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PARTE VII

Tra il palazzo Castellucci e quello di Ricciuti, scomparsi, vi era un vicoletto, stretto, buio, cieco « Vico Morto » e per entrarvi bisognava scendere alcuni gradini. L'ambiente tra il misterioso e il pauroso era perfettamente adatto al personaggio, che l'abitava « la mascìara ».
Con questo nome veniva indicato una persona dedita alle male arti di magia e fra queste vi era la fattura. Era un soggetto che, secondo la credenza popolare, aveva rapporti con gli spiriti maligni e che con questi combinava guai, a pagamento, se non si pagava la fattura non aveva valore e non arrivava a destinazione, a danno di alcuni per favorire altri. Quando succedevano contrasti nei fidanzamenti, nei matrimoni si invocava l'aiuto della mascìara, che preparava « la pupa » con grovigli di aghi, di spille, di lacci, che dovevano incatenare e suppliziare la vittima designata e le sofferenze, i dolori, dovevano essere tanti quanti erano gli aghi o gli spilli, oppure preparava intrugli da fare bere.
Se un giovane o una giovane mostrava un deperimento organico inspiegabile o sofferenze di qualsiasi tipo d'origine ignota si diceva in giro « gn' hanne fatt' la fattura » ed allora bisognava ricorrere ad un'altra mascìara che avesse sciolti « li 'rruppe » o avesse allontanato « i mali venti » o distrutto i veleni.
La mascìara del vico Morto si era creata una certa notorietà per cui serviva la città, le campagne limitrofe ed anche i paesi vicini, evidentemente i risultati erano buoni. Delle sue qualità demoniache la gente era più che convinta « ca 'ddà haia gì » si sentiva in giro « ca mieglie d' quedda gn'è solo la ginzanese ». Ma la « ginzanese » abitava a Genzano di Lucania e, quindi, era lontano e si perdeva ancora più tempo e il male peggiorava.
Per noi ragazzi quel vico e la vita, che si svolgeva in quel vico, erano avvolti dal mistero e, forse, avevamo anche una certa paura ad entrare per indagare. Non era raro vedere mamme che, in prossimità del vico, strattonavano i figli ad accelerare il passo e si facevano il segno della croce o chi, ad ogni buon fine, toccava corni, abitine, chiodi, forbici, chiavi ecc. Insomma, si cercava anche di non nominarla e, quando si era costretti, si aggiungeva sempre « Signore, liberaci » e, quando si nominava la fattura, si sentiva dire « s' pozza sperge ». Si credeva in Dio ma si credeva anche in queste cose.
Che fine abbia fatto la mascìara del vico Morto non l'ho mai saputo e quando ho domandato notizie a qualche donna del vicinato mi è stato risposto, previo il segno della croce, « sarrà all'impern' la tantazione ca quedde era piegge d' lu Pendissime » e « lu Pendissime » era il Diavolo.
Lo strano è che dopo la mascìara andò ad abitare in quel vico ed alla stessa casa una vecchietta molto povera e che viveva di elemosine, dedita alla Chiesa ed alla preghiera, e che, in breve tempo, fece amicizia con i bambini della zona a cui insegnava le preghiere e raccontava le storie dei Santi. Non ho ricordi personali, quindi, non sono in condizioni di poter dire quale fosse la sua preparazione specifica. Forse, si era passati da una invasata per lucro ad una esaltata per miseria.
Nel portone del Palazzo Castellucci vi era una cantina, che definirei di un certo tono, e, di sera, poteva capitare, transitando per il Largo, di imbattersi in qualcuno ubriaco. In genere, non erano molesti ma soltanto goffi e sgraziati nell'andatura, loquaci ma a vanvera.
