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PARTE VI
(continuazione)

Vico Mazzolla (dalla Via C. Battisti)

Si era preparato un validissimo tecnico, il buon Mario Molinari, che fu, poi, tecnico all'Istituto d'Igiene e Profilassi di Potenza e, in seguito e sempre per concorso, apprezzatissimo tecnico dell'Igiene e Profilassi di Salerno. In quel laboratorio e con loro due cominciai a fare le prime conoscenze con provette e pipette e microscopio, che mi furono di sicuro e prezioso giovamento.
« Il professore » fu uomo buono, retto, onesto, fustigatore del malcostume, fu implacabile con i vili e i fessi; fu aperto cordiale con gli amici e altrettanto chiaro e intransigente con gli ipocriti e i nemici; amò la sua terra e sopra ogni cosa la Patria; non amò il protagonismo e le smargiassate chiazzaiole tant'è che, appena ebbe l'impressione di dover morire, consegnò al fedele Peppino Troiano tassative disposizioni per la malattia, che fu brevissima, e per il funerale, per concludere nel silenzio la sua vita terrena.
Sull'imbrunire, chiuso in quattro modeste tavole e con carro di terza classe, l'accompagnammo in quattro-cinque, non eravamo figli, perché non ebbe figli, eravamo quelli che potevamo dire di conoscerlo veramente ed eravamo dietro la sua bara per onorarlo nel silenzio, non nel culto della personalità, ma nel culto dell'uomo.
E ritorno a Piazza del Sedile ed il ritorno mi serve anche per ricordare che la piazza vide l'alba e la crescita, culturale e tecnica, di una grande tipografia, la « Tipografia Garramone e Marchesiello », a proposito della quale, ai primi del secolo il « Lucano » così scriveva: « ... in piazza Sedile gemono i torchi della Tipografia Garramone e Marchesiello, nota ormai in Judea per la precisione e l'eleganza dei suoi lavori: l'impareggiabile proto, i bravi operai sono occupati nella stampa... ». Non ho ricordi personali ma le testimonianze raccolte mi hanno convinto che l'onesto riconoscimento del « Lucano » era anche modesto nei confronti dei meriti della Tipografia, dei dirigenti, delle maestranze. Non ho documenti visivi eccezionali da mostrare, ho soltanto due cartoline illustrate, che mi pare dicano molto e tanto.

Particolare del Palazzo Castellucci (il portone con il balcone)

Mi incammino, quindi, verso la piazza Prefettura, passando per il Larghetto, che fu « Dea Mefiti » prima, « Martiri Lucani » poi, ed, infine, dopo il 1900, intitolato a Rocco Brienza, nei cui pressi vi era la « Chiesetta di San Nicola », che fu al centro di numerosi ed importanti momenti religiosi, sociali ed artistici della città, per proseguire per via XX settembre, Larghetto Fratelli Cairoli, a monte, e via San Francesco, a valle.
Il palazzo, che presento in due bellissime fotografie, in una visto nell'intera facciata, nell'altra nel particolare del portone con il balcone sovrastante dalla bella ringhiera in ferro battuto, e che, purtroppo, esiste solo nelle immagini e nella memoria di alcuni perché da tempo fatto scomparire e sostituito da un palazzone moderno e dalle moderne vetrine, faceva bella mostra di sé proprio nella piazzetta Rocco Brienza, a cui dava prestigio e austerità. Anzi, dava anche il nome. Il palazzo, infatti, era della famiglia Castellucci, a mio ricordo storico, forse, l'unica famiglia che potesse vantare una nobile origine e, perciò, il Larghetto era indicato e conosciuto come « Largo Castellucci ».

