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PARTE VI

Dai ricordi di questo estremo lembo della città torno mestamente a Piazza Sedile per la Via Pretoria o, per essere più preciso, per quello che fu il primo e più antico tratto di Via Pretoria, che, a mia memoria, non ebbe, e non ha mai avuto, la stessa fortuna del resto della Via, in particolare, del tratto incluso fra Piazza Sedile e Piazza Prefettura. Non fu scelto nell'itinerario delle grandi sfilate e parate, sia fasciste che militari, sempre disdegnato da coloro che usavano, ed usano, la via Pretoria soltanto per il passeggio e che non vanno oltre la Piazza Sedile, quasi che l'abitudine fosse stata trasformata in legge, non usato dalle grandi processioni, fu passaggio obbligato, però, dei funerali perché le condoglianze si davano a San Luca, dove si scioglieva il corteo. Non vi erano grandi negozi o negozi eleganti ma non era, certo, un deserto. Vi era il bar-pasticceria, la salumeria, la cantina, la farmacia, qualche buon artigiano sarto o calzolaio, la merceria e, soprattutto, l'Albergo-Ristorante Moderno, comunemente detto « l'Appennino » e non so per quale motivo.
Non mancava lo studio notarile, il medico, la tabaccheria, vi era, insomma, quanto serviva al bisogno e quanto allo svago ed anche al vizio.
Il bar-pasticceria del buon Mario Zirpoli offriva di buon mattino una pasticceria calda, varia, squisita e agli studenti filonisti del Liceo o dell'Istituto Magistrale, con qualche soldino in tasca, anche il tavolino per la scopa o il tressette. In genere erano nostri compagni, figli di possidenti o professionisti, venuti dai paesi vicini e, quindi, in condizioni di potersi permettere il lusso sia di filonare la scuola, perché nessuno li sorvegliava, e sia di giocarsi « la sfogliata, il babà o il cannuolo » per via del portafoglio di papà.
A quei ragazzi Mario, tante volte, dava paste e carte pure a credito. Azzardava? Macché, erano ragazzi o poco più che ragazzi ma avevano innato il senso dell'onore e non appena arrivava papà o il vaglia di papà pagavano e ringraziavano.
Qualche giorno la saletta da gioco del bar Zirpoli sembrava la succursale della scuola perché intorno ai giocatori, i più fortunati, vi erano quelli che guardavano, magari, commentavano e « campavano d'addore », erano i più sfortunati ma erano contenti lo stesso perché avevano evitato le intemperie e il freddo e avevano giocato... senza carte!
Di cantine ve n'era più d'una e non era difficile individuarle: l'odore del vino misto a fumo di sigari e, anche, di baccalà fritto, le grida della « morra a finì », la figura barcollante di qualcuno, costretto dalla urgenza urinaria a « cambiare l'acqua alle ulive » contro il muro della cantina stessa e la « frasca ».
« La frasca » era un ramo d'albero messo, come una bandiera, a un angolo della porta e che era verde quando si spillava il vino nuovo, che insecchiva con il passare dei giorni ma continuava a fare da richiamo specialmente se il vino era buono.
Non ho ricordi di ciò che avveniva nelle cantine, non le frequentavo, eppure sarebbe stato bello vedere ed ascoltare per poter apprendere e meditare su quella umanità in un particolare momento di riposo e nella spensieratezza dei fumi del vino, scrivere i loro discorsi sballati, astrusi, tra il serio ed il faceto, le loro canzoni gracchiate più che cantate, le loro battute, le loro barzellette. Mi sarebbe servito, probabilmente, per farmi un concetto giusto e comprensibile, specialmente dal punto di vista psicologico, di quegli uomini e delle loro bevute, talvolta, veramente eccessive.
