono perpetuarsi nel tempo. A questa sete d’altezza risponde 1’arco acuto, che, per quanto prevalente nelle costruzioni di altr’Alpe, non è però, in sé, una caratteristica speciale dello stile gotico, perché s’incontra nelle più remote antichità, fra i Persiani-Sessanidi e, dopo, fra gli Arabi.

Perché considerare di derivazione nordica i monumenti ogivali del Mezzogiorno d’Italia, se queste regioni ebbero relazioni commerciali coi popoli dell’oriente latino e se alle stesse costruzioni normanne parteciparono saggi artefici arabi insieme con magistri bizantini e campano-pugliesi?

Gli arabi, che dominarono la Sicilia, le Puglie, le Calabrie e la Campania, dall’anno 827 fino al cadere del sec. XI, vi edificarono monumenti insigni, di cui qualche ricordo rimane, perché i Normanni, che conquistarono l'Italia meridionale nel 1089, mantennero le maestranze arabe e bizantine e le forme architettoniche della civiltà orientale, e vi diffusero l' architettura dei maestri comacini, innestandovi — sopra-tutto per opera di Monte Cassino — elementi d’arte bizantino-moresca. Ne venne un’architettura originale, ricchissima nei particolari, armonico innesto di ogive, di deambulatorii latini, di serene forme romaniche, di decorazioni figurative, di mosaici in vivaci colori ed oro, ed iscrizioni greche e arabesche. L’arte ogivale della terra di Bari, della penisola Salentina, di alcune città della Campania e della Basilicata deriva — come ebbi a dimostrare nel volume “ le città morte dell’Ionio,,: editore N. Zanichelli, Bologna — dalla lenta trasformazione e fusione dell’ architettura lombarda, dell’ogiva araba, della cupola bulbosa bizantina e del deambulatorio raggiato della basilica Lateranense e del San Paolino di Nola, in modo che la creazione ne risulta tutta italiana. La scultura ornamentale del medioevo campano-pugliese è la più spontanea, la più immaginosa fra le decorazioni italiane. Arte, che ha un pregio grandissimo, che mancò talvolta al quattrocento lombardo ed all’arte ogivale nordica: quello di conservare, al di là della sovrabbondanza ornamentale di figure umane, di animali e di piante, una unità sempre corretta di linee e di proporzioni.

Varchiamo la soglia del sacrario mediovale, la cui bianca fronte monocuspidata addita il profilo della nave mediana e delle ali, presentando unità di concezione e di stile. Un timido sole disegna ombre leggiere nella facciata, dando un delicato rilievo ai particolari: la tinta chiara della pietra arenaria si fonde in quieta tonalità coi colori morti dei poggi e degli oliveti e coll’azzurro del cielo; una pace immensa sembra stendersi dalle bianche lunghe nuvole immobili in quella distesa di brulle calanche e di verdi conche romite.

Dalle linee del portale erompe una esuberante fantasia e, dagli ornati, vivaci immagini non facilmente descrivibili; son magnifici come un canto orientale, fioriti come un verso di Gioacchino Pugliese, che ci rivela una polla di vera poesia, sgorgata dal cuore e ispirata alla spontanea arte del popolo. E fu vita battagliera e romanzesca quella dei Normanni.

Dinanzi alla Badia normanna tutta la nostra attenzione si raccoglie sul portale, che arieggia l’arte ogivale pugliese ed è una delle più ricche porte delle chiese del Mezzogiorno, gremita di leoni, di aquilotti intorno ai capitelli e di foglie preziosamente scolpite. Nei quattro archi della cornice si attorcigliano fasce di foglie di acanto spinoso, che ricordano i fini ed eleganti motivi di stucchi orientali, di parco e quasi calligrafico chiaroscuro — motivi che in Puglia furono derivati per due secoli dalla basilica elevata da re Tancredi a Lecce (1180). — Ma se i primi intrecci ricordano la flora stilizzata bizantina, il quarto arco ha larghe foglie di acanto che si curvano e prendono, nel mezzo, forme di classiche pigne. Sono sparite le esili colonne, ma le aquile del capitello ci ricordano le decorazioni lasciate da Melisario da Stigliano nel castello di Bari. E una vera sinfonia di accordi e di forme, su cui vola il canto ampio e dolce dei capitelli corinzii a doccia e domina la nota grave della cuspide.

