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PARTE V

Provo a distrarmi un poco dalla Piazza, giro l'angolo ed entro in via Cesare Battisti per rivedere Peppinella e il suo bar. Manca la porta a « 'ddegna », sostituita da una comune ed orribile serranda, ma vi sono i gradini, la vetrinetta con la porta a vetri, non sono esposti più « i cannellini, gli arancini,le fettucce di liquirizia » ma dentro vi è la solita Peppinella, con la solita voce, suadente ed amica, con il solito sorriso ospitale e generoso, ma, innanzitutto, con il solito caffè, preparato con l'antica macchinetta napoletana, e lo schizzo di anice.
È la Peppinella del bar che si apriva prima che facesse giorno, che continua ad aprirsi all'alba, del bar che ha visto passare generazioni intere di contadini, di vetturini, di mulattieri, di lavoratori in genere, di gente comune e di notabili, che serve ancora gli affezionati a quel caffè all'antica.
È la Peppinella di una volta, alla stessa maniera, con gli stessi modi, con la stessa pazienza di sempre, anche se gli anni passati sono ormai tanti, anche se i guai non l'hanno risparmiata: è da molto tempo senza il suo compagno Nicola ed ha perduto, pure, il suo unico maschio, il buon Aurelio, che le faceva da aiuto nel diuturno lavoro.
È un esempio di madre affettuosa, di donna semplice e senza problemi, di lavoratrice instancabile, per la quale il sacrificio e l'abnegazione hanno costituito la norma della sua vita.
Ha saputo adempiere ai compiti di moglie e di mamma e nello stesso tempo ha accudito ed ha soddisfatto i numerosi frequentatori del suo bar perché in possesso di quell'insieme di virtù, che hanno fatto di lei una donna eccezionale e, certamente, non ripetibile.
Non mi accorgo di essere arrivato al Largo Liceo e il luogo non può sfuggire alla mia osservazione ed alla mia meditazione perché racchiude in sé ricordi miei personali, legati alla mia vita studentesca, e ricordi di generazioni di giovani, che attraversarono quel Largo più volte al giorno, per mesi e per anni, sotto il peso dei libri, dei pensieri, delle preoccupazioni, dei tormenti della crescita fisiologica e culturale.
In quell'edificio, sulla sinistra, e che si scorge anche nella fotografia, che presento, era alloggiato il Ginnasio-Liceo, che fu prima « Luigi La Vista » e, poi, « Q. Orazio Flacco » ed ogni finestra corrispondeva ad un'aula.
Verso quelle finestre, al mattino, si levavano i nostri sguardi languidi, forse, chiedenti conforto alla notte trascorsa su grammatica o sintassi greco o latina, su Dante o su Cicerone o Kant, ma si levavano anche all'uscita dalla scuola con la pena o la soddisfazione di una interrogazione andata male o bene. E, magari, anche qualche imprecazione o qualche proposito di non ritornare « tant' 'cch' gni' viegne 'cchiù a 'fà » ma, puntualmente, l'indomani mattina eravamo tutti al Largo Liceo e con il naso in aria verso quelle finestre.
Erano otto gli anni, tre di ginnasio inferiore, due di ginnasio superiore e tre di liceo e ai gradi superiori si accedeva sempre con esami. Le sessioni erano due, quella estiva e quella autunnale, ma alla sessione autunnale si poteva riparare soltanto in due materie.
Le sezioni erano otto, una per ogni anno di corso, con classi di una trentina di alunni. Questo fece parlare, ed ha fatto parlare, di un liceo classico frequentato e frequentabile soltanto da appartenenti a classi sociali più privilegiate.
Niente di più inesatto. Se un privilegio vi fu, fu solo di merito. D'altronde, non era pensabile, né dovrebbe essere pensabile, che affrontassero studi così impegnativi e severi giovani inidonei per capacità d'intelletto, per qualità umane, per amore alla scuola.
Dal « Luigi La Vista » o « Q. Orazio Flacco » di Potenza sono usciti giovani che, per maturità intellettuale e culturale, hanno affrontato facoltà umanistiche e scientifiche senza alcuna difficoltà
e sono entrati nelle professioni ben preparati e tali da inserirsi nel mondo del lavoro nel migliore dei modi.
Non fu la scuola dei padroni, come, demagogicamente, si è predicato in questo periodo di falsi idoli e di bugiarde ideologie, perché il padrone fu lo studente quando ebbe e dimostrò capacità per imporsi.