Ma il ricordo di quel tratto di via Pretoria e delle cantine mi porta al ricordo di una cantina, anche se non affacciava direttamente sulla via ma appena si girava l'angolo del vico San Bonaventura, che, nella sostanza, non credo fosse diversa dalle altre ma che non posso dimenticare. « ... L'odore del vino (ricordo / mio padre col camice grigio)... Sì, sono proprio i versi di Giandomenico Giagni, dal suo libro « Il Confine », pag. 20, ed io ricordo bene il padre magro e piccolino, col camice grigio « ... con le dita scarnite scure di vino e di tabacco », ricordo la mamma, una bella figura di donna nostrana, era di Ruoti come mia madre e, forse, pure un po' parente, sempre disponibile e cordiale, ricordo la sua povera sorella Giovanna, troppo presto strappata alla vita che aveva diritto di vivere, i suoi fratelli ma ricordo lui... Mimì. Più di qualche volta ho pensato che la natura ci fa diversi fisicamente perché ci fa diversi di « dentro », diversi nell'intelligenza, nella genialità, nel carattere e Mimì era diverso anche dai suoi fratelli nel fisico e di « dentro », il fratello Gigino, un bel ragazzo dalla taglia atletica poderosa e dal carattere irruente, giocò nella Stabiese, che militava, allora, nel campionato di calcio di serie B. Mimì era, apparentemente, il più tranquillo, il meno espansivo, talvolta sembrava addirittura distratto, ma osservava e attentamente, pensava più degli altri.
Certo, partecipava alla vita del vicolo, della via, della Piazza, alle scorribande alla vigna di « treccavadde », alle escursioni a Poggiocavallo ma è anche vero che la natura, la città, gli altri gli servirono per alimentare il suo scontento, le sue inquietudini, le sue insoddisfazioni.
Questa nostra natura immensamente piena di fascino, di suggestioni ma muta e resa ancora più muta dalla incuria e dall'apatia degli uomini, questa nostra città, dominata sempre dai pregiudizi e grilli di una classe piccolo-borghese, incapace di esprimere se stessa, incapace di trasformare le cose, di avvicinarsi agli altri, di camminare con gli altri, insensibile alle nuove e sempre crescenti istanze sociali, umane, civili, amante del forastiero, refrattaria ai paesani, non potevano costituire l'ambiente informativo, formativo e lavorativo favorevole per lui, come per altri. E Mimì pigliò il volo, come altri, per cercare spazio e per avere lo spazio, che meritava.
Una perdita? Certamente, ma per chi? Per gli amici, per la città, per la società, e non solo affettivamente, ma per i vantaggi, che avrebbero potuto trarre dalle sue capacità e qualità e non per chi ha sempre visto la fuga dei « cervelli », delle persone per bene, dei giovani in grado di dare come un fatto buono e vantaggioso.
Una fuga che io ho sempre, anche vivacemente, contestato agli interessati, definendoli codardi, fuggiaschi per non lottare. E in questi duri termini mi esprimevo una notte, nella halle del Grande Albergo, allorché Leonardo Sinisgalli, impulsivo ma buono e sicuramente lucano, mi investì con violenza verbale: « Ma che capisci tu, che non sai che per avere qualcosa ed essere qualcuno bisogna andare perlomeno fino a Milano! ». Gli anni, l'esperienza della vita vissuta mi hanno convinto che non aveva torto Sinisgalli, che non ebbe torto Mimì Giagni ed altri. La loro matrice, i luoghi dell'infanzia, della famiglia, l'esilio con i ricordi, i rimpianti, i rimorsi li fece poeti e la terra, che li ospitò, li fece diventare « qualcuno » e dette loro « qualcosa » e, non certo, per gentile concessione. D'altronde, che cosa poteva dare a Mimì Giagni Potenza, la città che non ha mai avuto, nemmeno di passaggio, principi, conti, duchi e marchesi ma dove, però, si è sempre insistito sul « signore » e il « cafone », senza vie di mezzo e senza scampo per i « cafoni », dove con presuntuosa insistenza si è continuato a scrivere « N.H. e N.D. », a parlare di « padroni e servi », a tuonare « non dimenticare chi sono io », dove non si è mai voluto capire che è nobile soltanto chi è virtuoso, per nobiltà di intelletto, di anima, di azioni e opere. Mimì, come gli altri, continuò ad amare la sua terra, la cantò ma con la tristezza dei ricordi non con la gioia di esaltarne i progressi sociali, culturali ed umani, volle tornare ma con gli occhi chiusi dalla morte, alla controra di uno strano giorno di afa e di vento, perché il sonno eterno non fosse inquieto, tormentato come era stata la vita, perché nessuno si accorgesse « dell'emigrante » che ritornava non per rivedere il vico, « la strara », la chiazza » ma, rassegnato, per essere ricoperto di quella sua terra, dalla atavica, eterna rassegnazione.