Il più noto era « Mast' Saverio » di mestiere pittore quando era lucido, soprannominato « una è la vita » perché nella ubriachezza non faceva che ripetere « una è la vita », forse, per dare un significato o una giustificazione alle sue sbornie. Già alcoolizzato continuava a bere ed a bere molto ed il più delle sere non arrivava nemmeno a casa ma crollava nel sonno in mezzo alla strada. Così lo ritrovavano quelli che di buon mattino si recavano al lavoro, d'inverno lo ritrovavano ricoperto di neve ma Mast' Saverio era immunizzato anche al raffreddore e la sera ritornava, puntualmente, alla cantina per la solita dose di vino scaccia-pensieri e scaccia-malanni.
Insomma, in quel Largo Castellucci c'era da appagare i crampi da fame dello stomaco, con quel fragrante pane che usciva dal forno di Arcangiulina, l'ansia dello spirito con una buona bevuta alla cantina, ma anche come diradare pregiudizi, immaginazioni, fantasie, paure con le misture e gli artifici della mascìara.
Forse, a valutare bene le cose a posteriori, la mascìara colmava una carenza di medici neurologi, perché, d'altronde, i suoi clienti, in maggioranza donne, erano soggetti neurolabili, con manifestazioni ansiose depressive, con manie di persecuzioni, di fatiscenti aggressioni, di ombre notturne, di crisi di isterismi e, quindi, di mancanza di respiro, « m' strenge 'ncanna », per cui le vicine di casa si affrettavano a sentenziare « l'hanna attaccà » oppure « gn' hanne fatte na brutta fattura ». E quando la poveretta ritornava in sé il crocchio delle donne, facendosi il segno della croce a ripetizione, consigliava « e ma tu vuò o nunn' vuò l'haia gì a truvà a quedda (la mascìara) ca 'npò 'cchiù ca s' strengene li 'rrupp' e muori suffuara ».
Il tutto veniva detto anche sottovoce, volgendo gli occhi di qua e di là con molta circospezione e, quasi, con paura perché « li spiriti d' lu maligno passano sempe da nu pertuso e gn' basta pure na ferlatura ».
Non vi erano resistenze ad accettare i consigli né da parte dell'interessata e tantomeno da parte dei familiari e parenti e il ragionamento era sempre lo stesso « o crere o nunn' gn' crere ma s'adda gì... la verità è a lu monne d' li giusti... ma putemm' sta cu li 'mmane 'mmane » e si andava e il più delle volte il risultato era anche positivo e questo avvalorava « ca li 'ccose brutte gn' sò e come ca gn' sò ».
Dopo qualche anno vidi ricomparire nel mio studio una signora che si era sempre servita della mia opera. Mi venne spontaneo chiederle perché non si era fatta vedere, se era stata fuori Potenza, se era stata sempre bene o se vi erano stati fra noi due dei malintesi, dei risentimenti, che fossero sfuggiti alla mia attenzione.
Mi guardò con il suo sguardo più bonario del solito, girò gli occhi intorno per assicurarsi che tutto fosse chiuso e che non vi fosse nessuno e, a mezza voce, rispose: « Nunn' sia mai, duttore mio, nunn' m' sò scurdà e nunn' m' scurdarragge mai di Signirìa, stascìa bone, nunn' m' mancava niente e perciò m' mettern' d'uogghie 'ncodd'... m' pigliarn' alla spruvvista... e 'cchì gn' crirìa... manch' n'abitina tinìa... e m'attaccarn'... sò stà brutta, duttore mio, brutta assai. Nunn' gn' sò venù qui, duttore mio, ca nunn' era robba tova ». « E sei andata da quella » mi venne subito da dire.
« E meno male ca gn' sò stì 'ccose... ca si nò manch' ero qui mò ».
La poveretta parlava convinta anche perché si sentiva salvata a dimostrazione di quanto forte fosse la suggestione in alcune manifestazioni di ordine neuro-ansioso, perché, in fondo, la mia amica altro non aveva avuto che le solite manifestazioni menopausali.