È un doveroso omaggio a quella scuola ma, innanzitutto, a quella classe insegnante, che seppe fare della scuola il tempio dell'educazione e del sapere e dell'alunno l'uomo, il professionista, il cittadino. E non è sterile e stupida retorica ma realtà dimostrata dai fatti.
È retorica vuota, sfacciatamente conformista e leccaculista, l'affermazione che fu la scuola del « credere, obbedire e combattere » perché credemmo soltanto nello studio, nella preparazione, obbedimmo alle nostre necessità spirituali e culturali, combattemmo per superare gli ostacoli, con dignità e senza prostituirci. Nulla abbiamo pietito, nulla ci è stato donato, siamo arrivati ai traguardi con la convinzione di esserne degni e di valere per tanto.
Che, poi, fummo costretti anche a combattere le guerre non fu, certo, colpa nostra perché le guerre non le abbiamo preparate noi, le abbiamo subite e, pur subendole, le combattemmo con onore perché, comunque, era impegnato il nome d'Italia.
È questa la verità. Ed è una verità, di cui siamo orgogliosi, mentre ci disgustano le « affermazioni d'epoca » perché in quelle aule crebbe una gioventù senza complessi e senza servilismi, nel rispetto degli uomini e delle idee e nel culto della libertà individuale e collettiva. In quelle aule crebbero « Pistone », « Bochicchio » che, con la comprensione e l'ammirazione dei loro amici e compagni, seppero affrontare l'esilio e il confino politico ma non il giogo e la rinunzia. Crebbero tanti giovani, senza palesi insofferenze o plateali, inutili dimostrazioni, facendo in silenzio il proprio dovere e coltivando « dentro » il culto per la libertà e per l'amore.
Ma le « affermazioni d'epoca » risuonano, soprattutto, offesa ai nostri maestri, che non si servirono del Fascismo per fare carriera e che non insegnarono fascismo ma insegnarono, con abnegazione ed assoluta ed indiscutibile competenza, italiano, latino, greco, storia, filosofia, scienze e, non erano nozioni, come, per ignoranza e malafede, è stato affermato da qualche parte, pure in questo periodo, incolto, incoltivato e di pauroso regresso.
Non insegnò, certo, fascismo Eduardo Pedio, affettuosamente paterno con tutti noi e che, nella sua grandezza d'animo, non fece discriminazioni fra i suoi alunni. Eravamo tutti « figli », quelli che erano soliti indossare la camicia nera e quelli che non la indossavano, quelli che erano figli di signori o di gerarchi e quelli che provenivano da famiglie povere e sconosciute. Fece una graduatoria dei suoi alunni ma soltanto di merito; disistimò, profondamente quelli che, in possesso di capacità e doti naturali, non le coltivavano.
Fu Uomo, galantuomo e maestro, tanto onesto quanto inflessibile nei suoi principi e nelle sue idee, giusto nei suoi giudizi e nelle sue valutazioni, intollerante di ogni sopruso e di ogni imposizione.
Non insegnò fascismo Rosario Magliano, uomo di una cultura varia e dalle profonde radici, dalla erudizione, a dir poco, spaventosa, dalla memoria da far invidia allo stesso Pico della Mirandola, sacerdote degno nella forma e nella sostanza, interprete affascinato e curatore preoccupato dell'Uomo-Anima e dell'Uomo-Carne.

Fu maestro dalle raffinate qualità didattiche e, nello stesso tempo, giusto nei giudizi e giustiziere implacabile delle pecore zoppe.
Eravamo al secondo anno di liceo e l'Ispettore Ministeriale per le Scienze era nella nostra classe per quelle che, allora, erano ritenute le normali sorveglianze degli Istituti, degli Insegnanti e dei loro insegnamenti. Manco a farlo apposta, e come sempre succede, fu interrogato chi fra noi non brillava per attitudini e capacità ma nemmeno per volontà. Naturalmente, la risposta alla prima domanda fu una grossa bestialità.
« Don Rosario », con la freddezza e la calma di sempre, incurante della presenza dell'Ispettore, con fermezza disse queste testuali parole: « Giovanni ... , sei arrivato fin qui ma non andrai più avanti! ». E non ci furono Federali o Fascisti importanti perché il povero Giovanni non andò più avanti e finì in un impiego statale di gruppo C e così concluse la sua esistenza terrena. Lo ricordo, dopo, nei nostri incontri, nel mio studio per fatti professionali, o fuori, sempre timido, riservato, mortificato, quasi sentisse pesa re tutta su di sé la responsabilità del suo fallimento negli studi.
