INDICE

Avanti >>

.

TRICARICUM, BASILICATAE CIVITAS

da: "la Basilicata nel Mondo" (1924 - 1927)

Sarebbe come tutti gli altri paesi della mia terra ferrigna, se non fosse spalmato del colore soave della mia fanciullezza. Anch’esso, come gli altri, bruscamente incappellato sulla calva cervice d’un monte, guarda con una sua aria un pò torva di falco fiero ed occhiuto, che se ne stia sonnacchioso a far siesta, dopo il largo pilotare per le vie dell’azzurro. Ma quell’asprezza nativa presto si placa e svapora nel tenero argento degli ulivi, che, al più lieve respiro dell’aria, gli sollevano intorno, come ricciute capellature di bimbi, una morbida spuma di pace.

Quando il cielo è di piombo, le sue case, nerastre e rugose, che s’accavallano 1’una sull’altra, quasi spaurite, ti destano immagini torve di zuffe faziose, o di saccomanni di barbareschi. Ma, se l’aria è chiara, specie al tramonto, sembrano pecore, che in frotta corrono, coi lunghi e dolci belati, verso l’ovile, dove piangono agnelli, nati sull’alba.

E le guida, pastore gigante, tra nugoli azzurri di colombi, la torre veneranda di Santa Chiara, la custode fedele dei miei più dolci sogni di bimbo.

Sui suoi spalti, recinti di bei merli ariosi, sbucavan timide, nei giorni lontani, dall’attiguo convento, a scuoter l’ali, rattrappite nel lungo pregare, le monachelle, bianche e nere come le rondini (oh mia zietta, dagli occhi di cielo, che mi davi, attraverso la grata, con le pallide mani, tanti baci amorosi, e si squisite leccornie, che spesso rinasci nella memoria, con quel tuo sottile profumo d’ incenso!); ma io non vedevo che eroiche sfilate di cavalieri, stretti in guaine d’acciaio, su cavalli, bardati di rosso e d’azzurro, e fumosi bagliori di torce, e fragorose calate di saracinesche. E non mancava nelle notti di luna la, bionda castellana col suo falchetto tra le fragili dita manellate e il cuore dolente per l’amore di terra lontana.

E quella torre, che grandeggia sulle piccole case, nell’armonia pacata delle sue linee classicamente severe, incoronata come una vecchia regina un pò arcigna, è l’unica cosa veramente bella del mio paese. Il quale si dovrebbe più propriamente chiamare città, perché in alcune vecchie piante si legge appunto: Tricaricum, Basilicatae civitas.

Ma io non ci tengo, abituato come sono a badare all’arrosto più che al fumo.

Soltanto ho una voglia matta di sapere precisamente che cosa voglia mai dire quel suo nome, che con tutte quelle r sembra un carrozzone in moto. Per quanto ci avessi studiato sopra, non ci sono ancora riuscito. E neppure quell’arca di scienza storica, che è don Rocco Maglietta, ha potuto soddisfare questa mia assillante curiosità.

In un’antica platea del soppresso convento di San Francesco, scritta anno domini 1688, da pater frater Anlonius Scarano, tempore sui guardianatus huius conventus, e prestatami, con molte raccomandazioni e per speciale riguardo, dal priore di quella confraternita,

mio caro compagno di scuola nei primissimi anni, contadino, che aveva, ricordo, una così bella calligrafia, si legge: « L’antica città di Tricarico fu edificata nell’anno del mondo xxx per le rovine della città antica di Metaponto vicino la Città di Catanzaro (si vede che padre Scarano era forte nella storia, ma un pò deboluccio in geografia) per le guerre civili nel tempo dell’Impero Romano, nel quale anno regnava in Sicilia Dionisio Tiranno e quelle genti gentili di Metaponto edificarono Tricarico, che fu anni 312 dopo l’edificazione della città di Roma. Molti autori dicono, et fra l’altro Giorgio Bragundio agrippinate nelli suoi quattro torni in fogli, totius mundi descrip-tio, descrive della città di Tricarico che viene detta da nome greco Trigargos, in latino Tricaricus, e questi erano due popoli della terra di Tricos et Argos e per le guerre civili in Italia si unirono e fecero Tiricaricus per maggiormente difendersi).

Ma, con le dovute scuse a padre Scarano e a Giorgio Bragundio, mi permetto di fare le più ampie riserve.