Era sfuggito ai pregiudizi, invidie, discriminazioni, mortificazioni proprio perché era partito quando era « nessuno », sfuggì ai giudizi agli ipocriti convenevoli perché tornò da « nessuno » e solo per la terra.
Sotto la finestra della casa Giagni, in via Pretoria, vi è un bar e tanti ricordano solo la sua esistenza, pochi ricordano che ancora prima del bar vi era una Farmacia del simpatico don Pasquale Crisci.

Via Pretoria (altezza bar Caselli)

La Farmacia Crisci passò nei locali a pianterreno dell'Ospedale a '1u castiedd', diventando « Farmacia dell'Ospedale » e al suo posto si stabilì il bar, che fu gestito da Zì Gerardina Caselli, morta nel 1980, all'età di 86 anni. In quella occasione « il Nuovo Corso », giornale settimanale potentino, della cui Redazione ebbi l'onore di far parte, nel n. 15 del 22 aprile 1980, così scrisse: « Dopo una lunga vita, dedicata con amore e passione alla famiglia ed al lavoro, è venuta a mancare la signora Gerardina Caselli, nata Trunzo ».
Non è retorica affermare che con la sua scomparsa si assottiglia ancora di più la vecchia Potenza nelle sue caratteristiche e nelle caratteristiche degli attori dei tempi passati.
Tanti la ricordano e la ricorderanno sempre attenta, gioviale, affettuosa dietro il banco del suo bar a preparare, con l'istinto e il fare della buona mamma, bevande e leccornie ai suoi affezionati, fra cui facevano spicco giovani e sportivi, in particolare. In molti, più che il gusto di sorbire un buon caffè fatto dalle sue mani, vi era il piacere di conversare con la Zì Gerardina, dalla battuta sempre pronta e facile, dal consiglio opportuno ed utile. Sapeva di tutto ma non per volgare pettegolezzo ma per trarne esperienza a fine di bene anche per gli altri. Di questa sua peculiare caratteristica ne beneficiarono i giocatori della Potenza-Calcio dell'epoca (anno 1945 e seguenti) come i vari Picogna, Checchetti, Bracci, Simoni, Cometti e tanti altri, che furono a lei legati da amore veramente filiale.
Una donna all'antica, che, pur se con cautela, accettò le innovazioni e le trasformazioni dei tempi. Una scomparsa, quella di Zì Gerardina, che, certamente, non trova sostituzioni e che, indubbiamente, lascia in quanti la conobbero un vuoto non facilmente colmabile ».
E di fronte al Bar di zia Gerardina, nel palazzo Ferretti, oggi, palazzo Galasso, non mio né di miei parenti, ma di uri mio omonimo ricco, vi era l'albergo Moderno, gestito con inappuntabile correttezza, signorilità, capacità dalla famiglia Pecoriello. Ricordo di aver notato sempre clienti, apparentemente, di un certo tono, la sontuosa sala da pranzo, la halle suggestiva con la gradinata con gli archi e ringhierina di ferro battuto. Il palazzo all'esterno ed anche all'interno è stato ristrutturato con una certa ubbidienza alle antiche linee architettoniche e, forse, è stato un vero peccato che non sia ritornato albergo. Bambino ero incuriosito ed attratto dall'insieme, gente diversa e varia, tavoli sempre imbanditi, lampadari, portone maestoso con borchie e battenti di ottone, sempre ben lucidato, seconda porta a vetri, grandi, su cui campeggiava la scritta « Albergo Moderno » ma ricordo che ogni volta che passavo, con l'intenzione di ammirare di più e più a lungo per capire anche di più, mi veniva addosso una tale soggezione che mi costringeva ad accelerare il passo e a lanciare dentro la solita occhiata furtiva. Mistero della vita di quei bambini, cresciuti « attimorati di Dio », certamente e, forse, troppo ma con tali e tanti tabù, che ne condizionavano la vita e l'espressione della vita stessa.