Non insegnò fascismo ma filosofia, e che filosofia, la signora Sbrozzi Paolina, De Rosa, donna dalle giunoniche fattezze (la chiamavamo, infatti, Giunone) e dalla eccezionale preparazione ed esperienza didattica. Non insegnò fascismo ma non fece mai cenno al fascismo in classe, nonostante il marito, l'avvocato Giulio De Rosa, figura squisitamente signorile, fosse fascista ed avesse ricoperto anche la carica di Preside della Provincia.
La signora Professoressa era nata a Tempio Pausania ed aveva con sé e nel suo carattere tutte le note positive del popolo sardo.
Era figlia di un Ispettore scolastico ed aveva ereditato, con l'amore per l'insegnamento, il rispetto per la scuola.
Insegnava bene e pretendeva meglio.
Un giorno entrò in aula il nostro bidello, affannoso e preoccupato, perché aveva telefonato il Federale e voleva parlare, urgentemente, con la signora professoressa. La signora ascoltò e senza scomporsi, direi, come al solito, era diritta come una statua e insegnava con i guanti e con il cappello, disse al bidello così: « Dica (fra l'altro parlava con il " lei " sempre anche se era obbligatorio il " voi ") al signor Federale che la professoressa Sbrozzi riceve nella sala dei professori e non in orario di lezione ».
E le mie citazioni non sono soltanto casi « limite » o episodi ma era tutto così e tutti anteponevano il dovere alle altre cose o manifestazioni della loro vita perché erano tutti irreprensibili nel sapere e nel dovere e, soprattutto, nell'onestà.
Come non era, certamente, un caso il professore di latino, Anfuso, non facilmente dimenticabile per la sua piccola statura e per il parrucchino che portava per coprire la sua precoce calvizie. Fascista, se non erro, anche gerarca, ma fuori, nella Casa del Fascio e fra i fascisti, ma in mezzo agli alunni fu Maestro, certo, con la « M » maiuscola, attento, curato e severo. Aveva particolare preparazione di letteratura latina e greca, aveva anche pubblicazioni in merito, e questo donava ai discepoli, non fascismo o dottrina del fascismo ma sapere.
Come non era un caso il professore di matematica, Maffei, detto « Bozzettino » per via di una cisti, che aveva sulla bozza frontale di sinistra. Al figlio del Preside del tempo, Dante, divenuto, poi, insegnante di filosofia e, per la verità, ottimo insegnante, dette, in prima liceale, zero al primo bimestre, zero al secondo ed al terzo, zero con il punto, cioè, meno di zero, alla fine dell'anno.
Sono cose che fanno una certa sensazione in questo mondo deteriorato ed inquinato, dove si parla di raccomandazione già dalla scuola elementare e deve essere quella, almeno, di un deputato, ma era proprio così e quelli che affermano il contrario o non ricordano bene o non ebbero qualità per andare avanti, o, è anche accaduto, per farsi martire e crearsi una verginità politica.
Nelle pagine precedenti ho scritto che il Ginnasio-Liceo di Potenza si chiamò, prima, « Luigi La Vista » e, poi, « Q. Orazio Fiacco » ma prima ancora fu intitolato a « Salvator Rosa », non l'ignoravo e non l'ho dimenticato. Ho omesso la citazione perché, per ragioni anagrafiche, non ho ricordi personali, né scrivo il romanzo fantascientifico, dove posso dare sfogo alla mia fantasia.
Questa « Potenza nei ricordi e nelle immagini », come era nei propositi, vuole essere una narrazione, quanto più possibile vera e veritiera, dei fatti, delle cose, degli avvenimenti, degli uomini, dei personaggi della Potenza di un tempo passato e, purtroppo, non di un tempo trapassato, anche se i ricordi trapassati e quelli passati avrebbero reso la mia fatica, più completa, più suggestiva, più affascinante.