Un Largo sempre frequentato ed affollato sia perché punto di passaggio quasi obbligato per gli studenti dell'Istituto Magistrale e del Ginnasio-Liceo, sia per quelli che venivano dal Rione Santa Maria ed erano diretti a Piazza Sedile, sia per le nostre mamme perché nel Largo vi erano le bancarelle con qualche utile mercanzia ma, innanzitutto, vi era il forno a legna e la simpatica ed instancabile Arcangiolina, « furnara », con cui, almeno una volta alla settimana, bisognava mettersi d'accordo per il pane e ad Arcangiolina bisognava dire il numero delle « scanare », le panelle, e se si preferiva al primo, al secondo o al terzo forno, le tre infornate di ogni giorno.
E, sì, perché, allora, il pane si faceva in casa e ogni famiglia provvedeva per proprio conto e, in base al numero delle bocche, si faceva una tavola o « na scanatora » o mezza tavola, tenendo presente che su ogni tavola si mettevano sette o otto « scanare », che erano delle vere e proprie macine di mulino. Ma, tanto, il pane si consumava perché era l'elemento essenziale e, talvolta, anche il solo ma si mangiava lo stesso anche quando era « seriticce », forse, era più gustoso.
In genere, quando si faceva il pane, si pigliava un pezzo di pasta, si schiacciava con il palmo della mano, si faceva un buco al centro e si cuoceva « alla vampa », era « lu ruccule ». Talvolta, veniva condito con l'origano, la « cirasedda » ed anche con l'aglio triturato per renderlo più saporito. In genere, si mangiava caldo e fumante, appena uscito dal forno, talvolta, non arrivava nemmeno a casa e quando arrivava veniva innaffiato con lunghe bevute di « sottapera », direttamente dalla fiasca e a garganella.
Certamente, più squisito, ma non per tutte le tasche, era « lu ruccule 'chiene », cioè pieno di formaggio e di toppe di salsiccia ma ottimo era anche « lu ruccule cu li frìttele », immancabile quando si uccideva il maiale e si preparava la sugna.
Era quasi un rito uscire dal forno con la tavola piena di panelle fumanti e fragranti e quasi in processione. Pur sotto il peso, che gravava sulla testa e sul collo, le donne con il loro sorriso mostravano la gioia di portare a casa l'indispensabile mezzo di sostentamento e la loro gioia era anche rispetto per il pane « che si guadagnava con il sudore della fronte».
Nella loro letizia offrivano un assaggio a tutti quelli che incontravano, conoscenti e non, e anche con un pizzico di orgoglio per sentirsi dire « ccch' bello pane c'hai fatto ». L'offrivano con maggiore insistenza a « li femine prene », anzi, le obbligavano perché « 'mmoglia a Dio lu piccininne nascìa cu lu vulìe ». Era come portare un grande scrupolo per tutta la vita.
La specialità tradizionale e che era di tutte le case, da quelle più benestanti a quelle più povere, era « lu piccilatiedde », che si faceva a Natale. « Nu tortano » grande di forma, pesante, fatto con fiore di farina scelta, « la carosella », che prima di essere impastata veniva setacciata più volte e con le setine sempre più strette.
Si cominciava un mese prima a trovare il grano adatto, a sceglierlo, a pulirlo bene, si portava al mulino direttamente perché non lo mischiassero con il grano comune e i giorni della vigilia erano i giorni di vera febbre, anche perché bisognava starsi attenti alla pasta che crescesse bene, al momento opportuno per infilare le mandorle, nel senso e nello spessore giusto, in modo che, a cottura, apparissero bene sotto-crosta, e stare con un orecchio al forno per sentire a tempo « li cummanne d' la furnara ».
Il forno di Arcangiolina era dove, oggi, si ammira il negozio di elettrodomestici dei Fratelli Cassano. Era un locale molto ampio, servito da un'apertura, altrettanto ampia, a volta, ai cui lati pendevano, più che essere bene infissi, i due battenti di una specie di porta, poco utile alla funzione che avrebbe dovuto svolgere, molto fastidiosa, come cosa inutile, specialmente quando arrivavano i mulattieri e dovevano scaricare dai muli le pesanti some di « 'ddegne e frascedde ». I due battenti, nella parte inferiore, erano fatti di legname, non certo pregiato, a sfoglia sottile, mentre nella parte superiore erano a vetri, quelli comuni, quelli che si usavano per le finestre, in verità io non li ricordo mai tutti interi, c'era sempre qualcuno rotto e, talvolta, erano tutti rotti, vittime di spifferi di vento o di maldestro mulattiero. Ma tutta questa necessità dei vetri non c'era e non né parliamo dei vetri sofisticati di oggi, antifurto, antiproiettili, termici e via discorrendo, ma non vi era nemmeno la necessità della porta, in primo luogo perché il forno era aperto dall'alba alla nera notte e poi perché nessuno sparava a bersaglio preciso o all'impazzata e, innanzitutto, si usava ancora rispettare il comandamento di Dio di non rubare.
Eravamo proprio fessi a quei tempi, ai tempi di vavone! Nientemeno non si rubava e non sapevamo rubare e menomale che siamo fatti tutti vecchi perché con questa grave e imperdonabile lacuna culturale, ai tempi andanti, non avremmo fatto alcuna carriera.
Bè, non vorrei proprio esagerare, ma qualche furtarello, pure, si faceva: la gallinella, qualche uovo, un po' di frutta da sopra l'albero, perché era fresca e più saporita, un po' di uva alla vigna ma o si finiva con le chiappe impallinate a sale dai padroni, ben vigili, o si finiva nelle mani di don Aniello, il brigadiere che la sapeva lunga ed aveva fiuto e mestiere e faceva anche simpatia, con il suo sorriso sornione e con i suoi modi cavallereschi, che quasi quasi faceva venire il desiderio di farsi arrestare.

