.

<< precedente

INDICE

successivo >>


PARTE VIII

Per uscire dal Largo Castellucci in direzione di Piazza Prefettura ci si incamminava per via XX Settembre. Vi erano portoncini con i gradini, due o tre, in pietra, e « fenestredde cu li 'graste appese » che, in fondo, costituivano la caratteristica di tutta la città, si potevano ammirare da un lato e dall'altro, tenuti con grande cura e pulizia.
La via XX Settembre, dopo un breve tratto, era attraversata da un vico che prima del novecento era chiamato « dello Spirito Santo » e dopo il novecento « Via Caserma Lucania », che dalla via Pretoria, attraverso la Porta San Giovanni e la Discesa San Giovanni, portava a Via Mazzini e, quindi, al Rione S. Maria. Poco prima dell'incrocio, sulla sinistra e, proprio dove ora vi è l'Albergo e il bar Monticchio, vi era la « Taverna d' lu Pietrahaddese ». Una grande stalla al pianterreno per alloggio e riposo delle « vetture » e le « vetture » erano i muli, i cavalli, pure l'asino ma l'asino non facilmente godeva di questo privilegio perché quasi sempre veniva lasciato in mezzo alla strada, legato alle « voccole », a quegli anelli di ferro battuto, che, di tanto in tanto si vedevano pendere dai muri delle case, attraverso grossi chiodi ben conficcati e resistenti ad ogni trazione, anche la più violenta.
Certo, così non veniva ripagata la bontà, la generosità, la pazienza, la laboriosità, la fedeltà del povero « ciuccio », che fu il vero amico e compagno di lavoro del nostro contadino. Forse, veniva lasciato fuori perché sul mercato valeva, certamente, meno di un mulo o di un cavallo ed anche un eventuale furto non costituiva un danno rilevante. Forse, proprio perché era più paziente e non avrebbe fatto male a nessuno, anche se insultato. Forse, perché era il più forte ed il più resistente alle intemperie ed alle malattie, comunque, raramente veniva gratificato delle comodità della Taverna. Forse, ed è una mia cattiveria ma potrebbe essere anche vera, considerando la mentalità degli uomini « padroni », perché non era ritenuto degno di stare in mezzo agli altri animali di statura fisica e di censo più elevati.
La Taverna era un ambiente comodo con le mangiatoie in legno, disposte lungo le pareti, sovrastate dalle rastrelliere, che contenevano il cibo, fieno, biada, e per terra anche la paglia per eventuale riposino più comodo, sdraiato e soffice.
Per noi che abitavamo a S. Maria era un passaggio obbligato ma, in verità, al di là dei comuni profumini emanati da tutti gli animali, altre puzze stomachevoli non le abbiamo mai sentite, evidentemente la pulizia della stalla era continua ed accurata.

Scorcio del Largo Cairoli a destra via Plebiscito, a sinistra via Cairoli.
 

L'Abside della Chiesa di S. Francesco con la scaletta e la porta misteriosamente scomparse