Vicolo del Collegio

Ma non ho tanti ricordi personali, né tanti documenti, né tante fotografie. Durante le pubblicazioni su « Tribuna di Basilicata » ho ricevuto espressioni di simpatia e consensi, tanti, ma le mie richieste ripetute di collaborazione non hanno avuto fortuna, gli inviti affettuosi ed affannosi a scrivere « insieme » i ricordi di Potenza, non hanno avuto fortuna e questi restano, purtroppo, i miei ricordi e solo i miei ricordi.
Certo, il Liceo, che, a giusta ragione, fu ritenuto fra i migliori d'Italia, vanta origini molto remote.
In un estratto dal Giornale delle due Sicilie del 12 ottobre 1850, n. 223, nel titolo si legge: « Gala del giorno 4 ottobre — Atti di beneficenza ed inaugurazione del Real Collegio di Potenza consegnato ai RR.PP. della Compagnia di Gesù ».
Nel contesto si legge: « Ebbe luogo ancora l'inaugurazione di quel Real Collegio consegnato ai RR.PP. della Compagnia di Gesù, alfin di rendere più manifesti e di gratissima ricordanza i tratti della Sovrana munificenza largiti con tal concessione a prò di quel Capoluogo e della Provincia intera ».
Ma c'è di più. Il Real Collegio fu istituito nel 1815 e con sede in Avigliano. Non so dove fosse alloggiato il Real Collegio a Potenza nel 1850, è certo che fu sistemato nel Palazzo Loffredo dopo il 1860 e, forse, il 1862 o 1865.
Ma il largo Liceo non conobbe soltanto i giovani e le loro ansie, conobbe anche le ansie delle nostre mamme, tese a fare i calcoli tra la fame della famiglia, quasi sempre numerosa, lo scarso contenuto del portamonete e l'offerta dei banchi e delle bancarelle.
Sembrano veramente lontani i tempi, che ricordo: sei chili di patate per una lira, un uovo tre soldi! C'erano anche i centesimi ma vi erano dei generi, come la frutta, che, anche allora, avevano dei prezzi non accessibili a tutte le tasche.
L'arancia si mangiava soltanto a Natale, il mandarino si trovava nella calza della Befana ma soltanto chi era stato buono perché i cattivi trovavano solo cenere e carbone e, in genere, eravamo tutti cattivi per la Befana perché era vuota la borsa di mamma.
La mattina si partiva per la scuola con la tasca piena di castagne bollite perché le castagne, nell'autunno, erano a buon mercato e perché le castagne sapevano far tacere i crampi della fame.
Tirare la corda dalle 8 fino alle 14 e 30 era lungo. Vi era l'intervallo fra le lezioni, la ricreazione, che durava mezz'ora, ma « era impensabile, allora, che varcassimo soglia di salumeria per un costoso spuntino », come scrive Michelino Pergola a pag. 28 del suo libro « Potenza Scomparsa ».
Il Largo Liceo conobbe anche i fasti delle feste religiose, da quella di S. Gerardo a quella di San Rocco, del Corpus Domini, vide i falò e le luminarie, la sfilata dei Turchi.
Fu il cuore palpitante della vita culturale, tradizionale, della piccola economia. Fu noto al colto ed all'incolto, al professionista come all'artigiano e a « lu bracciale » che, alle prime ore del giorno, scaricava i prodotti della terra e del suo sudore, in genere, verdure e ortaggi ma anche legumi sia freschi che secchi.
La vita del Largo era intensa e movimentata, chiassosa fino alle tredici, tredici e trenta perché nelle ore pomeridiane e serali, con la chiusura del mercato e della scuola, Largo Liceo si chiudeva nel silenzio, si ammantava di austerità quasi ne avesse bisogno per riflettere sul consuntivo di una giornata vissuta e per programmare il domani.
Si chiudevano le botteghe ambulanti, che venivano ricoperte di teli impermeabili tenuti fermi da funi, senza chiavi, chiavistelli, porte blindate e sistemi di allarme, nessuno rubava, e si chiudevano le botteghe alloggiate nei locali dei palazzi, che facevano da corona al Largo. Erano povere e modeste botteghe perché le migliori botteghe erano, naturalmente, in via Pretoria e « alla chiazza » ma sarebbe sciocco immaginare negozi lussuosi per stigli, vetrine, specchi e tabelle, come si vedevano prima del terremoto del 23 novembre del 1980 in via Pretoria e come si comincia a rivedere anche oggi, anche se ogni bottega o negozio si abbelliva a mano a mano e con il passare del tempo e con il cambiare della moda.