Avevo una giovane paziente, degente a letto, in uno dei vicoletti del Rione Addone e, naturalmente, quasi tutti i giorni andavo a visitarla. All'affacciarmi sul vico notavo che alla finestrella della casa vi era sempre qualcuno in attesa e che, frettolosamente, spariva al mio apparire. Per i primi giorni mi sembrò un fatto normale e l'interpretai come un atto di riguardo nei miei confronti, farmi trovare tutto in ordine e loro pronte a ricevermi. Mi insospettii con il passare dei giorni per la presenza costante di alcuni oggetti e del loro uso. Dietro la porta vi era sempre una scopa di saggina e era sistemata con il manico in basso; sul piccolo tavolo, sistemato nel localino di ingresso, che serviva da cucina, sala da pranzo, salotto, era sistemata, in bella evidenza, una forbice, di discrete dimensioni, aperta e con le punte rivolte verso l'uscita; poco lontano dalla porta, sistemato in maniera da corrispondere al centro della porta stessa e, sempre, allo stesso posto, il treppiede di ferro con il catino, contenente su per giù sempre la stessa quantità di acqua.
Non mancava mai la stessa donna, con fazzoletto nero sulla testa, annodato sotto il mento, seduta sulla porta di passaggio tra l'ingresso e la cameretta dove era l'ammalata, che ostacolava anche il mio transito ma non si scansava e che, durante tutto il tempo della visita e della mia presenza, snocciolava i grani del rosario ed emetteva « alizzi », sbadigli, talmente rumorosi da far quasi tremare la casa.
Con un po' più di attenzione notai che, appena dopo che mi ero lavato le mani, vi era la persona pronta che prendeva il catino, gli imprimeva alcuni movimenti, che erano sempre gli stessi, e, borbottando parole, che non sono riuscito mai a interpretare, buttava l'acqua in mezzo alla strada e, sempre, nella stessa direzione. Quando io ero già arrivato alla punta del vico sentivo sbattere la scopa sempre nella stessa direzione, dove era stata gettata l'acqua, contro il muro, dopo aver scopato la casa, eppure la casa era più che pulita.
Non avevo scoperto a che cosa servissero le forbici, ma, ormai, e questo anche perché l'ammalata migliorava, mi ero messo in testa di arrivare fino in fondo e, un giorno, feci finta di svoltare il vico e, lestamente, ritornai indietro con la scusa di aver dimenticato qualche cosa.
Trovai la donna degli « alizzi » che, con fare sacerdotale, tenendo con le due mani i due manici delle forbici, faceva apri e chiudi, come se tagliasse qualche cosa di invisibile e recitava versetti. « Prima cu l'aiure di Dio, po' cu l'opera vosta », mi confidarono dopo e quando l'ammalata era già guarita, « ma d' quedde brutte cose nunn' t' puoi fidà ».
E le brutte cose erano il malocchio e la fattura e con l'uscita del medico, che non era, certo, un porta-bene ma, piuttosto, un porta-male, si tagliavano « li 'rruppi » invisibili, si scopava il malocchio, e che il malocchio esistesse era testimoniato dalla serie degli « alizzi » della donna, si gettava fuori l'acqua e, capii dopo, nella direzione del vento e le parole erano: « Genuvè, Genuvè, allontana stu maluocchio da me ». Non ho mai capito che cosa significasse « Genuvè », suppongo il diavolo.
Ogni volta che entravo in una certa casa notavo che la signora, con molta celerità, staccava da dietro la porta una catenella, a cui erano legati, insieme, chiavi, coltello, forbici, e se la infilava alla cinta in maniera che, camminando, si muovevano rumorosamente. La maniera con cui il rito si svolgeva, l'espressione e le movenze della donna mi facevano quasi ridere.
Un giorno le dissi in tono scherzoso: « Signora, lasciatele pure al loro posto tanto io non me le piglio ». La risposta fu pronta: « E 'cch"nhaia fà, asservene a mì ca nunn' tiegne chi m' prutegge e manch' chi m' disce na razione ». E le « razioni » erano quegli intrugli di parole sacre e profane che diceva la donna degli « alizzi ».