Al piano di sopra si accedeva dal portoncino sulla sinistra dell'ingresso della stalla, vi era l'alloggio per i padroni delle « vetture ».
Erano ben nove stanze con l'affacciata in via XX Settembre, via Caserma Lucania o all'interno in un patio molto ampio con giardino e fontana, su cui affacciavano anche le altre finestre di tutto l'isolato, che andava da via Pretoria a via XX Settembre, da Largo Castellucci a via Caserma Lucania.
Insomma, la Taverna del Pietrahaddese, detta così perché il padrone e gestore era oriundo di Pietragalla, era un vero e proprio albergo per cavalli e padroni e, forse, il termine « Taverna » non era molto appropriato sia perché non era un luogo spregevole per il genere dei clienti e sia perché non era una bettola o un'osteria malfamata. Evidentemente, però, il termine era usato proprio per posto di ristoro per uomini e animali, in senso buono e non dispregiativo, così come vi erano lungo le strade che congiungevano i paesi limitrofi a Potenza: la Taverna di Avigliano, la Taverna di Anzi, ecc..
Dopo il Larghetto Fratelli Cairoli, dove, specialmente la domenica, sostavano i contadini per vendere uova, qualche pollo o coniglio, verdure e prodotti vari della terra, in genere, e, a seconda della stagione qualche capretto o agnello piccolo e timido, che affacciava la testina impaurita dalla bisaccia, « li ranirinii, 'ncarch' 'nserte d' puparule, d'agli e cipolle », si procedeva verso la Piazza Prefettura per via Cairoli, di sopra, e per la continuazione di via XX Settembre, di sotto. La via Cairoli passava a fianco della Chiesa della S.S. Trinità e sbucava di fronte al vico Nicola Alianelli, mentre la via XX Settembre sbucava direttamente in Piazza tra la Chiesa di San Francesco e il palazzo Scafarelli, essendo direttamente prolungata da via Plebiscito, nel primo tratto piuttosto angusta e in leggera discesa, che si slargava in prossimità dell'abside della Chiesa di San Francesco, dove vi era pure il panificio di Calvi.
Attraversando questa via il ricordo cade, di necessità, proprio sull'abside della Chiesa dove vi era, come dimostra il documento fotografico, un'artistica scaletta, che portava ad un ingresso con una porta dello stesso legno, della stessa fattura e, quindi, della stessa epoca della porta centrale. Non mi è nota la vicenda della scomparsa della scaletta, della chiusura dell'ingresso con la scomparsa della porta, comunque, qualsiasi ragione si possa addurre non basta a giustificare l'atto di brutale violenza, consumata e contro la struttura architettonica della Chiesa e contro l'ambiente, che faceva da cornice; e contro la proprietà della Chiesa Stessa.
Certo, perché la Chiesa di San Francesco si faceva ammirare per la sua bellezza essenziale esterna, per il muoversi articolato dei volumi, armoniosamente misurati, per il suo portico, sul lato sinistro, con la fuga di archi che incorniciano l'arco gotico della sagrestia, sormontato dalla bellissima bifora, per il suo portale, la sua porta secondaria e l'ambiente.
Abolite le parti e l'ambiente, dell'opera si è fatto un mutilato, pressoché inutile alla funzione per cui era sorto, non più veritiero ricordo storico e giusto momento di studio, dell'ambiente uno scempio di oppressiva cintura di cemento armato, di vetri, di sconci con l'inversione dei termini nel rapporto uomo-spazioambiente.
Tutto è stato lecito e tutto è stato fatto, come in altri posti della città, come in tanti posti, ed è stato fatto con la scusa del risanamento perché il vecchio non reggeva più, ma, in verità, per sadica voluttà di distruggere la vecchia città, per volgare speculazione edilizia, per compiere, nello stesso tempo, anche la frantumazione del tessuto umano, che quella città abitava.
Andando per via Plebiscito viene spontaneo il ricordo della Biblioteca Provinciale. Era alloggiata nell'ultimo stabile a pianterreno, prima che la strada si slargasse nel Larghetto della Chiesa di San Francesco, sulla destra, subito dopo un antico e largo portone, dove, un tempo, vi era una locanda. Di fronte, sulla sinistra, vi era una tipografia artigiana, dove, in seguito vi prese dimora la trattoria Ciabatti.

Chiesa di San Francesco.
Interno con l'Altare Maggiore.