Ed anche su quell’anno di nascita, la mano sul fuoco non ce la metto. Ma che un pizzico di Magna Grecia ci sia, questo si che ve lo posso giurare. Se non mi credete, venite a guardare certi ruderi, coperti d’erba, certi frammenti di capitelli, corrosi dal tempo. E poi basta vedere il profilo diritto delle sue donne aduste, rigide e ferme come cariatidi; respirare l‘aria delle sue sere di estate, quando il vento sembra portare dall’Ionio l’odore delle rose di Citera, e il ronzio delle api d’ Imetto e come un’eco lontana delle canzoni d’Alceo.

Ma Pitagora non deve averci posto mai piede, giacché negli abitanti non v’è, almeno sinora, sentor di bernoccobo filosofico.

E non mancano tracce di romanità. S’aprono, nere facciate, vecchissime case, certi begli archi armonici, istoriati di fregi e bassorilievi, in cui spicca qualche testa pelata di romano puro, col solito naso gobbo e l’aspetto severo. Di più non vi posso dire, perché di queste cose difficili non mintrico. Se vi piglia luzzobo d’ una maggiore precisione, rivolgetevi al mio amico Concetto Valente, — Via Rialto, 12, Bologna - che sta scrivendo la Storia del l’Arte Meridionale.

Io, per mio conto, poiché sono un fannullone, guardo, con buona pace del ringhioso Giosuè, le farfalle, e non me ne trovo scontento, o che forse ti trovi con qualche soldo di più in tasca, quando ben bene, dopo molta fatica, hai appurato che quel mamo, che volle affidare la sua immortalità ad una pietra del mio paese, si chiama il console Metelbo e quel tal’altro il diavolo che se lo porti ?.

Ma quel che abbondano sono le chiese e i conventi. Con poco più di 7000 anime, v’è una dozzina tra chiese e cappelle e una mezza dozzina di monasteri. E si spiega. Tricarico è stata fin da tempi remoti sede di Vescovado. Sede insigne, anzi, perché vi passarono vescovi illustri, tra cui alcuni dottissimi, (monsignor Zavarrone) che,in regime feudale, ebbero giurisdizione e privilegi e un bel palazzo decoroso, in cui non disdegnò di abitare neppure il raffinatissimo Siciliani di Rende, che fu poi nunzio a Parigi. Ora ve n’è uno in gamba, giovane e fervido, che gira continuamente la diocesi con una sua fiammante automobile; e i preti filano quasi come quella.

Al Vescovado è annesso un seminario, sino a qualche anno fa assai fiorente, dove il latino lo ficcava a meraviglia, anche nelle teste più dure, a furia di legnate e sberleffi, un temutissimo corpulento rettore, dalla larga faccia, butterata e ironica, e dal cuor diritto.

E vivi sono nella memoria tutti quei pretini fasciati di rosso, lesti e compunti, che, con un brusio guardingo, si sparpagliavano, a vespro, per la provinciale, e, nel pulviscolo dorato del tramonto, tra i biancospini delle siepi e il giallo delle biade, sembravan dipinti. Non so perché, a vederli, pensavo i lontanissimi giorni, quando, imperante il principe Vescovo, per le sconnesse viuzze era tutto un cauto incrociarsi di rubicondi prelati e di frati zocco-lanti, che s’affrettavano a rientrare, sotto la cupola sonora delle campane, all’avemaria.

O celle dei Cappuccini, alte nel sole, aperte al respiro dei venti, sul piccolo orto, pingue di cavoli, indente al singhiozzo dell’ invisibile chiù, tra le foglie ingiallite del vecchissimo fico, così triste nel suo abbandono, che afrore di vinacce nella vostra solitudine bianca e che ridda di moscerini pazzi di luce e di vino! Quel terribile tic-tac della distilleria, laggiù, così angoscioso e insistente, che sembra colare dal fermo cuore dell’eternità, non distilla la suprema tristezza del vostro lento e soave morire?