Allora, ricordo che i negozi più eleganti erano le « spiziarie » ma tutta la loro eleganza era costituita da qualche vetri-netta, che mostrava una serie di vasi e vasetti impatinati, che contenevano tutto ciò che la scienza medica poteva offrire: sale inglese, cremore di tartaro, citrato, rabarbaro e mannite, qualche sciroppo di malva e camomilla, alcuni ingredienti per confezionare pozioni, tisane o pomate. Allora il farmacista creava e manipolava e le confezioni in fiale erano poche, sconosciute le supposte, poche le compresse. La supposta è stata una scoperta del consumismo ed anche la felice interprete di un mondo di inversioni e perversioni sessuali, in cui l'omosessualità e la pederastia sono diventate di moda e, a mio giudizio, la supposta ha agito ed agisce come stimolo a provare l'altra via.
I primi tempi della supposta non furono felici e la gente, che riusciva a capire il mezzo e la via di somministrazione, respingeva con sdegno ed offesa la novità. Chi non si rendeva conto della spiegazione del medico o per distrazione o perché non immaginava mai la via della supposta, la metteva dovunque meno che nell'ano.
Un collega, amico e compagno di lavoro, mi disse, in un tardo pomeriggio: « Sono costretto a partire di urgenza ma non ho pazienti di particolari necessità. Ho un bambino con una tonsillite altamente febbrile, ho detto ai familiari che, se avessero bisogno, venissero a chiamarti. « Era d'inverno e alle nove di sera sembrava già notte fonda quando si presentarono due uomini intabarrati, erano ancora in uso i mantelli a ruota, che, in preda a grande preoccupazione, mi dissero: « Haia venì subito ca lu criature stà brutte! ».
Non avevano torto. In una stanza, anche ampia, di una casa contadina della periferia della città, con sedie tutt'intorno alle quattro pareti, su cui erano seduti altrettanti uomini intabarrati e donne di varia età, così come si era soliti vedere quando vi era il morto in casa, in un lettino piuttosto arrangiato, giaceva un bambino marcatamente cianotico per asfissia e con il nasino ridotto alla forma e alle dimensioni di una piccola dava. Fu questo dato obiettivo che mi fece capire tutto e mi fece agire di conseguenza. E non fu facile estrarre dalle due narici due supposte integre e intatte, che non si erano sciolte, non avevano medicato ed avevano soltanto occluso la via del respiro nasale mentre l'altra, quella orofaringea, era occlusa da due grosse tonsille in fase di acuta infiammazione.
Nelle vicinanze della « chiazza », nei vichi, e qua e là per la città, comunque, non molti, si incontrava qualche negozio di « merciaro » o « funnichiero », di scarpe, di stoffe e, poi, naturalmente, i negozi di generi alimentari, che puliti, certo, non erano e profumati nemmeno ma decenti, non mancava la sorveglianza igienica, specialmente dopo l'apertura del laboratorio d'Igiene e Profilassi, che aveva un reparto specializzato per i controlli dei generi alimentari ed aveva propri vigili per le visite ai negozi e i prelievi di generi non ritenuti idonei alla vendita o avariati.
Nel linguaggio comune erano i « putìare » e basta o « ugliarale » dove si trovava tutto, dalla panella di pane al baccalà, che era tenuto « a spunzà » nella tinozza, a lu « tiniedde » di sarache o di arenghe, a lu « cugnette » d'alici, ai recipienti di stagno, che contenevano l'olio con a fianco le misure: rotolo, mezzo rotolo, quarto di rotolo e « misuriedde ». Si potevano ammirare, appese alle pareti, pezze di formaggio, di ricotta salata, « pettine » di baccalà secco, prosciutti, lardo, « vesciche d'nzogna », « 'nzerte d' cirasedde » insieme a provoloni, butirri e non mancavano nemmeno le candele.
Insomma, quello che, oggi, si definisce, grazie alla nostra esterofilia generosa, « super-market ».
Di queste botteghe, naturalmente, tutte « cu li 'pporte a 'ddegna » e con uno-due gradini per entrare, ricordo quella di Trombone, di Gennarino Di Pietro, di Gambardella, di Viggiano. Era tutta gente decente e decorosa, che godeva anche di una certa tranquillità, pur non essendoci le cambiali, perché vi era la buona abitudine di pagare.
