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PARTE X
(continuazione 2)

Soltanto dopo la caduta del fascismo io ho sentito che tutti erano stati male, « Dio lo sa che cosa ho sofferto » ma non tutti andarono esuli e nessuno preparò la controrivoluzione, evidentemente perché tanto male non stettero e quello che dissero dopo furono affermazioni di circostanza e interessate, come, in fondo, non stette, poi, tanto male nemmeno il Presidente Loschiavo, ossequiato, riverito e spesato!
Già all'altezza del portone della signora Ada arrivava, quasi assordante il vociare della gente e le grida degli ambulanti della Piazzetta Duca della Verdura, comunemente detta « Piazzetta del Pesce ». Era il posto dove si trovava un po' di tutto, in particolare i prodotti dell'orto, ma si trovava il pesce, i formaggi, le bancarelle erano tante ma vi erano anche i negozi, nei locali intorno alla piazzetta, per lo più beccherie. Una visita d'obbligo la facevano tutte le mamme alla piazzetta e, non solo per comprare, ma per rendersi conto del mercato e anche dei prezzi, delle novità stagionali e della qualità.
Di fronte alla Piazzetta, dove, oggi, vi è la tabaccheria Saluzzi, vi era un « Bar-Pasticceria », direi poco bar e ancor meno pasticceria perché aveva un po' di biscotti nelle scatole di latta e niente pasticceria fresca, qualche bottiglia di liquore e una macchina per il caffè, di quelle come una torre con una specie di piccola aquila sulla volta, per lo più fredda e mai sotto pressione, clienti, in verità, non ce n'erano molti. In compenso, però, vi erano molte qualità di cioccolatini e tante, ma tante caramelle di diverse forme, di diversi colori, di diversi gusti, non mancava il bastoncino di liquirizia e le giuggiole, ma non mancavano i confetti, i cannellini e, nemmeno, lo zucchero vanigliato e quei minuti confettini, dai mille colori, con cui si ornavano le torte fatte in casa.
La proprietaria, a cui madre natura non aveva dato altezza e nemmeno bellezza e neppure un marito, aveva garbo e pazienza, tenuto conto che la maggior parte della clientela era fatta di bambini, che andavano a spendere i centesimi, tutt'al più il soldo.
Sembrava una donna apatica, sempre distratta, afflitta da preoccupazioni ma, credo, più che da problemi economici fosse afflitta da problemi di salute.
Ma il gran bar e pasticceria era poco più lontano, nei locali del negozio di tessuti del buon Ciccio Solimena, da poco scomparso.
Più locali, ben divisi, la sala con tavolini in ferro battuto e piano in marmo, sedie, vetrinette in legno pregiato e lavorate, il bar con la macchina per il caffè ed altra attrezzatura, il laboratorio, due entrate e vetrina, sempre aggiustata con gusto e ben fornita, e c'era lui, il padrone, il signor Viggiani, eccellente pasticciere, un pezzo d'uomo, pletorico, ansimava anche quando parlava con gli amici, non so se fumasse molto, di lui si diceva bene ma si diceva anche tanto male e si disse anche dopo la sua morte, specialmente nel giudizioso periodo dei voltagabbana. Per i più era « capatazza fascista » terribile ed anche manesco, non so se fece volare qualche schiaffo di più ma non, certo, l'Ospedale cittadino rigurgitò di sue vittime.
Non mi risulta che qualcuno l'abbia mai preso di petto e che tutto sia stato contenuto « in iure murmurandi ».
Un giorno, in via Pretoria, mi si avvicinò un frettoloso signore, che mi sussurrò in un orecchio « dievatt' e fa passà stu curnuto! ». Passava un poveraccio, orfano da anni di madre, figlio unico, celibe e che, tutt'al più, aveva fatto diventare cornuti gli altri e, forse, anche il mio frettoloso suggeritore.
« Lu parlà è art' deggia » mi disse un amico, bersagliato dalle malelingue, ma anche il parlare andrebbe contenuto e circostanziato, non dimenticando che « ne uccise più la lingua che la spada » e non è giusto nemmeno come rispose a me, che l'avevo dolcemente redarguita, una certa signora, che snocciolava tutto il rosario delle maldicenze contro la sua vicina di casa: « ...ah! ...duttore mio... dasc'mi gì ca pure la dengua s'adda sfuà! ». Qualche volta si potrebbe sfogare pure a dire bene, non si perde niente.