O cellette del Carmine, più bianche e pudiche di grazia leggera, consunte nell’attesa delle lunghe vigilie, quando il frate barbuto, al palpo della lucerna, che gli faceva l'ombra più grande d’intorno, coi duri cilici domava la carne ribelle, o con penna d’oca scriveva una sua cronica antica, o sulle ali della preghiera viaggiava, con le tacite stelle, verso il trono abbagliante di Dio! Voi ancora aspettate, lo so, il padre guardiano, che venga ad attingere acqua, nell’ora di sesta, al pozzo, così solo, con quei solchi profondi e dolenti come ferite, in mezzo al cortile, ingombro d’erbe e di ciottoli, con intorno i begli archi leggeri, sotto cui, con maraviglia dei Santi, che ancora sorridono dalle pareti nei loro manti rosso blù , qualche maiale s’aggira, solenne, come sotto i portici del ginnasio, un calvo filosofo greco.

Ma il padre guardiano non verrà e più non fuggiranno, spaurite al rumore dei suoi zoccoli, le tortorelle di San Francesco.

Di frati, ormai, in tutto il paese, non ce n’è che uno, e neppure autentico, che la sua consacrazione se l’è data da sé: fra Gaetano, l’eremita, con cui mi piace tanto discorrere, perché parla per apoftegmi, con un suo linguaggio, strano e oscuro, da cui si spiccano a volta immagini vive, da fare invidia ad un artista. In quella tunica sporca e tutta rappezzi, la sua faccia colore verdognolo delle erbe ruminate, tra la lunga zazzera ondosa e la picchiettata barba crespa, che gli giunge a mezzo il petto, sembra, con quei solchi profondi delle vigilie e dei patimenti, sfumare come in un’alone di spiritualità. S’è fatto, accanto ad una chiesa campestre un suo piccolo covo, dove dorme su di una pelle di pecora e un cuscino di pietra, in compagnia d’un logoro Cristo di legno, col quale parla, per ore, in una sua indecifrabile lingua, intramezzata di ululi, che nella notte sembrano massi rotolanti giù per una china paurosa.

Lo dicono pazzo e i bimbi, che egli accarezza, gli fanno la baia, ma forse non è. Anzi non è. È un invasato di Dio, che anela d’uscire dalla sua prigione di carne e come una fiera ne scuote le barre. È un’anima inquieta, per cui il mondo, perdute le forme e i colori, si concentra in un sol lume, che abbaglia.

Fra Gaetano, dalle azzurre ingenue pupille, che non insegui la via, ma sei nella via, fratello di tutti gli spiriti insonni, che hanno una sete vorace dell’ infinito, e scavano, scavano nel cuore profondo dell’avvolgente mistero, come bruchi nell’umida terra in cerca del cibo, io ti saluto.

Un sol convento è risorto : il bel Sant’Antonio, che ride, a mezza costa, sulla collina, in faccia al paese, all’ombra degli svettanti cipressi, ciarlieri di passeri, tra il verde cupo degli orti e il più tenero verde delle vigne, che squilla in un canto d’allegrezza.

Il Taumaturgo apparve, una notte, tra una selva di gigli, in sogno ad un umile prete e 1’implorò, piangendo, di rifargli la casa. E il povero prete, che quel pianto disperato ha sempre nel cuore, s’è dato intorno a riattarla, con la sola sua fede. E, per un inatteso prodigio, gli archi sono risorti e sorridon le celle, dove già frullano tacite piccole suore dalle mani d’oro, esperte nei balsami della pietà.

Tutti questi conventi e le chiese, tra cui qualcuna non priva d’interesse artistico (sei così bella, o Santa Chiara, con i tuoi altarini marmorei, e i larghi festoni di stucco e il tuo elegante soffitto in legno a riquadri dorati) hanno comunicato al paese un aspetto quasi monastico, gli hanno spalmato d’intorno una leggera patina di misticismo, che si fa più sensibile a sera, quando tutte le campane, vicine e lontane, garrule e cupe, intessono una trama sottile di fili di oro, che vengono e vanno e si allungano all'infinito e lasciano in cuore una malinconica scia.

Ma le numerose beccherie lungo il corso (una bella strada lunga, che ha persino i marciapiedi ) e la piazzetta del Mercato, così ricolma d’ogni ben di Dio, dicono che là, poi, non si pensa soltanto all’anima. Il paese è grasso ed ospitale, e i forestieri che ci capitano ne vanno via con dispiacere. Ho la certezza che anche quel pretorino smilzo, or ora venuto, all’aria fina e coi cibi sani, finirà col far concorrenza al suo collega di San Mauro Forte.