Ma così era e, forse, ancora è così ed era così fra tutti i ceti sociali, ognuno pensava che, anche a non crederci, non si perdeva niente a fare qualcosa, come dire, « Io scrupoli nunn' ne voglio tenè ».
Quante volte, passando per una via, ho visto gente che, mostrando indifferenza, si affannava alla ricerca di qualche cosa da toccare, talvolta erano scenette veramente ridicole. Insomma, il medico portava iella come il prete, come il gatto nero, come il carro funebre.
E, forse, il medico stesso credeva a queste cose, alle forze maligne occulte o come tutti pensava che a non crederci va bene ma che a non fidarsi è meglio.
Entrando in camera operatoria notavo che il giovane collega, che preparava il tavolinetto porta-strumenti, in primo luogo piazzava le forbici di dimensioni più grosse, naturalmente, aperte e con le punte rivolte verso la porta. Ogni qualvolta, io, facendo il distratto come se non vedessi lo strumento che mi porgeva, menavo una mano verso quelle forbici mi respingeva dolcemente.
Un giorno gli chiesi perché non mi permettesse di usàre quelle forbici, lo chiesi come una preghiera e la risposta fu pronta ma decisa e, direi, anche convincente: « Lasciatela stare va meglio per il malato e meno preoccupazioni per noi... cu stu trase e iesci ca gn'è qualcuno, anche del personale, potrebbe, inconsciamente, essere un porta-male... può capitare ».
Come mi regolai?... Come voleva il collega... nel dubbio... non si sa mai... tanto più che le forbici in quella posizione e fuori dal campo operatorio non infastidivano nessuno.
Perché avrei dovuto fare il contrario? Mi ricordai di un ripetuto episodio a cui avevo assistito durante la mia permanenza in Germania e proprio alla Clinica Chirurgica dell'Università di Halle. Il chirurgo e maestro, direttore della Clinica stessa, prima di iniziare la rituale e normale nreparazione personale alla seduta operatoria, staccava dal suo armadietto una catenina con un ciondolo e se l'appendeva al collo. Compiva l'atto con molta religiosità, quasi come il sacerdote quando veste la stola.
« E' un suo particolare porta-fortuna », mi dissero i colleghi tedeschi, « non sappiamo che cosa rappresenti e donde provenga, il certo è che non lo dimentica mai prima di operare ».
Bè, se quel grande maestro non disdegnava il porta-fortuna potevo anch'io tollerare quelle forbici aperte... non si sa mai!
Tutto il mondo, allora, è paese, e, consoliamoci, Potenza è paese del Mondo.
In fondo, la presenza della mascìara, con tutti i sospetti e gli scongiuri che creava nella gente, nulla tolse alle caratteristiche di serietà, di solennità, di laboriosità del Largo Rocco Brienza, comunemente detto « Largo Castellucci » e come tale conosciuto. Forse, perché il Brienza fu poco noto agli stessi potentini. Fu cospiratore insieme a Emilio Maffei e con il Maffei ed altri patrioti fu giudicato e condannato alla pena di diciannove anni di carcere. Uscì nel 1859 e nell'insurrezione del 1860 fu tra i Segretari del Governo Prodittatoriale, ritirandosi, dopo, a vita privata.
Scrisse molti libri ed il più noto, credo, sia stato il « Martirologio della Lucania ». Fu sacerdote secondo alcune fonti, laico secondo altre, che, a sostegno della loro tesi, ricordano che, quando morì, il 19 febbraio del 1909, i funerali « ebbero luogo in forma puramente civile, essendo stata questa la volontà dello estinto. Vi presero parte le Autorità tutte, la loggia Massonica, le Società Operaie e gran numero di cittadini ».