Di fronte all'Albergo, poco più sopra dell'ingresso al vico San Bonaventura, vi era una sala da barba, pulita, decente, come tante altre, dove, oltre al servizio di « barba e capelli », si distribuiva simpatia, spensieratezza, un po' di allegria: il salone Riviezzi.
Il « principale » era fatto così e non gli mancava intelligenza e fantasia, parola facile e persuasiva, « sfottitore » elegante e sottile sapeva ricamare sull'avvenimento del vico o della piazza, sapeva creare e farsi credere: « non passava anima viva senza essere spedita in cielo o all'inferno ». I suoi amici non scherzavano, dimodoché si era creata una compagnia di buontemponi, non facevano male a nessuno, che si riunivano per ridere, scherzare, « fare il giornale » raccontare la barzelletta, preparare lo scherzo a qualcuno.
Fu in quell'ambiente che si « ordì e si consumò » la più grande burla degli anni trenta, con cinica ostinazione, con preparazione e programma, che non facevano una grinza e lo scopo fu raggiunto con credibilità assoluta.
Girava per la città, in quei tempi, il banditore, una figura simpatica, suggestiva e caratteristica, berretto militaresco con fregio, « trumbettella », da cui più che suoni uscivano rumori ma che, comunque, richiamavano la gente, che, con voce, quasi sempre rauca, annunziava le novità del mercato, quello che offriva la piazza con relativi prezzi. Non era un mestiere facile e né comodo, nemmeno ricco perché il più delle volte il compenso era in natura, e, oltre tutto, il povero banditore subiva anche lo sfottò dei soliti giocherelloni e perditempo.
Quante volte il bando era accompagnato da bordate di fischi e tuonanti pernacchie, che facevano tremare « pilastros et lampioncellas ».
Era succeduto nell'ingrato ministero a « don Nicola », dall'immancabile berretto militare con due giri di nastrino do rato da tenente del Regio Esercito, morto per edema polmonare da bronchite cronica, enfisema polmonare, cardiopatia, frutto di disagi professionali, intemperie, malepatenze, fumo e cantina, un signore, di origine acheruntina, che, sotto le spoglie povere e trasandate, il linguaggio sconnesso e sgrammaticato tra lingua ufficiale e dialetto, nascondeva un animo poetico, che andava molto al di là del poemetto « il Tremuoto » che aveva pubblicato, e, soprattutto, tanta ma tanta semplicità e innocenza. A guardarlo sembrava un nobile decaduto, con l'abito nero, a zone stinte dall'uso e dalle macchie di unto, con colletto inamidato che non andava molto d'accordo con la pistagnina della camicia e che da anni aveva abbandonato il colore bianco originale, pantaloni alla « zumpafuossi » che, forse, erano stati stirati dal sarto che li aveva cuciti, scarpe « a scioffole » di colore non decifrabile e che non si capiva bene se avessero più finestre alla suola o alla tomaia, usava il berretto in servizio e il cappello a passeggio, un cappello alla « Totò » e che, bollito, avrebbe potuto fare il brodo per un intero reggimento.
« Gettava il bando » e il suo compito non si esauriva così perché faceva seguire un suo commento e, tante volte, mostrava anche un campione per l'assaggio.
Un tipo così non poteva, certo, sfuggire alla « gang Riviezzi » e, infatti, non sfuggì. Con una scusa e con l'altra se lo fecero amico e, dopo essere entrati nella sua stima e fiducia, gli dissero di approntare i documenti perché, con l'interessamento di un personaggio molto importante, gli avrebbero fatto avere l'onorificenza di « Cavaliere ». Quando tutto fu pronto, in una serata di un lunedì, giorno di riposo di forbici e rasoi, con il sacrificio della solita scampagnata, nella barberia, per l'occasione trasformata e rivestita a festa con bandiere, nastri tricolori e fiori, non mancavano i dolcetti e lo spumante, in nome del Re d'Italia e per volontà del Duce del Fascismo il Chiummiento venne nominato Cavaliere del Regno, per i meriti speciali acquisiti nel campo professionale e della poesia, gli fu consegnata la regolare pergamena (perfettamente imitata dall'originale) con croce, di cui fu autorizzato a fregiarsi nelle grandi ricorrenze della Patria.