Tralascio le considerazioni storico-ambientali-culturali su cui si sofferma Giuseppe Monaco, attuale Direttore della Biblioteca Provinciale, nel suo opuscolo « La Biblioteca Provinciale di Potenza » edito nel 1980, a cura dell'Amministrazione Provinciale, per avere la conferma che la Biblioteca sorse ai primi mesi del 1900 e, come afferma il Monaco, si procedette ad una prima raccolta di volumi, di opuscoli e riviste, con una sorta di autotassazione bibliografica.
Molti furono i primi frutti delle fatiche letterarie dei promotori e le testimonianze di primo impegno culturale offerti alla Biblioteca nascente. Fra i protagonisti molti nomi di spicco della cultura lucana: l'ing. Giovanni Ianora, un appassionato cultore di cose patrie, l'avv. Sergio De Pilato, professionista poco meno che venticinquenne, giovane di bell'ingegno, che aveva iniziato i suoi studi sulla cultura nazionale e quella locale, il dottor Orazio Gavioli, studioso del territorio e naturalista, l'ing. Giuseppe Bonitatibus, cultore di geologia, Vittorio De Cicco, archeologo, il prof. Edoardo Pedio, storico e Ettore Ciccotti. Nacque, così, nel privato, un fondo bibliotecario che da solo non sarebbe, certo, sopravvissuto per l'esiguità dei mezzi.
La presenza — è sempre Monaco che scrive — dell'avv. Vincenzo Lichinchi, allora Presidente della Deputazione Provinciale, uomo molto aperto e sensibile, garantì l'interessamento ed il sostegno dell'Ente che dirigeva. Nacque così ufficialmente la Biblioteca Provinciale, con regolare regolamento approvato nella seduta del Consiglio Provinciale del 26 ottobre del 1903. La prima sede fu nello stesso palazzo della Provincia, che, disgraziatamente, fu danneggiato da un incendio.
Per fortuna fu salvato il materiale librario, che fu trasferito nei locali del carcere femminile, che era alla via Ascanio Branca, certamente danneggiato e che subì danni ulteriori perché ammucchiato per terra e esposto alle intemperie del tempo, attraverso i vetri rotti e gli infissi sfondati. Ci furono anni di completo abbandono, la prima guerra mondiale fece il resto, e se risorse, se i libri furono tutti recuperati, se la biblioteca giunse ai locali di via Plebiscito, dove la ricordo io, il merito va ascritto ad una sola persona, all'avv. Sergio De Pilato.
Entravamo veramente con il cappello in mano e in punta di piedi in quei locali al pianterreno di via Plebiscito, dove era ospitata la Biblioteca Provinciale. Erano locali angusti, scomodi, inadatti al servizio e che richiedevano particolari doti di equilibrismo e di pazienza da parte del personale addetto, ma esercitavano lo stesso tanto fascino sui patiti del libro e della cultura, in genere, per la quantità dei volumi, che mostravano bene allineati e ordinati, per la possibilità che ci offrivano di poter toccare con le nostre mani quei volumi, di poterli sfogliare, leggerli, scopiazzarli, mandare a memoria qualche cosa, fare riassunti di altre o del tutto.
Quante volte, ragazzo, ho sognato quella Biblioteca, forse, l'ho sognata anche da adulto, pur avendo soddisfatti tanti desideri, ho comprato tanti libri per necessità e per passione, ma i libri non sono mai troppi. Ma la grande biblioteca, almeno per noi italiani, è veramente un sogno proibito perché i libri non hanno mai avuto e, tantomeno lo hanno ora, un prezzo accessibile a tutte le tasche. Costano i libri leggerini per la mezz'ora di svago in poltrona e pantofole ma costano sempre di più i libri di interesse culturale e scientifico per cui quel cibo, che dovrebbe essere sempre più somministrato e gratuito, diventa sempre più proibito.
Eppure siamo in un periodo in cui si parla, forse troppo e troppo a sproposito, di cultura e credo che mai vi fu periodo di così grande abbandono del libro. " Chi ha libri ha labbra " dicevano i nostri genitori e fecero di tutto per potersi procurare qualche libro per " sapere " e per poter parlare, sapendo, e non parlavano se non sapevano e, oggi, non si può leggere, non si legge ma si parla. Scorrono fiumi di parole in un deserto di sapere e anche in questo hanno fatto scuola i politici. Si susseguono e si inseguono feste di unità, di amicizia, di repubblica, di gay e gaiesse, con godurie varie di pancia e sottopancia ma nessuno, e in nessun paese, organizza feste del libro con distribuzione gratuita di libri invece di pizze, panini e Coca-Cola, sorrisi, paccate sulle spalle e promesse in cambio di voti.
Come tanti giovani della mia epoca amai quel luogo di studio e di meditazione, che tanto contribuì alla nostra formazione, che tanti interessi seppe accendere e coltivare in noi, quando, rincantucciati in qualche angolo libero di un tavolo in comune, sfogliavamo ansiosi pagine ingiallite dal tempo o non ancora ingiallite alla ricerca di notizie, idee, ideologie, concetti, dati, critiche, appassionatamente, religiosamente. Eravamo lì a soddisfare le nostre necessità, le nostre passioni, confortati da quei pezzi preziosi, che ci venivano consegnati con un rituale, che, se era sempre lo stesso nei tempi e nei modi di esecuzione, era sempre diverso per la carica emotiva, che suscitava in ognuno di noi e la carica emotiva era il più delle volte in rapporto al peso qualitativo e quantitativo del libro.
Eravamo confortati dalla cordialità, dalla pazienza del buon Michele Ostuni, che aveva imparato ad esprimersi con il silenzio dei gesti più che con il rumore delle parole, proprio come richiedeva l'ambiente, dalla grazia, signorilità e competenza della signorina Pica, a cui la natura non dette bellezza e avvenenza fisica ma qualità d'intelletto e tanta bontà.
Ma ricordare la Biblioteca Provinciale sarebbe un ricordo vuoto se non ricordassi chi materialmente la fece, chi profuse le sue energie fisiche, spirituali, intellettuali per lustri e lustri, chi per propria fame di sapere, per passione, nella sicurezza di fare opera grande e meritoria, sopportò umiliazioni, mortificazioni, ingiustizie: l'avvocato Sergio De Pilato.
Il mio vuole essere, innanzitutto, un modesto ricordo affettuoso e doveroso di don Sergio, che non mi disdegnò giovane, anzi, intuendo il mio carattere, il mio animo, i miei problemi con un fiuto tutto suo e tutto particolare, mi fu prodigo di consigli e di aiuti, che tanta stima ebbe di me adulto e professionista ma vuole essere un appunto agli immemori e agli ingrati perché parlare della cultura di Potenza significa parlare anche e soprattutto di Sergio De Pilato.