Della Chiesa della Santissima Trinità mi sono occupato poco quando ho ricordato don d'Elia ma non ho ricordi personali. Posso affermare che è stata sempre linda e pulita, come, del resto ancora oggi, anche di un certo tono civettuolo, pure per il tipo di fedeli, che la frequentavano, bastava fermarsi nei paraggi per la Messa della domenica e festiva di mezzogiorno e mezzo: le signore « in ghingheri » con sfarfalloni di cappelli (o paglie, a seconda la stagione) si sprecavano.
Ed eccomi all'ultimo tratto della via Pretoria prima di entrare in Piazza Prefettura e, qui, mi riposo in ricordi simpatici e graditi.
La sala da barba di don Gerardo Di Pietro, facciata d'ingresso di marmo rosa venato, porta a due battenti di cristalli pesanti con maniglia di ottone sempre lucida, all'interno, all'esterno prima la « porta a 'ddegna » e, poi, a olocausto delle porte a 'ddegna compiuto, la solita saracinesca, che faceva rumore anche quando era abbassata e la tramontana infilava « la strara » e i suoi utenti obbligati o a diporto. Era un locale molto accogliente con comode poltrone e grandi specchi con enormi cornici, di pregiata fattura. Era simpatico ed accogliente lui, don Gerardo, magro, piccolino, con un paio di baffetti alla « Vittorio Emanuele » ingialliti dalla nicotina, due piedini piatti dall'uso con le punte deviate completamente ad est e ad ovest, secondo un'antica e non spenta caratteristica dei barbieri, fine nei modi, educato per costituzione. Aveva servito sempre una clientela di un certo riguardo. Di una riservatezza da rasentare l'esagerazione arrossiva anche quando lo scoprivo io per visitarlo e gli ultimi anni della sua vita, che dovette trascorrere nella casa di uno dei figli e tra nuora e nipote, proprio per questo suo carattere, furono di grande disagio. Il figlio Modestino, giovane simpatico e intraprendente, irrequieto, ufficiale della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale, dove raggiunse alti gradi, fu valoroso combattente d'Africa e di Spagna: un esempio di dovere per la fede, nella fedeltà.
A qualche metro dalla sala da Barba di don Gerardo Di Pietro, nei locali, dove vendono, oggi, frutta e banane, vi era il negozio « chic » per cravatte, cappelli, ombrelli, bastoni e biancheria di prima scelta. Erano articoli delle « premiate » e rinomate case italiane, di cui il negozio ostentava anche diplomi e quadri reclamistici.
I signori della cravatta, del cappello e del bastone di grandi marche, erano don Amedeo e don Aristodemo Satriani. Io li ricordo già sulla sessantina, distinti, ossequiosi, sempre rasati e con i baffetti, vestiti bene e sempre di scuro, con colletto inamidato e cravatta a farfalla, erano, insomma, l'espressione del carattere e del tono del loro negozio. Il più loquace era don Aristodemo ma di una loquacità molto controllata e, talvolta, fatta anche di pause, piene di mistero, sempre molto fantasiosa, in genere, però, convincente, in sostanza, sapeva presentare e vendere. Don Amedeo, in genere, prelevava dalle scansie l'oggetto, che raramente faceva toccare dal cliente, si misuravano solo i cappelli, ma era don Aristodemo che misurava, che diceva che a quella faccia, a quella persona stava bene il Borsalino e non il Panizza e che proprio quel tipo di Borsalino era quello che portava Camillo Benso di Cavour, ai suoi tempi, che quel tipo di bastone aveva visto in mano a Zanardelli, quando venne a Potenza, che quel tipo di guanti usavano i grandi ufficiali di cavalleria. Tutto faceva brodo ma per loro faceva anche soldi e, mi pare, che i fratelli Satriani fossero stati degli antesignani perché, oggi, le ditte per vendere meglio si servono della firma degli stilisti essi si servivano del nome di Cavour o di Zanardelli o di altri. Non mi pare fossero stati troppo in odore di santità con il fascismo anche perché il fez e la sahariana toglievano clienti. In fondo, due signori negozianti pieni di saper fare ed anche di gusto, con predilezione verso determinati articoli ma, innanzitutto verso una clientela più scelta.