Nelle Puglie, che furono il grande crogiuolo dove i vani elementi dell’ arte italica si fusero, preparando in parte il sesto acuto italiano, ritroviamo spesso le forme di un’architettura varia, ricca di accenti e di una versatilità di tocco meravigliosa; così nel portale della Badia di Santa Maria del Casale di Pisticci, nelle porte di San Paolo di Brindisi, di San Domenico e di Santa Maria della Giustizia di Taranto che richiamano- le forme della basilica normanna di Lecce e sono dei primi decenni del trecento.

Gli elementi che possediamo, risultati unicamente dall’esame della fabbrica, ci danno indicazioni scarse e talora contraddittorie. Chi sa, ad esempio, se la “Sancta Eclesia,, del Casale, dell’atto del 1133, innalzasse già verso la bella collina di Pisticci il delizioso portale che seduce oggidì i nostri occhi? Esaminando la notevole e caratteristica pianta con abside piatta, che richiama la più antica chiesa normanna di Santa Maria di Troina (Sicilia) fondata da Ruggero, il Gran Conte, e ricordata in un diploma del 1081 — ed il Duomo di Tricarico che ha brevi braccia di croce ed abside piatta, si può stabilire che la costruzione ormai esisteva alla fine del sec. XII; ma la facciata, tenendo conto della finitezza della scultura e della grazia elegante del disegno del portale e della finestra, dovette essere ripristinata nel periodo federiciano. Sull’entrata si apre una piccola finestra a ruota, che è ancora integra con la decorazione di foglie d’acanto spinoso dei maestri del sec. XIII.

Entrando nel sacrario, dobbiamo spogliarlo delle tarde e fantasiose decorazioni aggiuntevi dall’età del barocco per rivedere la bella chiesa lavorata dai magistri medioevali, tripartita in lungo dalle file di quadrati pilastri sormontati da agili archi aguzzi; per rivedere, inoltre, turbe salmodianti, benedettini e magistri dediti al decoro della sede consacrata alla Vergine. Con molta probabilità, i massicci pilastri ricoprono colonne e capitelli. Sotto la navata sinistra si eleva il carro trionfale di San Rocco, che viene trasportato in città di notte, seguito da cavalleggeri e da turbe, durante il ferragosto, richiamando i riti pagani, i festeggiamenti del popolo allietati dai carri sacri alla Dea Cenere, e ravvivati nell’evo medio in occasione di episodi della storia.

Ma prima di abbandonare la Badia diamo ancora uno sguardo intorno alla maestosa fabbrica diruta e abbandonata, al cortile interno, agli avanzi delle scale, ai sotterranei ancona sostenuti da archi rampanti. Da vari secoli il convento dei benedettini è rimasto come uno scheletro squassato dalle intemperie, ma il suo ricordo e la visione del paesaggio sono di quelli che si imprimono profondamente e non possono più dileguarsi dalla memoria d’ogni spirito aperto e sensibile alla percezione delle cose più belle.



La città medioevale

Davanti alle decorazioni del portale della Badia del Casale meglio si sente l'unità intrinseca del Mezzogiorno, come era intesa nell’ardente immaginativa del magistro medioevale. Nel sud, il prodotto è più fino e perfetto, perché si è più vicini ed a continuo contatto con centri di magistero artistico secolare, la cui tradizione era stata fino allora nelle mani della scuola bizantina e di quella araba. Il contenuto giovine, anzi vergine, dei popoli napoletani, poteva quaggiù rivestirsi ed adornarsi di forma classica, che preludeva il non lontano Rinascimento, per opera di due magistri della Corte Federiciana: Melisario della vicina Stigliano, che impresse il suo nome “ Melis de Stigliano ,, su un capitello di struttura corinzia dell’ala colonnata dell’arce di Bari e sopra altro classico capitello finemente lavorato e adorno di foglie di palme ripiegate all’ estremo sulla robusta e bianca colonna dell’ androne del castello di Gioia del Colle; Melchiorre da Montalbano Ionico, artefice dei portali delle cattedrali di Rapolla, di Teggiano e dell’ambone di Teggiano, che richiamano le forme architettoniche della ricca porta laterale della cattedrale di Matera, il cui arco romanico, sormontato da cuspide, è gremito di foglie preziosamente scolpite, fra esili colonne sorrette da leoni genuflessi. Sul colle di Pisticci, a pochi passi dalla vecchia torre medioevale di base circolare e dal diroccato castello dei Conti d’Acerra, sullo sfondo della cupa muraglia del tempio e della snella cupola, che erge verso l’azzurro la semisferica verde calotta, il campanile assai bello della chiesa madre, adorna di finestre bifore con archi ogivali ed a tutto sesto, addita 1’arte superba e l’umanità religiosa dei maestri dell’ Italia meridionale.