L'avv. Sergio De Pilato

Che non si ripetano gli errori e le idiozie del passato allorché piccoli uomini per cose troppo grandi e troppo serie non solo l'allontanarono dalla Direzione della Biblioteca, senza motivi plausibili; non l'invitarono nemmeno alla cerimonia ufficiale della inaugurazione della nuova sede, quella attuale, per la quale il buon don Sergio si era tormentato ed aveva lottato, ma tentarono di sotterrarlo con la maldicenza e la cattiveria.
Cose di ieri, cose di oggi e ,forse, anche cose di domani e cose di sempre e fino a quando l'umanità si ciberà di meschinità, di invidia, di protagonismo, di miti non potrà produrre che stupidità, ingratitudini, miserie. Credo che questa sia stata una delle più grandi colpe della Potenza di tutti i tempi.

Veniva accantonato così l'uomo che " della Biblioteca — egli scrisse nel suo, ormai, rarissimo opuscolo stampato a Milano nel 1941, dal titolo " Trent'anni alla Direzione della Biblioteca Provinciale di Potenza (1911-1941) — ho cercato di fare un centro vivo, un focolare che irradiasse insieme una fiamma ed una luce di cultura, questa intesa non come arida e gretta erudizione ma come diffusione del movimento spirituale, letterario, artistico, scientifico, politico del tempo ».
Veniva mortificato, così, l'uomo che, stando alla bibliografia curata da Tommaso Pedio, aveva scritto ben 135 lavori, oltre molti articoli di cui si è perduto traccia, manoscritti mai pubblicati, altre cose, certamente curate e scritte di cui non si è saputo più niente.
Una produzione vasta ma notevolmente varia perché il De Pilato era capace di affrontare temi di storia, di filosofia, di filologia, di altra natura e non in maniera superficiale ma sempre con approfondita capacità di saper cogliere l'essenza delle cose e dei problemi.
Nacque a Potenza il 25 marzo del 1875, il padre Gerardo era oriundo di Oppido Lucano, mentre la mamma Ester Arbarella d'Afflitto, era di origine napoletana. La sua fu una famiglia numerosa, ben dieci tra fratelli e sorelle.
A soli vent'anni era brillantemente laureato in giurisprudenza e poco dopo iniziò la carriera forense, alla quale mantenne fede per tutta la vita e che onorò con la sua competenza, la sua preparazione, la sua grande onestà, pur se trascinato da naturale istinto al giornalismo ed agli studi letterari. Ebbe una esistenza lunga, certamente travagliata e contrariata, feconda, ma sul suo viso vi fu sempre il sorriso ed il sorriso per tutti, mai un segno di stanchezza, di irritazione, di noia, di fastidio.