E all'angolo, dove fu la succursale del Banco di Napoli e dove, oggi, vi è la gioielleria Lamorgese, vi era l'Agricom, una banca con corrispondenti in molti comuni della provincia di Potenza, che occupava, oltre il pianterreno con la cassa e l'ufficio riscontro, anche i due piani soprastanti con la Direzione e gli altri servizi.
Questo dell'Agricom è un ricordo che se, da un lato, ancora mi « brucia » perché fu determinante nella mia scelta di vita e della professione, dall'altro, posso affermare che il mio rapporto di lavoro con la banca mi fu utile per l'esperienza che mi offrì, per le conoscenze di uomini e vicende che feci.
Non mi ero ancora riavuto dalla stanchezza, l'emozione, la gioia della « conquistata » maturità classica, i quadri furono affissi nell'atrio del Liceo il 21 luglio, che il 1° agosto mi ritrovavo dietro lo sportello fra moduli, cartelle, numeri con a fianco una cassaforte ed un tiretto pieno di soldi, di cui sapevo l'esistenza ma non avevo mai visto prima. Mi sentivo un pesce fuor d'acqua fra cose e persone, di cui non conoscevo nemmeno l'esistenza, impacciato anche perché tirato a lucido e stirato in un inconsueto abito scuro con camicia e cravatta, era di agosto, e anche « strigliato » bene dal direttore sui comportamenti e modi da usare con i clienti e con i compagni di lavoro.
Come vi ero entrato? Senza alcuna mia partecipazione o richiesta e nemmeno interessamento di mia madre, che, fra l'altro, non conosceva persone in condizioni di darle una mano. Un signore, che, per diversi motivi, esercitava un certo potere nella banca e che conosceva, indirettamente, la mia famiglia e le nostre condizioni di bisogno, propose la mia assunzione e la Direzione, dopo aver esaminato il mio curriculum di vita studentesca, mi fece arrivare la lettera per prendere servizio. Così, mentre i miei professori del Liceo preconizzavano un mio futuro sulla cattedra, mentre io mi vedevo già sulla strada della realizzazione del mio sogno di diventare medico, mi trovai, improvvisamente, fra conti e ragionieri, deluso, amareggiato, con qualche imprecazione ingenerosa e irriconoscente verso il mio santo protettore ma, in compenso, con un grosso stipendio mensile: 344 lire e 25 centesimi! (ed era veramente molto). Si lavorava molto, si conosceva l'orario di entrata, 8,30, ma già alle 8,25 il direttore aveva prelevato il foglio di presenza, ma non si conosceva l'orario di uscita e poi vi era anche il supplemento alla giornata perché, a turno, la sera, talvolta anche fino alla mezzanotte, si scendeva nello scantinato, dove erano le presse-copia lettere per sorvegliare il commesso di cassa, il paziente e buon Ermenegildo Claps, perché eseguisse regolarmente le sue mansioni, compresa l'inclusione nelle lettere di tutti i valori bollati. Questo turno molto spesso capitava a me, talvolta per preghiera dei miei colleghi impiegati con famiglia, talvolta per deferenza verso la loro età e la loro anzianità di servizio. Ho fatto sempre del lavoro la ragione della mia stessa vita ed ho lavorato, comunque, di notte e di giorno, volentieri, con zelo ma non riuscii, assolutamente, ad affezionarmi a quel tipo di lavoro piatto, noioso, senza stimoli e senza fantasia, ricavandone, a mano a mano che passavano i giorni, un malessere fisico e psicologico ed un odio per i numeri e i conti.
Non ho fatto più conti in vita mia, non ho più contato nemmeno il resto della spesa!
Questo mio particolare stato di malessere non sfuggì, certamente, a mia madre, che già aveva preventivato lo scoppio della bomba, che non si fece attendere.