Sacerdote o laico, comunque, conta poco per i miei « ricordi », conta l'uomo che fu cittadino illustre e ben degno di pubblica riconoscenza, di ciò ne fa fede la storia e tutto quello che potrei aggiungere io sarebbe un copiare ciò che è stato scritto e riscritto anche perché, sempre per ragioni anagrafiche, non ho ricordi personali.
Il cognome, però, mi obbliga a un pensierino sulle signorine Brienza, due zitelle, che abitavano l'appartamentino sopra l'attuale negozio di scarpe di Groia con ingresso (il portoncino è ancora esistente) e l'affacciata sul Largo. Non so se vi fossero rapporti di parentela con il grande Rocco e, credo, non vi è chi ne sappia più di me, solo le malelingue, una razza, purtroppo, sempre esistita, sapevano e sanno che erano le figlie. Che importa?
Erano due bellezze statuarie, distinte, direi quasi regali, nell'abbigliamento, nelle acconciature, nei comportamenti come, ormai, si vedono soltanto nelle stampe o ritratti di antiche nobildonne e regine. Più facilmente si poteva incontrare Matilde, insegnante di disegno alla Scuola Normale, poi Magistrale, dal 1920 al 1930, o poco più, della quale ho ricordi personali perché fu pure mia insegnante, nell'anno che frequentai l'Istituto Magistrale. Era di una squisita dolcezza nel parlare, nel trattare con le persone di qualsiasi età e di qualsiasi condizione sociale, con noi, lei che mamma non era, era affettuosamente materna, ed era così tutti i giorni e sempre con tutti, non per affettazione o vanità ma per dote naturale, fu così anche con me, scolaro buono, diligente, certo, ma assolutamente negato per il disegno.
Era impeccabile nella pettinatura dei suoi bei capelli « cu nu belle tuppe 'ndreta a lu cuzzette », sostenuto da eleganti « pettinesse » o da spilli di valore; non le mancava mai il girocollo di velluto nero, da cui pendeva, fino ad occupare la fossetta del giugulo, « nu berlocche » o un medaglioncino o un'artistica croce; sfoggiava camicette dai ricami eccellenti che, maliziosamente, nascondevano il suo bel seno, magari, anche giunonico, ma erano belle anche le sue gonne a plissé, che scendevano fino alle caviglie e che ondeggiavano a organetto quando si muoveva o camminava.
Ero poco più che un bambino, quindi, non maliziato, ma donna Matilde doveva essere veramente una bella donna a giudicare dagli sguardi degli uomini e per me è rimasto sempre un mistero il fatto che non si era sposata come non m stato mai molto chiaro perché fosse stata nomignolata dagli studenti « Monumento », forse, soltanto per il suo aspetto fisico perché, in verità, non era statica e, tantomeno, rigida come un monumento.
Era, insomma, degna di essere ammirata come la verandina della sua casa sempre addobbata, e con gusto, di piante e di fiori. Direi che era l'angolo dolce di Largo Castellucci mentre il forno di « Chiodd' Chiodd' » con i suoi riti solenni di infornate e sfornate di « scanare e 'rruccule » di sudori e strazi di Arcangiulina e Zì Cuncetta era l'angolo della laboriosità.
Zì Cuncetta era la cognata di Arcangiulina, un vero moto perpetuo per il continuo rifornire il forno di « ddegne e frascedde », per il va e vieni da case vicine e lontane sotto il peso delle lunghe tavole di pane. Era la collaboratrice di Arcangiulina e, perciò, forse, più in ombra e meno trattata, ma, se non ricordo male, era proprio di carattere piuttosto schiva e riservata ma grande e instancabile lavoratrice.