Il cipresso sacro

Dal sagrato della Badia, dopo aver rimirato le fini decorazioni degli stipiti della porta e le rovine spettrali del convento, 1’occhio vola su per 1’ampio cortile e va a posarsi a sinistra sul bianco recinto. Parlo adagio al cipresso sacro. Balenano in un cielo sanguigno i fantasmi. D’un lungo brivido s'increspa l'ampia marina lontana.

Rivedrò sempre, anche al di là di mia vita randagia, la scia luminosa ionica dell’alba del 16 giugno 1926, dopo una notte di veglia e di tempesta. Passava il vento con ala turbinosa e mi ululava: “Chi sei tu che nel cuore hai la morte, che effondi l’anima nel grave singhiozzo? Si riapre una tomba ?,, Ma il sacro cipresso empi in un folle abbandono d’accordi la notte di tempesta. E son ritornato a te dopo decenni. Ti penso al mattino mentre ripeto con la mia bimba le preghiere: ti rivedo nel vespro e interrompo il mio lavoro: ti parlo quando la sera spegne i rosei marmi sull’alta chiesa. Ti chiamo con voce sommessa. Silenzio è d’intorno: sono spirito sveglio? chi scalpita fra agavi e ruderi? è 1’eco di quei singulti.

E tu, verde cipresso, mi ripeti l’antica nenia: le passioni antiche sono come lumi spenti. Sulla storia delle umane vicende, che il bianco recinto raccoglie, fluttua la nebbia che confonde tutti i tempi in un perpetuo maneggiare di cune e di bare, a cui risponde da infiniti spazi un concento di vagiti, di rantoli, Posa il remo del pensiero, anima. Meglio sognare ed amare. Non è forse dolce cosa vivere per la gioia degli altri? Triste cosa, nella solitudine, accendere la fiaccola della memoria e implorare e attendere il conforto dal solo ricordo di queste tombe.

Le belle energie che tu, mamma, desti alle creature, che lasciasti dopo cinque giorni di vita, trionfarono. Ritornano le forze: ma ritornano i ricordi; e rendono meno cara la gioia della rinascita: il solo ricordo del martirio tuo, mamma, illumina il mio cammino. Canta tu la nenia antica delle creature che ti sono accanto, placale tu.

L’ umile viandante, nel turbinio della notte, non può smarrire meta se nel tremulo spoglio si allungano ancora - ionico miraggio - riflesse e tranquille, come liquidi e luminosi ori, le luci dei suoi martiri.

Non può tradire il sacrificio dei suoi martiri il lottatore che crebbe nel dolore.

Molte ceneri a la tua ombra, o tremulo cipresso. Solo ceneri ?... ma qualche soavità di espressione avevano quei puri visi nella casa paterna Aleggiava la spiritualità di una preghiera. Le fronti erano raccolte. La mamma cantava la nenia alle sue creature, allora. Ripeti tu, cipresso, quella nenia? la tua canzone libra le ali sopra i fatali abissi e versa benevolenze pietose e indulgenza di miti perdoni: chiami fratelli quanti han bevuto nel reo calice della vita il veleno e lo schianto di un addio o di una ingiustizia.

Un brivido corre per 1’arco dei cieli, pei curvi orizzonti; levano il volo i tuoi canti, come rondini, o sacro tremulo cipresso!



I canti popolari e le tradizioni

Nel largo e bianco manto bordato d’azzurro, una giovane popolana contempla la bionda rosea e nociuta creatura, che sulle ginocchia palpita nel giocondo inno della grazia. L’ovale perfetto del suo viso pallido ricorda le statue elleniche : il suo profilo si irradia nella semplice bontà e nel sorriso della madre povera e felice. La luce mattutina carezza il tenero corpo infantile e piove tutti i suoi baci, tutte le sfumature del sentimento su quel volto che riposa placido e vezzoso nell’abbandono dell’innocenza.