Dopo sette mesi di servizio, nonostante fossi già in pianta stabile, fra il dispiacere del Direttore, severo, forse, eccessivamente, ma comprensivo, il ragionier Raimondo Maccio, il disappunto dei miei colleghi, che mi avevano trattato affettuosamente come un fratellino, probabilmente, piccolo, magro, ubbidiente, come ero, facevo anche tenerezza, presentai le dimissioni, con l'avallo della firma di mia madre perché ero minorenne, chiedendo l'immediato esonero dal servizio. Rinunziavo ad una carriera quando la piccola banca era stata già assorbita dal Banco di Napoli e, perciò, ho detto che il ricordo « mi brucia » ancora oggi perché nella vita di ognuno di noi, e io incluso, vi sono i dubbiosi e indefinibili « se », che durano quanto dura la stessa vita ma, credo, di aver ubbidito ad una « chiamata » del destino, e, sono convinto, di aver ubbidito con passione, con abnegazione e spirito di sacrificio, con amore verso la professione medica e verso la gente, con onestà. Ogni altro giudizio lo lascio agli altri, ai miei colleghi, che ho sempre stimato ed amato, come me stesso, alle migliaia di pazienti, che si sono serviti di me e della mia opera, che accetto con la coscienza, tranquilla e serena, di chi ha fatto il suo dovere, oltre il limite delle sue stesse forze fisiche, psichiche e intellettuali. E' un'affermazione che faccio senza sicumera ma con la modestia, che mi ha sempre guidato e contraddistinto, e, proprio, perché sono al « consuntivo » della mia vita professionale e di uomo.
E' un ringraziamento a tutti coloro che mi hanno onorato con la loro stima, la loro fiducia e che, nello stesso tempo, mi hanno fornito i mezzi e gli stimoli per diventare « migliore », innanzitutto, nell'animo ma anche socialmente e culturalmente. Uno show personale? Mi sentirei mortificato al solo pensarlo ed ancora più mortificato se lo dovesse pensare uno solo dei miei cari lettori. L'ho scritto perché è un mio ricordo ed io stesso sono, ormai, un ricordo della mia città ma l'ho scritto per ricordare quei miei amici, che appusirono fra i numeri, senza l'aiuto delle macchine calcolatrici, i ragionieri: Granata, capo contabile, d'Antonio, Giubilei, che nella lunga notte del 30 dicembre non riusciva a quadrare i conti perché esausto dalla stanchezza continuava a sommare 6+7 = 12 in una maledetta e affollata colonna di numeri, le signorine Moccia, Gallo, Laurita, segretaria del Direttore, il flemmatico commesso Pergola, il lungo, astenico, distonico cassiere Peppino Pace, che, al mio ritorno dalla guerra, non trovai perché perito sotto le bombe alleate dell'8-9 settembre del 1943.
L'ho scritto perché attraverso la porta a vetri, sulla via Pretoria, alzando gli occhi dalle carte e dai numeri, io vedevo, tutti i giorni e più volte al giorno, l'Albergo Lombardo, di cui non v'è più traccia ma che rappresentò una vera « istituzione » della vecchia Potenza. E, questa volta, concordo con il Loschiavo, che, a pag. 81 del suo già citato libro, ha scritto: « ...Ciò perché il " Lombardo ", come il famoso battello dei Mille, nella piccola città ha adempiuto ad una funzione storica a tutta la vita di Potenza, della provincia e della regione si può dire che fisiologicamente e intellettivamente è passata da lì, ospitando, fra l'altro, tutte le persone più rappresentative colà convenute ». Ed io, aggiungerei tutti i più grandi attori dell'epoca, le più belle compagnie teatrali, dalla lirica alla prosa all'operetta, tutta una clientela scelta ed anche « chic », adescata dal punto centrale dell'albergo, dall'ambiente e dai modi signorili ed ospitali del personale di servizio, nonché dalla squisita e rinomata cucina e, soprattutto, dai padroni, don Giovanni Boccia, il padre, don Antonio, il figlio, due personaggi caratteristici anche fisicamente, tarchiati, con la buona pancetta aristocratica, con due teste rotonde e lucide, come due palle da bigliardo, in tutto somiglianti a quel « Kojach », attore americano di films gialli.