Come la cognata era buona e caritatevole « nu buccone in meno p' ciascuno nunn' fa male a nisciuno e fascemm' magnà chi stà digiuno e Sant'Antonio pensa p' tutti ». Mentre recitava questa frase Zì Cuncetta pigliava un po' di pasta dalle sue varie clienti, ricordandosi, di volta in volta, chi fosse di turno per il contributo al pane di Sant'Antonio. Aveva buona memoria e non vi era pericolo che lo prendesse due volte di seguito dalla stessa persona. Naturalmente, data la diversità delle paste per la diversità delle fa rine usate, la panella di Sant'Antonio veniva a zone più nere a zone più bianche, più soffici e meno soffici perché vi era pure chi impastava, aggiungendo alla farina le patate, ma che importava, secondo Zì Cuncetta « ... Chi tene fame nunn' sceglie... gn' sà tutto bone... ».
Per molti la destinazione del pane di Sant'Antonio rimase un mistero ma, d'altronde, questa era la volontà di Zì Cuncetta perché, a suo giudizio, « la carità è carità e basta... s' fà all'oscuro... nunn' baia vrè add'ò va e manch' t'haia aspettà lu ringraziamento ».
Per un caso del tutto fortuito, però, mi toccò di vedere i destinatari. Erano due soggetti tanto ma tanto diversi fisicamente, accomunati in un unico destino: senza famiglia, senza dimora, senza lavoro.
Non rifiutavano il lavoro, anzi, ma erano due incapaci e, quindi, li rifiutavano i datori di lavoro.
« Miseria » era il nomignolo di uno dei due, credo, mai un nomignolo è stato così bene affibbiato. Era piccolino di statura e di una magrezza impressionante, visto nudo gli si sarebbero potuto contare tutte le ossa, non era vecchio ma le privazioni, gli stenti, il dormire nei portoni o tutt'al più, quando non lo trovava già occupato, sul finestrino del forno di Calvi, in via Cairoli, avevano scavato sul suo viso, che non era brutto, sul suo corpo, distruzioni irreparabili. Non chiedeva, non infastidiva la gente, abbassava lo sguardo vergognoso anche quando qualcuno gli metteva in mano qualche soldo pur se le sue condizioni non gli offrissero altra alternativa.
Fu trovato morto proprio in uno di quei portoni, che lo ospitavano, un mattino di uno di quegli inverni polari, non rari, un tempo, per la nostra città.
L'altro era Donato, detto, in verità con molta cattiveria, « lu ciuoto ». Non brillava per beni d'intelletto ma, in fondo, non era l'ultimo dei fessi ma nemmeno aveva ricevuto, a suo tempo, aiuti scolastici ed extra-scolastici per poter migliorare le sue condizioni mentali.
A differenza del suo compagno di sventura era un armadio, oltre il metro e ottanta, robusto, anche bello, che riusciva a sbarcare meglio il lunario proprio in grazia delle sue possibilità fisiche, occupato, di tanto in tanto, in lavori pesanti e di sola manovalanza e pagato male o, il più delle volte, con il solo boccone di mangiare e con qualche strazzo di vestito vecchio. Siccome era di stazza eccezionale lo ricordo sempre con pantaloni che, tutt'al più, raggiungevano la caviglia con giacche strette, che non si chiudevano sul davanti, con una vasta zona dell'addome peri-ombelicale scoperta al caldo ed al freddo, che faceva arrossire le donne, cosiddette pudiche, ma che lo guardavano lo stesso. Non aveva amici perché nessuno riteneva di essergli amico o, meglio, di poter condividere la sua amicizia, l'umanità vecchia, nuova o nuovissima, è sempre la stessa e Donato era chiuso nel mutismo o, qualche volta, ragionava con se stesso, sottovoce e con piccoli gesti. Guardava specialmente noi ragazzi, con occhi che volevano dire tante cose, che io non ho saputo interpretare perché anch'io ero prevenuto nei suoi confronti ma che, certamente, chiedevano comprensione, calore umano, stare un po' insieme, parlare insieme.
Ma i ragazzi non riuscirono a capirlo, o non vollero, e, tantomeno, a donargli amicizia, anzi, con quel pizzico di cattiveria, che non ha mai tradito la presenza in noi di istinti volgari e perversi, lo insultavano, lo sfottevano.