Tutte le mamme considerano il proprio figliuolo, come la più perfetta e bella creatura del mondo, ma questa testina ricciuta, paffuta e ridente, che io vedo davanti al Ionio, è un capolavoro. Se il bronzo cesellato fino all’ ultimo brivido nella materia fusa e bionda per la patina di oro antico è prezioso, il bimbo, sorriso dall’umile popolana della costa ionica — la gaia, leggiadra creatura, che sembra balzata dalla matrice dei putti di un artefice attico — è la prodigiosa incarnazione di un sogno d’arte e di bellezza. La mamma di Pisticci canta una nenia agreste dalle cadenze appassionatamente lunghe, accompagnata dallo scroscio delle onde.



Fammi la ninfa, bello di la mamma

sii piccininno e l'hai da cresce granne.

Pregare voglio l angilo custorio

ti dia lo suonno e la bella memoria.

Quanno la mamma parturia stu figlio tutti li santi jettino ‘nconsiglio quanno stu figlio mio va alla scola li prete de la via parlano sole. Quanno “ stu figghi mmio vai pi’ lu faci fiorire l'arbri senza frunne. Li rose e li Viole nun so’ ‘asciute e chisto figghi mmio ne va Vistuto -stu figghi mmio tene bello lu viso come angioletto ri lu para Viso

o ninna, fiore mmio, ninna. Tre pumarelle, tutte e tre a na rama,

mmore la mamma quanno nun ti chiama

o ninna, bammino mio, ninna. Stu figlio addora comm’ a maiorana

addora ra vicino e da luntano

o ninna, core mio, ninna. Cristo ti fece e l'Angelo ti tenne

Maria bella ti runava la menna

ninna, bammino mio, ninna.

Tutti li santi li santi ri Roma

tutti noi forni a metterti lu nome

ninna, bammino mio, ninna.

Fammi itt suonno, ca Maria mo’ vene

porta lu pumo r’ ore e ti iu mena,

o ninna, gioia ninna, ninna. Maronna mmia, fammiio rurmire,

nun me lu fare cchiù patire,

o ninna, ammore mio, ninna.



Ho voluto mettere in luce questa limpida gemma, detraendola da un poderoso studio di Sergio de Pilato, che ha raccolto molti canti popolari, nei quali si sente meglio vibrare 1’anima del nostro popolo.

Non è che dal mare Ionio che guizzano figure e nenie come queste.

La madre lo sa e immerge con movenza leggera, con grazia, la bionda creatura nei flutti della conca marina: poi la solleva fino al viso, 1’avvolge nel grembiule arabescato, e, cantando una malinconica nenia intessuta di semplici melodie, la pone in una caratteristica culla pensile sospesa come lampadario e costruita da un grosso panno scuro legato a quattro aste e sollevata con forti corde alle travi. Chi ha visto dormire un bimbo, sa che gli angioli suonano il violino per tutto il tempo che il piccolo dorme e una nube azzurra avvolge soffice il piccolo corpo. E come nube si muove la culla. Al canto materno si uniscono le voci del vento e delle onde, sonanti, che ripetono una sinfonia.

Ninna nanna, minnareddi u mari s’ ha inghiuttuti o figghiareddi ninna nanna oh! Oh oh oh / mari mii, mari beddi

canta tu u figghiareddi Oh / Oh... Ohohoh.

Traduzione: ninna nanna; piccola nenia, il mare ha inghiottito il piccino. Ninna nanna oh oh oh oh oh! Mare mio, mare bello, canta il figliuolo oh oh oh oh oh!

Il letto nuziale è bianco, alto come un mausoleo; è soffice pei materassi ricolmi di bianca lana, pei pagliericci scroscianti di foglie, ed è ravvolto di lenzuola fragranti di bucato. Sui cassettoni cesellati ed inverniciati di verde, uno dei quali raccoglie le provviste invernali, e 1’altro la biancheria profumata di rosmarino e di timo, e sull’ampio camino fumante posano scodelle lignee, e boccali adorni di fiori dipinti e nobili crateri delle acropoli. Sulle pareti si elevano grandi e bianchi canestri di vimini intrecciati, grossi rami di aranci, serti di moscatella appassita o di gialle e rosee mele invernali, di peperoni sanguigni, secchi, di polpute foglie di fichi d’India, come una provvidenziale ghirlanda di frutta e di fiori o un fantasioso intreccio di colori, per la gioia degli occhi, intorno al talamo.