Ebbi la sfortuna di assistere alla fine velocissima di don Antonio, per una violenta, irrefrenabile enterorragia, che non esiterei a definire « torrentizia », che, per fortuna, può capitare una sola volta nella vita di un medico e, solo, di qualche medico e che non dà scampo al paziente e, allo stesso medico, non dà nemmeno il tempo di poter aprire la sua borsetta di pronto soccorso.
L'Albergo fu tenuto ancora aperto dalla vedova di don Antonio, la signora Elvira, che, pur fra tante e comprensibili difficoltà, dimostrò coraggio e sufficienti capacità fino alla chiusura ed alla distruzione anche dello stabile.
Ho scritto del mio episodio di bancario per non dimenticare di citare. che, prima dell'Agricom, nei locali a pianterreno, vi era il « Caffè Italia », piccolo e civettuolo ritrovo per uomini di bella vita e biricchini, dove era possibile l'avventura galante con l'attricetta o la ballerina, che alloggiava al Lombardo, o con qualche farfalletta piovuta da fuori nei giorni di festa.
Ma si faceva tutto con molta discrezione e decenza e non solo perché « il paese era piccolo e la gente mormorava » ma per quel pizzico di rispetto verso se stessi e verso la società potentina, che è stato, in fondo il sale buono e misurato di tutte le nostre azioni.
Comunque, allora, in quel « caffè » faceva il vuoto intorno e strage di uomini « Alfonsina », meglio conosciuta, in seguito, come « signorina Quacqualà ». Non era una bellezza da « Madonna di Raffaello » ma, certamente, una « prorompente maggiorata » tale da suscitare occhiatacce invidiose delle donne e occhiate vogliose degli uomini, a cui tormentava i sonni della notte. Rimase nostra concittadina ma cambiò mestiere, fornita di automobile e di borsetta con lo strumentario necessario ed adeguato, si fece callista e « medichessa dei piedi », visitando e « operando » a domicilio una nutrita clientela, sollevandola da penose sofferenze.

Nella foga parolaia della "stirpe dalle culle piene".

Ed eccomi a Piazza Prefettura, già dell'Intendenza, poi piazza del Mercato, quindi, piazza Mario Pagano ma sempre detta piazza Prefettura e soprannominata « piazza Polmonite » per via di quei maledetti e inclementi spifferi di vento, da cui è stata, in ogni tempo investita, impietosamente. Fu seconda ma solo nel tempo a Piazza Sedile perché la presenza della Prefettura, degli Uffici Giudiziari, del Teatro Stabile le dettero il tono e l'importanza di prima della classe, che ha, poi, conservato. Ospitò, così, grandi manifestazioni di popolo e di elite, soldati, fanfare e grandi orchestre, il Re Umberto I e la Regina Margherita, in occasione dell'inaugurazione del Teatro Stabile, del Re Vittorio Emanuele III e del Principe Ereditario Umberto, il 30 agosto del 1925, per l'inaugurazione del Monumento ai Caduti, sistemato in Piazza XVIII Agosto, e per la posa della prima pietra dell'Acquedotto Pugliese, che avvenne in uno scavo preparato all'ingresso di via Angilla Vecchia, tra il palazzo dei nobili Viggiani, sparito, e la villa Comunale. Accolse i più grandi uomini politici del tempo prefascista, del tempo fascista, fra cui Bottai, Starace e lo stesso Mussolini, che, il 30 agosto del 1936, in divisa di Maresciallo d'Italia, aveva assistito alle grandi manovre dell'Esercito nell'Irpinia, pronunziò dal balcone della Prefettura, di fronte ad una folla, veramente oceanica, non vi era spazio nemmeno per uno sputo, con la sua solita enfasi oratoria e il suo inconfondibile stile letterario, un caloroso discorso, inneggiante alla generosità della nostra Terra e delle nostre genti e alla fecondità del nostro popolo. Un discorso retorico-demagogico? Non ho l'abitudine di associarmi ai giudizi degli altri anche perché li so coniati da quelli che erano fra quella folla a spellarsi le mani per gli applausi, da quelli che vollero che quel discorso, stampigliato su marmo a grossi caratteri, fosse affisso sulla facciata del Palazzo della Prefettura, sulla sinistra di chi