Punto nero: la pulizia. Ma passiamoci sopra. Ci penserà il nuovo sindaco, mio carissimo e cocciutissimo amico. In compenso, c’è la luce elettrica (com’è buffa la luce elettrica sulle facciate rugose delle vezchie case e sui ciottoli sconnessi delle frastagliate viuzze

Specialità: squisitissimi dolci, autentici, senza saccarina e le altre porcherie, che ci propinano in città, la manifattura e dispensa, con arguto sorriso, Pasqualino Aragiusto, nel suo lindo caffè, in piazza Garibaldi. La più bella piazza, garantisco, della Provincia, con un altro aggiustato e ben fornito caffè (di Carbone, Pasquale anche questo); con un palazzo ducale senza duca e senza finestre; l’albergo Cutolo, nuovo di zecca, che ti scaraventa sul viso i suoi rettangoli rossi e col grande svolazzo nel mezzo pare una girandola la sera di San Rocco; un circolo, dove è per me un gusto giocare alla stoppa per non meno di tre ore al giorno un orologio, che chi sa da quanti mai anni, batte le ore con un suo piccolo martello consunto.

Ma quell’orologio, specie a quel posto, così in vista, è una cosa che stona. Che bisogno c’è, là, di contare le ore, se il tempo è fermo, come rappreso in una stellare immobilità?

Eppure è così triste, tornando, non riveder qualche vecchio, qualche buon vecchio, che t'abbracciava e si ricordava di te, quand’eri bambino, che andandosene in silenzio, s’è portato qualcosa di te.

Ed è così strano non dover più incontrare il tuo fresco sorriso, o Giovanni, adorabile amico, di tutti noi il più buono, dolce al pari d’un fanciullo, e con l’anima colma, come un alveare ronzante, di canti inespressi. Era una gioia ritrovarmi con te; rifare insieme le strade che ci erano care; confidarci le pene e i sogni; sdraiati fra i pampini pingui, perdersi dietro le nubi, che scivolavano pigre per il laccato ciel di settembre. Così, ad ogni ritorno, ci scopriamo una ruga di più e come in uno specchio ci appare un’immagine di noi profondamente mutata. La vita si rifugia sempre più nel passato, e in fondo al tempo logoro sembra tremare, come una lontana alba invernale.

E questo passato, che d’ora in ora s’allarga, e più pungente si fa di tristezza nostalgica, tu te lo porti con te, o mio paesino, dipinto tra le vigne e gli ulivi, che lento remeggi, come una barca ripiena di sogni felici, su un mare di pace verde argento.

Paese, dove io nacqui e nacquero gli avi, tu mi sei più dolce di tutte le cose più dolci, che gli stracchi miei occhi incontraron pel mondo.

In te s’è rappresa la più gelosa sostanza del mio passato. Del passato, che tutti i pensieri, anche i più tenui, sollecitano e muovono, che sempre accenna con un suo più fresco richiamo, che al desiderio inquieto si schiude, come un paradiso di certezze, fuor dell’assidua mutazione delle cose. Dalla forma intatta della mia fanciullezza, che ancora folleggia per le tue viuzze, una creatura dolente s’è distaccata ed è andata pel mondo, col peso delle vane tristezze e dei torbidi sogni. Su altri scenari, più larghi e fastosi, ha costruito i suoi superbi castelli di carta, ha liberato nel cielo le sue magnifiche bolle iridate, ha combattuto la sua battaglia, cruenta e inutile.

Ma altro non le resta che una memoria di disinganni. Come il canto di alcuni poeti è illuminato dalla parola che prima nacque dal cuore, così la mia vita è plasmata dal segno che tu le imprimesti, o paese, tramato di pace e d’azzurro, sbocciato in una tacita notte lunare. Tutto il mio tempo è dominato da quell’ora lontana.

Tornando a te, io mi ritrovo. Quasi rinasco. Sento, per incanto, cadere, come inutile ingombro, le mie scorie più pese, e, rifatto più fresco e leggiero, come in ascolto rimango d’una musica calma, che amorosamente mi culla e mi stacca dai miei stessi pensieri, che ha il ritmo lentissimo della nenia da mia madre cantata sugli occhi inquieti del suo bimbo felice.


Testo tratto da: "la Basilicata nel Mondo" (1924 - 1927)

Autore: GIUSEPPE BRONZINI

 

[ Home ]  [Scrivici]