Insomma, senza divagare molto, il forno era sempre aperto anche quando Arcangiulina si recava a domicilio a ritirare le tavole, chiene di scanare o quando le riportava cotte e fumanti, appena uscite dal forno. E, sì, perché la povera Arcangiulina, oltre alle « pubbliche relazioni » « Gerarda 'mpasta subito e scana p' lu primo » (cioè per il primo forno), oppure « Filumena dorme 'npo' 'cchiù e scana p' lu sicondo », oppure « Angeluzza nunn' t' 'mprescià e scana p' lu terzo », oltre a curare il riscaldamento del forno e quando i mattoni diventavano bianchi « ca tanne tanne savìa 'nfurnà », andava anche a domicilio a servire quelle clienti « ca nunn' tenienne salute » e che non avevano un aiuto. Poggiava « la spara », una specie di cercine fatto di stracci, al centro della testa e sopra caricava le lunghe tavole « cu la grazia di Dio », come facesse a mantenersi in equilibrio e a fare stare in equilibrio quelle tavole, tenendo conto anche dello stato delle strade e della ubicazione delle case, io non me lo sono spiegato mai a sufficienza se non tenendo conto dell'esperienza acquisita nei tanti anni di duro, durissimo lavoro. Ed era un lavoro per il quale non bastava impegnarsi soltanto fisicamente ma bisognava fare molta attenzione perché la caduta di una tavola determinava scompiglio, grida e disperazione per il quantitativo di pasta o di pane che si poteva perdere, ed era già importante, ma soprattutto perché era di cattivo augurio.
Le tavole entrate nel forno venivano poggiate, in attesa che tutto fosse pronto, sopra paletti infissi nel muro a giusta distanza, sia sulla parete di destra che su quella di sinistra, ed una sull'altra fino ad una certa altezza, compatibile con la statura delle utenti.
Era un rito l'infornata perché ogni donna si stava attenta a mettere il suo segno particolare di riconoscimento sulla pasta, appena Arcangiulina caricava la panella sulla pala, ma era un rito chiassoso, anche gioioso, la sfornata con il riconoscimento delle proprie « scanare ». E questo era il tran tran di tutti i giorni per la povera Arcangiulina, distrutta dalla fatica fisica, dagli improvvisi cambiamenti dal caldo al freddo, dalle grida e dalle chiacchiere perché purtroppo quando si ha da fare con la gente « gn'è 'cchi la vole cotta e gn'è 'cchi la vole crura ». Una donna che conservava sul volto ancora i segni di una sfiorita bellezza e nell'espressione si leggeva tutto il suo buon cuore e la sua comprensione e che non si scomponeva mai « mè... sì... chiane... chiane... e mò accuntenta a tutte ».
Uscendo dalla scuola passavamo a chiedere quando mamma poteva fare il pane, era l'ora in cui, ancora affannosa, poteva asciugarsi il sudore, ci guardava come solo una mamma sa guardare, « scanasse dimane p' lu sicondo » e non mancava mai di aggiungere « studiare, figli miei, studiare ca quedda puveriedda (era mia madre) s'accire 'cchiù d' mì ».