guarda. Era là quando sono partito per la guerra, non vi era più quando sono ritornato. Se fu un atto servile il primo, di cui il Dittatore, certamente, non si accorse, a meno che non gli avessero inviato un attestato fotografico, il secondo fu, non solo, un atto più servile verso i nuovi padroni, esterni ed interni, ma fu una bruttura ed inutile atto vandalico. Ho detto « inutile atto vandalico » perché ogni distruzione è vandalismo, inutile perché non è servito a cancellare la storia e, piaccia o non piaccia, « quel 30 agosto del 1936 e quel discorso » fanno parte della storia della nostra città, così come la visita di Zanardelli. D'altronde, l'hanno distrutto i potentini, e non so di sicuro se l'hanno distrutto o se il marmo giace negli scantinati di qualche palazzo di uffici governativi, pronto per essere rispolverato e riesumato in altre maleaugurabili simili occasioni, ma il discorso non lo tengo solo io, modesto raccoglitore di carte, ma è in tutti gli archivi storici, nelle biblioteche, nei giornali dell'epoca. Accolse tutti gli uomini politici dell'antifascismo e riservò anche per loro folla e omaggi: da Pertini a Nenni, a Togliatti, a De Gasperi, a Saragat, a Fanfani, a Moro fino agli ultimi nati. Che popolo buono è il nostro! Quando si tratta, poi, di forastieri diventa anche tre volte buono. Ho sempre creduto e continuo a credere che, in campo politico, siamo dei meteoropatici, pronti a subire l'influsso del « vento », che, fra l'altro, non è stato mai « vento del Sud » ma sempre « vento del Nord »: sentir parlare « sci-sci » ha avuto sempre un certo effetto su di noi, aumentando le nostre capacità servili eppure i « polentoni » o ci ignorano completamente o ci schifano abbondantemente.

Così rimasero quelli dell'U.N.P.A. a vegliare sui destini della città ...

Aldo Moro fu ospite della nostra città e di Piazza Prefettura anche durante il periodo fascista, quando era studente universitario e non so se avesse letto già nel suo destino il suo futuro. Accompagnava il padre, ispettore ministeriale per le scuole elementari, e mentre il padre si aggirava fra scuole e uffici scolastici, guardando, ascoltando, annotando, consigliando, il figlio si aggirava per la nostra città, in compagnia di Attilio e Aldo Viola, anche lui guardando e ascoltando ma sembrava senza interesse. Pallido, allampanato, non era, certo, l'immagine della buona salute, anzi, dava l'impressione di essere un ospite della nostra città, convalescente di malattia, venuto a respirare un po' della nostra aria, rinomata e ritenuta sana-malati.
Piazza Prefettura raccolse le lagrime delle spose e delle mamme di quei nostri concittadini che partirono per le guerre, 1911, 1915-18, 1936 « il battaglione Lupi della Lucania » per la campagna d'Africa, 1940. Ma raccolse palpiti e sospiri di amanti e innamorati, di gente spensierata e benestante, di perditempo, di gente povera e preoccupata e non solo della situazione economica ma perché aveva da fare con la Questura o con gli Uffici Giudiziari o con gli Uffici della Prefettura o della Provincia.
Non ricordo la Piazza ai tempi della parata militare del 1908, in occasione della Festa dello Statuto, ma ricordo la Piazza con gli alberi, le carrozze, i lampioni, che avevano tre bracci con tre lampade all'ingiù. A proposito delle tre lampade dei lampioni circolava voce che fosse stata una vittoria, fra tante sconfitte subite nella stessa seduta di un consiglio Comunale pre-fascismo, dei massoni: 3 come 33!
Ricordo la Piazza prima delle sopra-elevazioni, degli scatoloni di cemento armato, che, forse, nel proponimento di darle una veste nuova, l'hanno imbruttita. Era una piazza semplice che, con qualche ritocco d'antico, avrebbe potuto costituire l'ambiente vero ed idoneo al Teatro Stabile, allo stesso Palazzo della Prefettura, alla Chiesa di San Francesco. Conservare il « rudere » senza il suo ambiente non ha senso, svilisce il valore del « rudere » e non fa visitatori.