Le case rurali bianche, luminose, adorne di pergolati — che avvolgono le porte, le finestre, i tetti spioventi e le cisterne per l'acqua piovana — circondano la villa dell’affittuario e serbano la duplice nobiltà della vetusta e della forma. Si può dire che la trasmissione del buon gusto si sia connaturata con la popolazione che la perpetua nelle vecchie coperte lavorate dalle stesse donne, nei boccali dipinti, nei finissimi pizzi, — occupazione diffusa lungo la costa —e nei pittoreschi costumi che si intonano mirabilmente con la bellezza dei tipi.





Le Masserie di S. Basilio e di Policoro

Per la strada, che serpeggia come diga tortuosa, gli ultimi branchi di pecore, spumose di lana, calano verso 1’aia della masseria con uno scroscio di campanacci, trascinandosi i pastori taciturni che danno fiato alle loro zampogne. Tra il mar Ionio e la montagna fronteggiante si eleva un canto agreste.

Quanno nascisti tu nascì la rosa, nascì la pampanella e la cirasa:

intra sta strada ne’ é na runnineii’ ca se ni pregi di itt su vulò;

en c’ a un falcunetti pint’ e bei! ca va ‘ngiri ca (a d’ancappà.



Traduzione: “Quando nascesti tu nacque la rosa, nacque la vite e la ciliegia; dentro questa strada c’è un falco variopinto e bello che va in gira per afferrarti.



Poi la giovine contadina riveste di grazia un sentimento d’ amore:

Vacci, canzuna meia, vacci vulanne, vacci vulanne come va la rondene; va ti cci metti sup’ a cchiddi panne

addo si spogghia e vesta ‘ha uagnaredda.

Ma se la truvi a ‘liti iielti durmenni.

Guarda, no ha tuccari: vuiatenni.



Traduzione: “ Vacci, canzone mia, vacci volando come va la rondine; vatti a mettere sopra quei panni dove si spoglia e veste la ragazza. Ma se la trovi a letto, dormendo, bada, non toccarla: volatene (fuggi via)



Belle, si, le caratteristiche e particolari “ masserie dove tutto mi pare che abbia l’organizzazione di una piccola tribù, vivente nel più perfetto accordo dei suoi uomini obbedienti ai suggerimenti di un capo riconosciuto - il massaio - dove spira un non so che senso di fine previdenza.

Nei suoi recinti, d’inverno, i mandriani vigilano gli armenti e lavorano i burri, le mozzarelle, le provole ed i borzoni — latticini squisiti — e nella stagione estiva, fino a tutto luglio, i contadini badano ai lavori della mietitura. In questi mesi pare che pel piano sia seminata la gioia: canti, serenate, simposi e danze sull’aia. Poi squallore, abbandono.

Nell’ agosto, per evitare la malaria, le popolazioni ritornano sui colli di Pisticci, di Montescaglioso. Nell’ estate afosa scompare così la letizia. Io almeno non la ritrovo: febbre, allora, sento dappertutto.

Per opera di un patrizio calabro, che sa conciliare l’interesse del capitale con le esigenze nazionali della produzione e del lavoro - Vil marchese Berlingieri - lungo la spiaggia di San Basilio, dove ancora ha dominio la febbre malarica, la terra arsa e spoglia ricomincia a fluttuare — come ai tempi di Metaponto, di Eraclea e di Siri - di bionde messi. Nei dintorni del castello turrito elevato da Ruggiero I e ceduto dallo stesso principe normanno ai certosini della Badia di S. Maria del Casale di Pisticci, si delineano lunghe file di bianche e comode case coloniche fra ulivi e pergolati. Ritorna la vita fra le rovine delle città morte?

Non voglio rendere il senso di morte che io sento sparso in alcune contrade della mia ragione; contemplo dalla finestra la pianura ionica per illudermi che la spiaggia della più antica civiltà non manca di bellezza.

C’è negli uomini, che hanno visi tutti stanchi e occhi smorti per la malaria, c’è nel cielo.., e nel mare, apportatore di civiltà.

Nel cielo, in quest’ora, è acceso un fuoco sacro; il sole, un gran disco superbo, è or ora scomparso nel cielo, lasciando larghi solchi d’arancio, che sono una di quelle imperiose melodie, che ci si svegliano a volte nell’anima piena d’impeto: sono musiche mai udite, che si spandono, si diffondono come a suscitar morti, a creare vite canore, cantando, cantando. Ma e un’ora breve. Ancora qualche minuto e tutto rientrerà nella sinistra ombra consueta, fasciando l’anima di tedio.

Autore: CONCETTO VALENTE

 

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