Donato che, forse, fu « ciuoto », fu certamente più comprensivo, più umano dei suoi sfottitori, ne avrebbe fatto un solo boccone e, invece, cercò sempre di sfuggire, non degnò mai di una parola o di un atto di ritorsione.
Anche il fisico di Donato non resistette a lungo e, forse, ancora prima dei cinquant'anni, acquietò sofferenze fisiche e morali nella pace eterna. Nessuno lo pianse e non è sufficiente dire: non aveva nessuno. Nessuno lo pianse da morto perché nessuno si era preoccupato di lui vivo. Qualche lagrima, forse, la versò solo Zì Cuncetta: aveva perduto il fine della sua generosità e l'amico della controra.
Largo Castellucci ebbe anche un momento di notorietà ai tempi del Fascismo e non per fatti rilevanti che fossero accaduti ma, soltanto, perché vi abitò, in quel portone accanto alla macelleria, oggi di Mario, ieri di Granieri, l'onorevole Vito Catalani, deputato fascista, eletto nel 1921 nel 1924. Mi limito alla citazione, quasi come un dovere di cronista e senza commenti anche perché non ebbi rapporti con il Catalani, ero troppo piccolo anche per essere degnato di un solo sguardo, ma, in verità, non ebbi rapporti con nessun personaggio, la semplice parola « autorità » mi ha dato sempre fastidio.
Per lo stesso dovere di cronista presento qualche immagine, che si commenta da sé, una testimonianza e, non vorrei, fosse interpretata come un atto di accusa per quelli che ci sono, semmai un atto di accusa per quelli che non ci sono, né mi piacerebbe sentire « sì, è vero, c'ero ma vi ero obbligato » o, peggio, « sì, è vero, c'ero ma non ne so niente » sono le solite frasi degli italiani di tutti i tempi, fino ai piduisti. Chi c'era c'era e chi non c'era non c'era, probabilmente c'erano « i dritti » e mancavano i fessi, qualcuno c'era, però, per una scelta precisa ed ha anche pagato per questa sua scelta.
Il discorso, comunque, sul fascismo potentino e sui fascisti andrebbe fatto con interlocutori onesti, preparati, obiettivi, senza pregiudizi e senza livori, con più ampio spazio non solo quantitativo ma qualitativo perché non furono tutte ombre e nemmeno tutti farabutti e perché, in fondo, a Potenza tanti eccessi non furono consumati anche se non mancarono profittatori e voltagabbani.

Forse, tenendo conto di quello che passa il convento oggi, sia politicamente che economicamente e socialmente, è un discorso che è meglio non affrontare perché non sarebbe un compito facile per gli accusatori o critici. Ho l'impressione che quelli che, fino ad ora, hanno scritto di fascismo l'abbiano fatto solo per interessi personali o di parte, per « crearsi una verginità politica », che, poi, è lo stesso che levati tu perché mi debbo sedere io e che il fascismo, quello peggiore, quello dei piccoli gerarchetti e faccendieri sia stato risuscitato da altri gerarchetti e faccendieri e sia più vivo che mai.
Condivido in pieno l'articolo « Il Fascismo Grigio », pubblicato qualche anno fa, del collega giornalista Lucio Tufano, scrittore egregio e storico sereno e coraggioso ... Serpeggia (il fascismo) dovunque si fabbrichi il qualunquismo che sgomenta e sfibra e rende quasi impossibile una serena valutazione delle scelte politiche; dovunque l'iperfurbismo, la macchinosità programmata per scavalcare gli altri diventano le strategie per essere i primi e per rimanere i migliori; dovunque si manifestino i congrui fini dell'intrallazzo scientifico, lì c'è il fascismo, che si serve di una rete di interessi organizzati e tutelati ai vari livelli, da quelli di clientela a quelli di mafia.
Fascismo è stata ed è là speculazione edilizia, la violenza disumana usata contro il verde delle città, gli alberi ed i giardini.