Ricordo il « Caffè Pergola » nella sua antica attrezzatura, tanto suggestiva, i pesanti tavolini di marmo, dal piede in pesante ferro, artisticamente lavorato, con la vecchia caffettiera, che fischiava e cacciava vapore acqueo, come una di quelle locomotive in uso sulla Napoli-Potenza o sulla Potenza-Foggia, i suoi frequentatori, austeri nell'aspetto e nel vestire, che tanta soggezione incutevano a me bambino. Il « Pergola » custodiva per i potentini, come il « Pedrocchi » per i padovani, come il « Michelangelo » per i fiorentini, un nobile retaggio spirituale e sentimentale. E non soltanto perché conobbe ed ospitò uomini insigni della politica, della cultura, dell'arte ma perché fu il centro della reazione: quella contro la tracotanza del conquistatore piemontese e quella contro il fascismo.
Dal « Caffè Pergola » partì la miccia che accese focolai di rivolta in città contro il piemontese invasore ed oppressore e culminati con piccoli fatti di sangue allorché lo spavaldo generale, comandante della guarnigione e governatore militare della città, colpì, in pieno volto, con una frustata, il barista, che invece di servirgli subito il caffè aveva indugiato per chiedergli, civilmente ed educatamente « con lo schizzo o senza lo schizzo ». Lo « schizzo » era, in genere, la spruzzatina di anice.

Nel « Caffè Pergola » faceva crocchio l'opposizione al fascismo e nel « Caffè Pergola » e davanti al Caffè furono distribuite le « famose purghe di olio di ricino », a dosi alte e tali da sterminare un animale in buona salute, circa un quarto di litro!
Una delle vittime fu l'avvocato Gerardo Palermo, noto e valente penalista della nostra città, nativo di Pignola, che aveva sposato una cugina di mia madre, Adele Nardiello. Naturalmente, la prima ad accorrere fu mia madre, che rimase profondamente sconvolta sia per le precarie condizioni del povero avvocato, distrutto da dolori addominali violenti con vomito e diarrea, sia per l'episodio in sé, che definiva « disgustoso e cattivo ».
Da bambino guardavo la facciata del Teatro Stabile con sguardi rispettosi, nutrendo il pio desiderio di poterci entrare, un giorno, come entravano gli altri, i grandi, le persone per bene della città, per ammirare l'interno, di cui mi raccontavano meraviglie, certamente esagerando: poltrone, palchi, palcoscenico, velluto rosso, scene, colori, luci. Serviva a stimolare la mia fantasia e, qualche volta, giravo intorno al palazzo come se potessi scoprire la verità attraverso i muri o, magari, qualche feritoia o finestrella aperta.
Ammiravo anche la gente che vi entrava, era ben vestita e corretta, non l'invidiavo, perché l'invidia non mi è stata congeniale, e perché ero sicuro di essere, un giorno, uno di loro.
Era quasi uno spettacolo in Piazza quando, in determinate occasioni, si accendevano i grandi lampadari dei saloni, che con i grandi balconi e la lunga balaustra, rendevano più imponente la facciata del Teatro. Erano le feste dei « galantuomini », che avvenivano anche con una certa frequenza, in particolare durante il periodo di Carnevale, o erano feste di ricevimento di grandi personalità, venute da fuori.
Attraverso quei balconi filtravano immagini di crocchi di uomini e donne in eleganti abiti da sera, di coppie, che si dondolavano alle struggenti note di indiavolate polche o valzer o mazurche o di appassionati tanghi argentini, con pause per il meritato rinfresco.
Al di là di quello che si vedeva, si diceva, vi fossero i locali riservati con i tavoli da gioco, dove qualcuno si giocava anche l'anima, commentò un giorno un amico. Non ho mai approfondito le dicerie perché non ho mai saputo giocare, non ho mai avuto beni da dilapidare al tavolo da gioco, anzi, ho avuto sempre una specie di idiosincrasia per le carte e per i giochi, in genere.