E concludo questo breve ricordo con le parole di Pietro Borraro, di recente tragicamente scomparso, che del De Pilato fu successore alla Direzione della Biblioteca e grande estimatore, pronunziate durante la conferenza tenuta al Teatro Due Torri, nel 1968, ad iniziativa del Liceo « O. Orazio Flacco »: « ... Non già che fosse un asceta o un Santo ma, dirò con Elliot, nella saggezza non aveva perduto la conoscenza dell'uomo, anzi, l'aveva rinvigorita con un esame approfondito della sua gente, della sua terra, a cui tutto donava e si donava con la certezza di non averne altro in cambio oltre la coscienza del dovere compiuto, religione intima ed ineffabile nutrita di rispetto e di silenzio, nella quale credeva con incrollabile fede. Basterebbe solo questo lato della sua personalità per intuirne l'intelligenza, per capire quest'uomo che per tutta la vita fu un incompreso, quasi esule immeritevole nella sua stessa terra, nella quale raccolse una messe di ingratitudini che avrebbero piegato qualsiasi volontà che non fosse la sua, cresciuta ed educata alla maniera di Giustino Fortunato, sopra balze e dirupi ».
Beata natura umana ma un insieme, certo, di pregi e difetti e se così non fosse non troveremmo la spiegazione del « chi fa benevole esse accise ». Così sentenziavano gli antichi con la loro infallibile saggezza e, in tutti i tempi e in ogni luogo, i benefattori morali, spirituali, materiali non hanno avuto che queste ricompense.
Il luogo, infatti, il forno mi portano al ricordo di un altro personaggio della Potenza, purtroppo, scomparsa: il Comm. Domenico Calvi, « Minguccio » per gli intimi, « don Mimì » per gli altri.
Un uomo semplice, dall'aria scanzonata, quasi distratta, con i baffetti alla Douglas Fairbans, l'immancabile sigaretta fra le labbra, che pure amò la gente, che pure fece del bene, pagando in proprio e di persona, che pure ebbe ingratitudini, dispetti, che troppo presto è stato dimenticato.
Sfidò le bombe dell'8 e del 9 settembre del 1943 e rimase in città insieme ai fornai e operai per panificare, per distribuire « gratuitamente » il pane alla gente, che scappava atterrita, sconvolta, affamata. Non lo fece per ricevere ringraziamenti o ricompense al valore, lo fece per innata bontà, per spirito di comprensione, compassione, era schivo di elogi e complimenti ma la gente, ahimè, come è ingrata. Negli ultimi anni della sua vita e, forse, anche in difficoltà economiche, nessuno lo conosceva. Eppure se la squadra di calcio sopravvisse alla bufera degli anni difficili del dopo-guerra fu opera di Mimì Calvi o, per meglio dire, sopravvisse anche grazie al portafoglio di don Mimì, alla sua grande generosità.
Scrive Pino Gentile, collega giornalista e compagno di battaglia nei settimanali locali « Nuovo Corso » e « Tribuna di Basilicata », a pag. 121 del suo libro « In fondo al Sacco »: « Il suo amore per il Foot-Ball lo porta a esporsi a sacrifici finanziari notevoli.
Il Potenza Sport-Club è ben presto ricostruito, anche se siamo ai tempi eroici del calcio. Basta pensare che si viaggiava su un camion che trasportava quotidianamente il grano al mulino dello stesso Presidente Calvi ». Anche don Mimì non era in corsa con i tempi e peggio sarebbe stato oggi ma ricordarsene non è superfluo, dimenticarsi di tutti e di tutto è ingeneroso, è orribile.