Fascismo è la burocrazia, con i suoi corridoi, i suoi meandri, i suoi misteri, il suo castello di carte e di fascicoli, il suo grigio e verticale labirinto, e fascista è l'alto funzionario che usa il suo ufficio per eseguire un piano discriminatorio o fare il gioco fazioso del regime o del partito al punto da diventare indispensabile anello del gruppo di potere.
Fascismo è anche la persuasione occulta e palese, non solo quella della pubblicità martellante e della ossessiva logica del consumismo, ma soprattutto quella della informazione unilaterale e sempre al servizio del più forte per alimentarne il mito in cambio di protezioni.
Il fascismo inteso come tenace volontà di conservazione delle posizioni acquisite, del successo ottenuto in politica o nella cultura, provocato dagli esagerati individualismi, quello dei presunti gruppi culturali che costituiscono il giro troppo ristretto cui è assolutamente impossibile accedere o quello delle baronie universitarie e delle camorre dei mercati generali, il fascismo meridionale. della mafia e il fascismo settentrionale centro l'inserimento « dei terroni », i fenomeni più deleteri, il veleno della democrazia.

Amore per i bambini

Ma è ancora fascismo il narcisismo di alcuni parlamentari; il divismo degli uomini di governo, il paternalismo dei nostri notabili, la facoltà di dire ad alcuni: vieni, ad altri: vai; l'antico vizio, infine, di temperamento degli uomini politici meridionali: il vizio della volontà democratica, l'egoismo, il sopruso, l'indulgere continuo con la propria personalità a dispetto ed a danno delle altrui e della collettività, la pretesa di arrogarsi tutti i valori, perfino quelli etici ed intellettuali.
Fascismo è l'opportunismo violento, quello delle carriere, degli incarichi, della raccomandazione e della discriminazione — le due componenti primarie della tirannide di sempre — ed affonda le sue radici dappertutto, perfino nei partiti dove si tenta di investire la volontà di base, di strumentalizzarla, ove un gruppo aggredisce ed elimina l'altro, ove gli spregiudicati primeggiano malgrado il disgusto degli altri, ove, a danno degli ideali, le cricche si formano nella ipocrisia della falsa democrazia e dove i congressi non servono che a voltare e a rivoltare il corpo putrefatto nei cui pori brulicano gli animaletti voraci ».

E la requisitoria continua con altrettante osservazioni sensate e vere e, penso, che questo peggior fascismo che riviviamo sia dovuto al fatto che quello che lasciammo, quando partimmo per la guerra, abbiamo ritrovato in uomini e mentalità quando siamo ritornati.
E la libertà? La democrazia? Bè, in parole tante volte ma... in compenso... le stesse sfilate (in verità poco oceaniche) ... la stessa storia dei bambini baciati ed amati... le stesse presentazioni di gruppi in costume.
Ed ecco le amarezze, le delusioni, le preoccupazioni di chi sperava di poter dimenticare passato e sofferenze in una vita e in una comunità migliorata e, civilmente, in progresso e che si trovano sintetizzate, in un angoscioso grido di allarme, nella conclusione del già citato articolo di Tufano: « Queste considerazioni derivano dalla necessità di chiedere una tregua a tutti coloro che così operando tramano contro la nostra libertà.
Il cumulo degli equivoci è enorme, la vita politica faticosa, la morfologia stessa dei politici è divenuta incomprensibile. Si chiede da parte di tutti, dai militanti di base ai cittadini, ai lavoratori chiarezza. Si chiedono fatti e non sillogismi, operosità e serietà di intenti. La nostra società vuole rinnovarsi, occorre perciò da un lato fiducia nei partiti e dall'altro maggiore credibilità negli uomini politici, la cui etica si degrada sempre di più nel gioco antico ed infimo del potere ».
E, credo, che sia meglio proseguire la mia passeggiata per la città e nei miei ricordi.