Non ho ricordi personali dell'attività del Teatro perché non ebbi possibilità di frequentarlo ma so che opere, operette, drammi, commedie, con grandi compagnie dell'epoca, furono rappresentate allo Stabile e che grandi attori « tuonarono » dal suo palcoscenico.
Purtroppo, con il tempo malvagio, anche il Teatro finì di essere tale e fu trasformato in una comune sala cinematografica con scricchiolanti poltroncine di legno e il terremoto del novembre del 1980 ha completato l'opera. In me non resta l'insoddisfazione per le opere teatrali, che non ho visto, resta l'amarezza per il degrado inesorabile e progressivo, che ha subìto il Teatro, ma alimento anche la speranza che io possa rivederlo restituito al suo antico splendore per il godimento spirituale e culturale dei miei figli e dei miei nipoti, di coloro che continueranno ad amare questa città.
E dopo il Teatro, il ricordo corre all'Emporio Ricasoli, che era subito a lato, dopo l'arco, dove, oggi, vi è Ferrara con « Tabacchi e Giornali ».
Se è vero come è vero che » a dir le sue virtù basta un sorriso » è altrettanto vero che « a dire le virtù dell'Emporio Ricasoli basterebbero la foto e il depliant nel testo ».
Erano in due, i Ricasoli, fratello e sorella. Due figure caratteristiche fisicamente ed ancora di più negli atteggiamenti e nei discorsi. Piccolini di statura, rotondetti, con la pelle liscia e lucida, quasi burrosa, cerimoniosi, pieni di « inchini » e di « prego » « grazie » erano « una macchietta » di tutti i giorni ed a tutte le ore.
Furono, però, e, credo, questo fu il loro merito maggiore, i primi a capire il significato commerciale dell'Emporio e ad attrezzarsi ad Emporio. Vissero bene ed ho motivi per credere che fecero anche buoni affari sia per la varietà e la buona qualità della merce e sia per la ubicazione del negozio: un punto di obbligato passaggio. Il più delle volte si entrava per curiosare e si usciva con il pacco.

Tutt'intorno alla Piazza vi era « una sequenza di botteghe e di affollati ritrovi », come scrive Michelino Pergola, nel suo già citato libro «Potenza scomparsa», la drogheria Telesca, la Tabaccheria Ferrara, la pasticceria Larocca, i Tessuti di don Domenico Manzo, uomo di una certa imponenza fisica, che ricordo Priore della Congrega di Santa Maria nel suo candido camice bianco con tracolla di sciarpa, tempestata di ricami in oro, e bastone di comando, sormontato da un grosso pomello, raffigurante una « tiara », che alle luci dell'altare o ai raggi del sole mandava luccichii vari e variamente colorati. Ma lo ricordo anche per la sua voce baritonale, che spiccava fra quelle del coro, durante la Messa cantata o le varie funzioni religiose.
Non ricordo il cinema Moderno, che, sempre a quanto scrive Michelino Pergola, propinava per quaranta centesimi fumettoni di due o più puntate, mentre ricordo la « popolare Sala Roma dove s'alternavano piovosissime pellicole e casalinghi cancans. Di tanto in tanto qualcuna delle « 10 Ghirilles 10 » abbandonava la fila per zittire con frettolose poppate il frignante rampollo. Le rumorose proteste del pubblico venivano stroncate dal baffuto gestore con la decimazione degli spettatori più gracili ».
Non ho motivi per non ammettere che la Piazza, nel corso degli anni, vide, fra i tanti, anche degli ottimi Prefetti, capaci di dirigere una Provincia difficile, come la nostra, e competenti. Sono sempre antipatiche e poco cortesi le graduatorie di merito ma, in coscienza, non potrei nemmeno azzardarle perché non avevo l'età, non peso sociale e, quindi, nessuna esperienza diretta. Potetti raccogliere delle voci ma, il più delle volte, la «vox populi» non corrisponde alla « vox Dei » ed allora è onesto tacere. Un Prefetto, però, non sfuggì alla mia attenzione e, nemmeno, alla attenzione delle persone per bene, capaci di superare pregiudizi e prevenzioni, di saper apprezzare il bene, da qualsiasi parte venisse: il ragionier Giuseppe Avenanti (dal 20-1-1934 al 30-6-1937).