Il « neo-cavaliere » si commosse, pronunziò il sermoncino di ringraziamento, lesse qualche strofa del suo « Tremuoto » e fu, così, il cavaliere di Potenza per antonomasia, forse, l'unico a ostentare le insegne in ogni occasione, l'unico a pretendere sempre il titolo davanti al suo cognome. Non ebbe vita facile nemmeno con la moglie ma l'essere « cavaliere » gli fece sopportare meglio tutte le avversità e, ringraziando Riviezzi e Compagni, vi fu anche per lui un pizzico di gloria e di felicità, che una vita ingrata ed amara gli aveva sempre negato.

Vico Grippo (Grotta Azzurra)

Poco più sopra del « Salone Riviezzi » dall'altro lato della via vi era l'Agenzia Ricciuti — Viaggi e Trasporti —. Proprio, così, viaggi e trasporti perché si viaggiava anche allora, si traslocava e si trasportava la merce. Non si andava a fare il week-end alle Antille o il Natale a Cortina e la Pasqua a le Bahames ma, per necessità, qualche piccolo viaggio pure si faceva, i traslochi e il trasporto merci avvenivano a mezzo traini e la ditta era bene attrezzata con traini, cavalli e squadre facchini. Il titolare, don Vincenzo
Ricciuti, meglio conosciuto con il soprannome di « Palladoro » era un uomo gioviale, rubicondo e panciuto, molto spesso indicato come una delle migliori forchette della città, ma, sicuramente, corretto, attento alla puntualità delle prestazioni e al buon andamento della ditta.
E non posso lasciare questo tratto di via Pretoria senza fermarmi alla Farmacia Mancinelli, che, per buona pace, del suo primo titolare e padrone, il professore Giuseppe Mancinelli, e per la buona grazia, l'amore, il rispetto dell'attuale titolare, il dottor Giuseppe Troiano, mantiene lo stesso aspetto esterno e la stessa composizione di mobili e di stiglio all'interno. D'altronde, Peppino Troiano, cresciuto in casa Mancinelli, educato e maturato a quella scuola ed a quella disciplina di vita e di costume, non poteva essere diverso né poteva regolarsi diversamente. Ma chi era questo Peppino Mancinelli conosciuto come « il professore >> più che come farmacista? Questo signore distinto, che mostrava un viso roseo di antica bellezza, un aspetto marziale di vecchio guerriero, che, nelle ricorrenze patriottiche, ostentava con orgoglio divisa e medaglie di ufficiale superiore del Genio Militare, d'inverno avvolto in un sontuoso mantello azzurro? Bè, innanzitutto, ho il dovere di dire che fu il mio compare di cresima e che, per me orfano di padre, fu un sostegno morale, un esempio di vita, un consigliere. Chimico-farmacista, insegnò matematica alla Scuola Industriale e i suoi alunni lo ricordano, e lo ricordarono, non solo per le sue qualità didattiche e i suoi pregi di maestro, ma come educatore paterno e rigido, nello stesso tempo; intollerante dei giovani viziosi e maleducati, a cui non lesinava anche qualche schiaffo non troppo paterno.
Fu il primo laboratorista della città e le sue indagini chimiche, biologiche, bromatologiche, microscopiche furono utili all'Ospedale, alla Clinica Gianturco, ai medici liberi esercenti in città.
Aveva, nella sua villa di Santa Maria carina e funzionale, naturalmente fatta subito sparire dopo la sua morte per far posto a quel grande scatolone di cemento armato che si vede e non si ammira al termine della discesa di San Gerardo, un laboratorio, che, per i tempi, era bene attrezzato e sufficiente per le richieste.


                       Via Pretoria (verso Piazza del Sedile)