Fuori dalla cinta della città si trovava altro genere di botteghe come « lu furna sciare », che faceva e vendeva pignate, per cuocere verdure e fagioli, urciuoli e piatti grossolani, ma si trovava, innanzitutto, « lu ferraro » per gli strumenti che servivano al contadino, la zappa, lu zappone, lu zappariedde (a seconda delle dimensioni), come lu fav'cione, la falce, e per il grande numero di muli, cavalli, asini, giumente da accudire e da ferrare.
E già perché i trasporti si facevano con i « traini » per le merci e con le carrozze per le persone sia città per città che per i paesi.
Vi erano famiglie di trainieri, come famiglie di cocchieri: « i Zurluse, i Bursutiedda, i Felicielle, i Pagliadonga ».
Erano trainieri e cocchieri per tradizione familiare ma anche per passione e ci tenevano pure a differenziarsi tra loro (no... no... quedde sò n'ata cosa... sò i trainieri... ci teneva a puntualizzare qualche cocchiere). E gli uni e gli altri ci tenevano, soprattutto, a differenziarsi con i mulattieri, quelli che, a dorso di mulo, trasportavano dai boschi legne e « frascedde » (insieme di ramoscelli, spezzoni di rami, legne di piccolo calibro e dimensione, che, per lo più, servivano ad accendere i fuochi grossi nei forni e nei camini, anche perché, in genere, erano molto asciutte e secche), sacchi di grano e di farina, ceste di uva, barili di vino.
I mulattieri erano anche quelli che si cimentavano nelle arrampicate del « maio » alla festa di San Gerardo; che rifornivano di « 'ddegne e frascedde » li « fanoi », che ardevano « 'npont' ai vichi e nelle cuntane » nelle sere di festa. Erano quelli che portavano in città, a suoni di pifferi e di tamburi, per bruciarle in onore del Santo, le « iaccare », che erano un insieme di « frascedde e cannucce », affasciate intorno ad una trave lunga e sottile. Erano quelli che fornivano i muli per la sfilata dei Turchi ed essi stessi non disdegnavano di unirsi ai bracciali nel vestirsi da turco.
I Turchi erano simili soltanto nelle facce e nelle mani nere, tinte con il nerofumo delle caldaie o dei camini, ma erano tanto diversi nell'abbigliamento da fare ognuno numero a sé.
Il Turco, insomma, ognuno se lo fabbricava in casa secondo la propria immaginazione e fantasia e secondo gli indumenti e stracci, che aveva e resi, magari, più caratteristici dall'uso e dalla consunzione.
I cocchieri, invece, fornivano i cavalli « a l'angiliedde », i bambini vestiti da Angeli, che, mezzo assonnati, sfilavano insieme ai Turchi.
Il Largo Liceo, oggi, forse, è lo stesso di quello di ieri. Non vi sono più tante bancarelle e sono aumentati i negozi ed è cambiato il numero e la qualità degli utenti, ma, soprattutto, non vi sono più gli studenti del Ginnasio-Liceo e dal terremoto del 23 novembre 1980 non vi sono più nemmeno gli studenti del Conservatorio di Musica perché il vecchio palazzo è semidistrutto e non ancora in ricostruzione.
Ha cambiato nome e questo, mi pare, sia più importante e più giusto.
Non più « Largo » ma « Piazza Raffaello Pignatari » in memoria di un figlio buono della città, che visse in quel palazzo dall'antico e sontuoso portone in pietra, ben martellata e sagomata; per onorare un uomo che amò la libertà più della vita, convinto com'era che non vi è vita senza libertà, non vi è bene senza la libertà, non vi è giustizia sociale ed umana senza la libertà. Quindi, scelta giusta per un luogo giusto e di un uomo giusto.
Non ho conosciuto Raffaello Pignatari e ho motivo di credere di aver perduto un esempio di vita e un sincero discorso di democrazia.
Mentre durante il ventennio ho ascoltato o, meglio, abbiamo ascoltato soltanto mormorazioni a fior di labbra o barzellette sussurrate a fil di voce e qualche rara escandescenza nello stato di ubriachezza di quel solito bontempone, che finiva puntualmente in camera di sicurezza, specialmente quando era preannunziata la visita di qualche grosso gerarca di Roma.
Largo Liceo era anche il centro della vita di quella vecchia Potenza, contro cui ha maggiormente infierito la ruspa e il cemento armato: Rione Addone, San Luca, « Lu castiedd' » con l'antico Ospedale.